Postfazione

L’Albero di Giuda è il terzo romanzo di Silvana Grasso, uscito nel 1997, a seguito di una prima raccolta di racconti, Nebbie di Ddragunàra (1993), e dei romanzi Il Bastardo di Mautàna (1994) e Ninna nanna del lupo (1995). Successivamente sono stati pubblicati La pupa di zucchero (2001), Disìo (2005), la raccolta Pazza è la luna (2007) contenente altri dieci racconti e il romanzo L’incantesimo della buffa (2011).

La biografia letteraria della scrittrice, nata a Macchia di Giarre e residente a Gela, include inoltre alcune traduzioni dal greco (I piaceri della mensa di Archestrato di Gela, Un banchetto attico di Matrone di Pitane, La dieta dimagrante di Galeno) e un epillio (Enrichetta sul corso, 2002). Un divertissement esilarante, esplicitamente autobiografico, 7 uomini 7. Peripezie di una vedova, è uscito nel 2006. Dall’anno succesivo, per un biennio, ha curato una rubrica settimanale dal titolo “La Gorgone” sul quotidiano «La Sicilia», proponendo una scrittura personale e affrontando argomenti di cronaca con lo sguardo dell’umanista. Di recente un racconto di Pazza è la luna («Manca solo la domenica») è stato portato in scena in un adattamento teatrale.

Il percorso narrativo della Grasso ha un comune denominatore ravvisabile nella lettura di un suo qualunque testo: la lingua. Silvana Grasso è la sua lingua.

Dice lo scrittore portoghese Vergílio Ferreira: «Una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del nostro pensare e sentire. Dalla mia lingua si vede il mare.» Si potrebbe parafrasare che dalla lingua di Silvana Grasso non solo si vede l’Etna, ma essa stessa è l’Etna: una lava eruttiva che ripropone il murmure mai sedato del vulcano, la Montagna-montagna (Mongibello è toponimo elativo che nasce dal latino ‘mons’ e dell’arabo gebel, ugualmente ‘monte’) che sovrasta i paesi circumetnei e che si ripropone linguisticamente nella sciara rovinosa di elenchi asindentici di nomi, aggettivi, verbi. Non si tratta unicamente di un binomio scontato che lega un autore alla sua personale lingua letteraria né si tratta di una ricerca compiuta ai fini di una più piena realizzazione della scrittura. Nel caso di Silvana Grasso la lingua è tana, difesa, roccia, recinto, luogo di autodefinizione ed essenza identitaria. Chi si trovi a sentirla parlare non avvertirà cesure tra la pratica orale e quella scritta: le sue parole scorrono, nell’una e nell’altra, con forza non domata, trascinando aulicismi danteschi, proverbi popolari, massime senecane, gerghi e disfemismi, regionalismi siciliani, onomatopee morfologizzate. Che la sostanza sia plurilingue ed espressionista è una conseguenza, più che una scelta predeterminata.

Nei temi e nello stile nulla di più lontano dalle formule editoriali concepite per andare incontro alle attese del mordi e fuggi (pseudo)letterario con i suoi cataloghi dell’ovvio. Niente adolescenti in crisi, nessuna ricostruzione storica, nessun poliziotto che segua tracce e soprattutto nessun linguaggio a buon mercato né uno “stile provvisorio”1. È una scrittura d’impeto, sottoposta alle sue sole ragioni, non oleografica né salvifica, che non cerca consensi né lancia messaggi; che non fornisce approdi ma semmai lacera certezze e sottopone ad un duro scavo nel sé inespresso, nascosto, impedito. È una scrittura figlia dell’arsura, ma come tale non è dissetabile né disseta. Essa nasce da sensi allertati che traggono esperienza (e ispirazione) da tutto ciò che è della Natura: dall’algida lucidità del ghiaccio al sangue del tonno che schizza al mercato, dalle foglie del pistacchio che cangiano colore a fine agosto al budello dell’agnellino usato per avvolgere un condimento gastronomico, dal profumo inebriante della zagara al verme solitario tenuto a mollo in un catino. La vista, il tatto e l’odorato sono le porte, le prime porte della conoscenza, i primi canali emotivi e cognitivi. Quelli attraverso cui la Natura insegnava e comunicava le sue bellezze e i suoi misteri.

I sensi, durante l’infanzia dell’autrice, sono stati i surrogati della parola e nei testi spesso costituiscono la cellula generativa o caratterizzante di alcuni personaggi (il tatto per Mosca, l’udito per Sasà). In questa dimensione sensoriale non si avverte quasi distanza tra il meccanismo autobiografico e la voce autoriale. Infatti, come dalla Grasso spesso dichiarato, il suo accesso al mondo delle parole è stato tardivo e ciò si rispecchia nella prima parte di Disìo, racconto di un doloroso mutismo e di un isolamento le cui cause sono rintracciabili in una componente traumatica. Il primo accesso è alla sillaba più che alla parola dotata di significato: l’autoreferenziale e balbettante Memi è il nome, non casuale, della protagonista. Silenziosi o muti sono altri personaggi grassiani, primari e secondari: su tutti Mosca (nome parlante, in quanto l’interiezione “musca!”, in siciliano, intima al silenzio) in Ninna nanna del lupo, ma anche Emilio Mangiulli, detto l’Anima, antagonista di Disìo, il Pinna dell’Albero di Giuda, Teresilla (dopo l’incesto con lo zio) nella Pupa di zucchero, Ninofocu (Le Madonne di Ninofocu) e l’innominato protagonista di «Regalo di Natale» in Pazza è la luna.

Il silenzio personale, in cui covava una scelta di solitudine, di alterità, di i-solitudine e quasi di autismo, ha dovuto, durante gli anni scolastici, aprirsi all’italiano. Ma rispetto a quell’italiano anemico e privo di nerbo delle sue compagne di città, quanto più potente ed evocativo il dialetto! E, alla scoperta del latino e del greco, ecco trovata una nuova via di fuga! Per la Grasso andrebbe applicato, come elaborato dal martinicano Edourd Glissant, il concetto di identità-rizoma piuttosto che quello di identità-radice2, in quanto nella sua lingua convivono con pari dignità le parole del dialetto, del greco, del latino, dei diversi registri dell’italiano.

La lingua di Silvana Grasso depista il lettore: sembra frutto di barocchismo, di artificio, di costruzione meditata. In realtà la sua lingua è spinosa e invalicabile quanto per lei è stata inaccessibile una lingua di stoppa, inconsistente e sterile e lei stessa ha polemicamente rifiutato l’inscrizione dentro il giudizio frettoloso di scrittrice “barocca”:

Quando la lingua d’una scrittura non ha le regole dei monaci benedettini, né l’euritmie dell’amanuense ellenistico o bizantino, ma l’aritmia del guitto, del giullare, del capocomico di strada, è, per inettitudine interpretativa, barocca. Così molti degli scrittori siciliani, singolari per physis e temperamento linguistico, sono intruppati, maldestramente rozzamente, nella chiatta del barocco.3

E dunque, nei testi grassiani, l’avventura della parola è contrassegnata dalla suggestione del suono, poi del significato. In alcuni casi suono e significato vengono riconosciuti come signum, come stigma personale e ominoso. Nascono così le “parole incestuose” di Silvana Grasso4, quelle che vengono trascinate senza posa da un testo all’altro, in forme morfologicamente diverse, metafore di una poetica che si esalta nella parola-isolante sebbene gravida di accezioni che oscillano dal denotativo al connotativo e che si caricano di suggestioni etnoantropologiche e classiche: ddragunàra (‘tempesta marina’, ma anche ‘moto perturbato dell’anima’ e infine, ma forse primariamente, ‘mostro, drago’); lupo (presente come antroponimo ufficiale e popolare, come toponimo e anche in varie forme aggettivali e in composti); disìo (nella doppia accezione dialettale di ‘passione’ e di ‘voglia del neonato’, anche questo presente in veste verbale e aggettivale); incantesimare (dal sic. ncantisimari, col senso di ‘incantare’ ma anche ‘fare una fattura’); luna (presenza leopardianamente allertata nei momenti topici di tutti i testi); crapuliare (variante areale di sic. capuliari, ‘tritare’, ma anche ‘angariare, tartassare’, voce che ha ben ottanta occorrenze nella sola raccolta Pazza è la luna). Dalla parola al mondo che ci si costruisce attorno, la prosa grassiana dà una ragione narrativa alle scelte plurilingui, non perché il mondo narrato sia localistico, ma perché raffigura artisticamente lo scarto esistenziale prima ancora che quello linguistico.

Lo studio delle occorrenze lessicali e di precise figure retoriche permette di svelare ciò che, forse, voleva restare celato e che costituisce il ghenos primigenio dell’ispirazione: il rapporto dualistico con le madri. La madre-terra, la madre genetica e la madre-lingua.

La ricerca dell’identità, infatti, trascorre in mezzo a dissonanze e conflitti, metamorfosi e necrosi che si ricompongono soltanto linguisticamente e stilisticamente, nell’unico parto il cui frutto non delude:

La voce di Memi inguttì come di pianto e volse in canto:

vola vola taddarìta cu la còppula di sita

vola vola taddarìta ca t’aspetta la to zita…

Sotto il lampione, accecato dalla luce, furriàva cieco e pazzo un pipistrello e vi sbattuliava contro, incapace di prendere il largo con la mantiglia alata. Vola vola taddarìta cu la coppula di sita, era una nenia siciliana, e Memi cominciò a cantarla piano, con una calata siciliana che non lasciava dubbi sulla sua nascita, al pipistrello dalla testa lucente come una cuffia di seta, a che volasse in cielo dal suo amore, dalla sua zita.

Si perfezionava in quell’istante la sua metamorfosi, pensò Memi, mentre la nenia usciva dalla sua bocca con la naturalezza con cui un feto, a gravidanza matura, abbandona le viscere note. Non doveva nascondersi più, né nascondere, ora poteva guardarli gli occhi di sua madre anche se solo dalla foto al camposanto, una foto a colori nella maiolica incorniciata d’argento. Ora dalle ceneri d’una anagrafe di carta, dallo sprofondo d’una contraffazione anagrafica, riemergeva furiosa la sua sicilianità, il suo marchio, come un vulcano eruttato da antri marini, per doglia d’onde e sgricci di fuoco e vampe e scolo funereo di vapori, sventra e dissangua il Mare.

Ora poteva gridarlo ch’era Memi Memi Memi, sia pure nel sussurro d’una nenia antica, ora poteva raddoppiarle triplicarle quadruplicarle dd ddd dddd le dentali come facevano i veri siciliani. (Disìo, p. 204)

Il recupero della lingua-madre (il dialetto) e il recupero del rapporto con la Terra sono assicurati dalla scrittura attraverso un gioco di specchi in cui ciascun elemento della Natura è spesso caratterizzato dal dialettismo che espressionisticamente lo definisce (il mare, ad esempio, catarrìa; le onde zingarìano, sbrizzìano o lagnusìano; le acque sono chiangiuline o arraggiate; il vento nnaculìa; il giorno vamparìglia e la notte è stiricusa; il sole si gnuna o sfruculìa mentre la luna è, a guisa di donna di strada, strafalària, buttanisca, zanniante, burdillàra, arraggiata. Dalla sua postazione sempre uguale e sempre diversa essa spicchiulìa, scursunìa, smurfìa, sdirrubba, sfantasìa, si infulinìa, spicunìa, ecc.; la montagna ruìna e intruppica; il terreno jmmurisce; le stelle sono picciridde; il papavero scurrulato; ecc.). Non così per il rapporto con la madre, come si vedrà in seguito.

L’eterogeneità antipurista che sta alla base delle scelte linguistiche della Grasso è punteggiata da diversi strati lessicali (dialettale – con vari livelli di adattamento morfo-fonologico e con voci arealmente precipue dell’area dell’autrice oltre che pansiciliane –, regionale, italiano – dagli aulicismi ai gergalismi ai neologismi –, allogeno a prevalente base latina e greca) che variamente si intersecano, sfuggendo in genere ad una prevedibile tessitura a parità di elementi testuali e co-testuali.

Il dialetto, ubertoso e denso, sembra voler contrastare non soltanto all’anemia (almeno presunta dalla Grasso) dell’italiano, ma soprattutto ad una realtà anemica, stereotipizzata, falsa. L’espressionismo che ne origina ha spesso effetto evocativo, mitizzante e atemporale e pervade il testo al di sotto e aldilà della scrittura.

Anche stilisticamente la narrativa grassiana presenta precisi caratteri che non possono sfuggire al lettore.

Vera cifra retorica è, nelle prime prove, la similitudine («Per gli occhi di Semenza non ci fu niente da fare. Rimasero secchi come il pane quando non lievita a tempo; Clementina aveva sputato via ogni traccia di inglese come nòccioli d’olive e ossi di capretto») che via via lascia il posto alla metafora che si concretizza in diverse costruzioni (sostantivo + aggettivo/participio passato: seni grossi sbocciati; sostantivo + verbo: l’acrore dell’urina […] caprioleggiava dal dammuso; sostantivo + sostantivo, attraverso la preposizione polifunzionale “di”). In particolare quest’ultima saldatura, spesso con valore analogico (il mosto del tramonto; pupille di rovi; color di candelora; serto d’ossa), appare fondante dell’intera opera della scrittrice tanto da apparire anche nei titoli dei romanzi (tranne in Disìo), come se ciascun referente avesse bisogno di un altro perimetro concettuale e/o emotivo entro cui essere contenuto. Similitudine e metafora5 giocano un ruolo ermeneutico non secondario, in quanto i personaggi agganciano le proprie percezioni a specifici ambiti esperienziali (il cibo su tutti, ma anche la Natura, il corpo) e alla luce di questi esprimono giudizi e costruiscono l’essenza delle proprie vite, sebbene, leggendo il complesso dei romanzi, traslati e connotazioni si rivelino infine fallimentari dal punto di vista conoscitivo. Infatti, nonostante tentino di spiegare la realtà con i codici della poesia, forzando la furiosa e straripante vis della parola, assimilando il lontano, spostando i paradigmi dei significati, introducendo interpretazioni e sensi, scardinando l’oggettività e lasciandola in balìa di passeggeri momenti emotivi, cercando, quindi, di riplasmare il vero attraverso la parola creatrice, alla fine, la denotazione attribuisce alle cose la loro vera e non contrattabile sostanza, come enunciato nelle parole di chiusura di Disìo:

Era incontaminata la luna da quel cancro, il Giudizio, che ogni uomo ha in sé nascendo, solo perché viene al mondo, solo perché sarà nome nell’anagrafe d’un paese. La luna non doveva giudicare né patire né capire. La luna era solo la luna. (Disìo, p. 251)

La metafora serve, dunque, a «ordinare in un numero limitato di insiemi analogici l’infinita variabilità del mondo»6 e ciò traduce uno stile di ragionamento popolare da cui non è esente la stessa autrice.

In ambito retorico altrettanto importanti sono analessi e prolessi testuali: all’inizio dei romanzi, le analessi riavvolgono il tempo per ricostruire gli antefatti; ma subito interviene la prolessi, che, narrato il fatto, riporta avanti l’azione narrativa, tra continue accelerazioni e bruschi ritorni. La dilatazione narrativa viene perseguita anche con altre tecniche retoriche: le figure dell’amplificazione, verticale e orizzontale, hanno infatti lo scopo di rallentare lo sviluppo dell’intreccio e di focalizzare alcuni elementi testuali, distogliendo quasi il lettore dalla vicenda e bloccandolo nella visualizzazione icastica di scenari naturali, scene comunitarie o paesaggi interiori.

Questa “coazione” a ripetere/ripetersi si realizza su tre livelli:

  • sintattico: attraverso lo strumento delle anticipazioni dislocative con il pronome cataforico (li aveva voluti i guanti di lana; ci s’attaccò con tutta l’anima a quella creatura; “Prendila una cassatella, Bruno”);
  • infratestuale: attraverso la prolessi o attraverso la reiterazione di alcune immagini peculiari. Si prenda come esemplare il caso del racconto «Via col vento», in Nebbie di ddragunàra, di cui si riportano tre diversi passaggi (l’ultimo dei quali chiude la narrazione). La strategia è formulare più che autocitazionale:

Nel cielo, in su l’arena […] un lucciolar di nuove stelle e, acre, un odor di pomodoro, secco ai soli di luglio, nel tegame di coccio. (p.140)

Era, il Passo delle Giumente, un frangivento di Natura […] si clinava sul paese a vegliarne, col verdore de’ suoi castagni, le malfide casipole e l’estratto di pomodori che si cagliava ai soli di luglio nei tegami di coccio. (p.136)

Nel collo grasso di Frafrà si seccava, al soffio di favonio, nei soli d’aprile, il borotalco ai gelsomini. Si seccava come il sugo di pomodori, sui tegami di coccio, nei balconi fioriti di basilico e magnolia. (p.146)

  • intertestuale. A sua volta distinto in:
  1. a) lessicale (attraverso quelle che abbiamo definito “parole incestuose” talora connesse ad aspetti tematici);
  2. b) citazionale a sua volta distinto in autocitazionale ed eterocitazionale;
  3. c) tematico a sua volta distinto in microtematico (es.: il carrubo come albero dei suicidi) e macrotematico (es.: le relazioni familiari).

Addirittura alcuni racconti anticipano episodi, trame, personaggi, luoghi che verranno più ampiamente ripresi nei romanzi, come gameti ispirativi che attendono il tempo della maturazione (e, in tale corrispondenza e mutua dipendenza, la Grasso ricalca una modalità verghiana, pirandelliana e sciasciana).

Persino la catena onomastica si declina secondo una riconoscibile prospettiva umana e spaziale, un catasto costruitosi ai piedi dell’Etna, nel girovagare tra geografie di provincia. Qui si dipanano le vicende di personaggi che non hanno certezze: non l’appartenenza, non la famiglia, non l’amore, non la religione, non la cultura. Il ganglo primo è costituito proprio dalla famiglia, sempre caratterizzata da presenze ingombranti e assenze ancor più pesanti, che orientano verso l’unico finale possibile, ossia il fallimento relazionale, l’impossibilità di essere se stessi al di fuori dalle cicatrici che segnano il trauma dell’infanzia, tra madri che iperproteggono e padri che condizionano, madri che abortiscono fisicamente o spiritualmente e padri che non riconoscono. La famiglia (e la madre, in particolare) è quasi sempre carnefice, eterno riprodursi dell’archetipo di Kronos che si nutre dei figli.

L’umanità malata che viene così rappresentata manifesta anche sulla propria pelle i segni dell’abbandono, della delusione, del rancore, della fragilità: dominati da tic e patologie, alla ricerca di un’identità che è anche una prigione da eludere, la extra-ordinarietà di ciascuno si rivela a partire da un’inopportuna capigliatura rosso sangue, da una voglia che denuncia una parentela che non dovrebbe esserci, da un eczema imbarazzante, da una sordità schizofrenica, da un’ernia sovrabbondante. Le descrizioni che indugiano sul disfacimento, il marciume, le malattie più repellenti che ammorbano i personaggi, maschili e femminili, a sfregio di ogni scenario idillico, sono proprio manifestazione estetico-etica di una fuga dall’ordinarietà, dal bello patinato, dalla medietas accettata e accettabile.

Come la Natura, anche i corpi sono contrassegnati stilisticamente dal dialettismo o retoricamente dalla metafora, indicando la strada di un’espressionismo biologico assolutamente originale: gli occhi sono di volta in volta nichinichi, spitrisciùti, muccùsi, scuzzulati, ncravunati, larunchi, spirdati, scaddarizzati, ammennulati, sprilucenti, tuculiati, ecc.; i capelli rizzi, impidugghiati, rossodiavuli, scursunianti, allatiati ecc.; la pancia scatasciàta e la pelle appirognata. Se Contini a proposito di Faldella avvertiva un «parossismo psicologico condizionato dal parossismo formale»7, nella Grasso si può dire che tale parossismo è di matrice biologica prima, psicologica dopo.

Tra tutte le malattie l’unica salvifica sembra essere l’ebetismo di Janìa, figlio della selvatica Stinca del Bastardo di Mautàna, abbondonato alle cure della zia cieca e alla derisione dei passanti, ma in definitiva sottratto allo sterile gioco della ricerca della felicità e dell’impossibile comprensione del senso della vita.

Lungi da un atteggiamento nostalgico, il mito dell’infanzia e della terra non sono mai fini a se stessi, ma sempre contestualizzati e attualizzati per sancire una frattura che non può non avere conseguenze sul piano individuale prima e sociale dopo.

Vie di fuga dallo status patologico sono la lingua (e talora il silenzio della lingua, come nel caso di Mosca in Ninna nanna del lupo e di Teresilla nella Pupa di zucchero), la metamorfosi (ma come Mattia Pascal non potrà che fingersi Adriano Meis, così i personaggi grassiani dovranno rinunciare al cambiamento) e il suicidio. Nei testi, infatti, si alternano tanti suicidi veri (ad esempio il giovane predicatore e Stinca nel Bastardo di Mautàna; i fratelli Corallo della Pupa di zucchero), tentati (quelli di Sasà nell’Albero di Giuda) e inscenati (il giovane medico con molti titoli ma nessuna raccomandazione e un giovane Sostituto Procuratore veneziano entrambi in Disìo). Ma le fughe si risolvono in una disfatta della ragione e in un ritorno alle sorgenti del proprio dolore individuale.

L’Albero di Giuda

In questa prima riproposta dell’opera grassiana, l’effervescenza linguistica e i germi delle relazioni malate sono sottoposti alla leggerezza dell’ironia e alla causticità del paradosso ed emerge un elemento che la stessa scrittrice, ad oggi, non ha debitamente sfruttato, ossia la vocazione teatrale della sua stessa scrittura (denunciata, nel romanzo, dai frequenti interventi metalinguistici di autoglossa).

Nell’Albero di Giuda sono presenti tutti gli attributi stilistici e narrativi della Grasso, a partire da quel respiro del mare avvertito dal solo protagonista, mentre per il resto della comunità si tratta più prosaicamente e realisticamente dello sfiato delle ciminiere. Sono quindi da subito padroni della scena la Natura, nel bene (l’incantagione dell’erica, le spume azzurrine lucenti) e nel male (gli scogli ingrommati, le genziane aggruppate), ma soprattutto i corpi deformati degli uomini e assimilati a quelli di vari animali: da Tommasina “una larva di verme solitario” alla Pèttica “mostro con corpo d’orcinus orca e gambe di cicogna”, da Ada dai “polpacci bovini” a Cataratta “tacchinotto”. Persino il neonato Sasà è assimilato, dal suo stesso padre, a una “cacca di rospo che solo le gambe dicevano appartenere alla razza umana”. In questo romanzo anche l’anima è “attisichita e mingherlina” e il cervello “crudo apporrito”.

Il romanzo è ambientato a Bulàla, paese marinaro fittizio (ma il toponimo era apparso come nome di contrada nel “Bastardo”), e ha come palcoscenico principale una brancatiana Villa Comunale, dove è solito riunirsi un gruppo di amici settantenni di estrazioni sociali e culturali diverse che dà vita al “Partito delle minghiate” la cui discussione si anima intorno a “artrite varici prostata prolasso coliche”, mentre nella Piazza attigua i giovani si infiammano parlando di donne e politica.

Centrale è il rapporto fra Sasà, figlio viziato e dalla vocazione melodrammatica, e il padre Cornelio, vulcanico e tronfio direttore didattico che nella nascita del figlio ripone vanamente ogni speranza. Sin dalla primogenitura mancata di un soffio, e che non garantisce la trasmissione del nome del nonno (il roboante Rolando, che verrà attribuito al cugino), Sauro (zooantroponimo antifrastico rispetto alla natura del personaggio) dovrà compensarne la perdita attraverso l’impalcatura dell’impostura paterna relativa alle sue presunte doti intellettive e virili. La dualità tra i due cugini, stabilita aprioristicamente da Cornelio (“intelligente Sasà, cretino Rorò”), verrà erosa dal destino simbiotico che invece li legherà sino alla fine, persino nello svilimento dei due ipocoristici che li confineranno, per sempre, al di qua del mondo adulto.

Tutte le insubordinazioni architettate da Sasà contro i metodi pedagogici del padre si riveleranno vane pose declamatorie, manifestazioni dell’unica capacità innata, l’autocommiserazione, utili a celare una profonda inettudine. Attorno a questa inettitudine, però, Sasà costruisce una barriera di parole, di idee prese in prestito da scrittori mitteleuropei e da filosofi illuministi che sembrerebbero ricacciare ai margini l’arretratezza del mondo d’origine. Anche l’amore sarà recitato, ma il mondo di uomini e donne, in questo romanzo, è destinato a non incontrarsi mai se non sul terreno delle convenzioni, delle indifferenze e, in fin dei conti, del reciproco disprezzo.

In attesa di affezionarsi all’albero di Giuda, un albero della Villa dai pennacchi arancioni dove s’era impiccato un collega trenta anni prima, e dopo aver chiamato Giuda le tredici tartarughe avute dopo la morte della terribile moglie, Sasà tenterà un numero indefinito di volte di suicidarsi tra le pernacchie degli amici di sempre. La tartarughe, invece, moriranno in vece sua precipitando dal terrazzino di casa in cerca di acqua e lattuga.

Nel testo il narratore è esterno, come testimoniano i frequenti interventi metaletterari e metalinguistici: è questo, infatti, l’unico romanzo in cui alcuni dialettismi vengono tradotti o glossati, in cui si fa ricorso al sistema paragrafematico del maiuscoletto, del corsivo e del grassetto, in cui l’enfopunzione sembra giocata in chiave di resa mimetica dell’oralità. Diversi, infine, i registri messi in campo: dall’italiano popolare del Cataratta, alla magniloquenza di Sasà, dalle onomatopee che riproducono cadute, sfiati, rapporti sessuali, urla e sussurri alle fono-riproduzioni del parlato (l’ammèsssstruo) e dell’allegroforme (riprodotto attraverso molteplici univerbazioni: frettefuria, calcinculo, in pizzinpizzo ecc.), dal parlato burocratico ai disfemismi più creativi (mmuccalapuna, occhiudicapra, rusicaossa, minnappirrugnàta, cardacòri, mangiafeli ecc.). L’oralità scardina la sintassi e frange i periodi in frasi ellittiche, fatismi, esclamazioni, monosillabi. Il fonosimbolismo del testo ha una precisa radice nella costruzione tutta martogliana dei personaggi che più volte sono chiamati a impostare voce e tono seguendo le strategie dell’actio retorica:

Doveva avere l’aria di un grande segreto, d’una confessione delicata, e così studiato il tono della voce (grave solenne accorato) le parole (enigmatiche spettacolari esplosive), il ciglio (aggrottato aggrondato annuvolato) esordì: […]

Come esito dell’identità negata e di una vita condizionata, i due estremi, Rorò e Sasà, rivali per volere dei genitori, ricostituiranno, con la morte, una osmosi risarcitoria:

Sasà pensò che se proprio non gli riusciva di impiccarsi all’albero di Giuda, avrebbe acconsentito anche a morire di morte naturale […]. Insieme a Rorò voleva morire. Non un attimo prima né uno dopo, ma nello stesso istante. Insieme.

Trattandosi di una scrittrice siciliana scatta la necessaria tentazione del confronto con gli autori otto-novecenteschi e con i contemporanei. Rispetto ai più recenti non vanno cercati nella Grasso il logos di Sciascia, la scrittura metafisica di Bufalino, la leggerezza diafana e il cesello di Pizzuto, l’attenzione sperimentale di D’Arrigo, l’affresco documentario di Consolo, né il pastiche camilleriano al servizio di vicende esterne all’autore stesso. Più vicina nei temi e nelle atmosfere agli autori orientali, Verga, De Roberto, Brancati e, per alcune scelte retoriche, allo stesso Bufalino. I romanzi sin qui espressi, anzi, sembrano inverare la Marea verghiana, ripercorrendo attraverso la stratificazione sociale l’impossibile approdo alla felicità: dal “Bastardo”, di ambientazione arcaica, quasi primitiva, a “Ninna Nanna”, storia di un’emigrata dei primi anni del XX secolo, all’“Albero”, in cui i protagonisti si elevano nella scala sociale (Cornelio Azzarello è Direttore didattico e fa laureare il figlio, nato il 13 agosto 1925, nella prestigiosa università di Padova), alla “Pupa”, vicenda di ricchi feudatari che si svolge sino alle porte del 1968, a “Disìo”, ambientato nella Sicilia contemporanea, tra professionisti e politici regionali. Un epos travolgente che oscura eroi titanici e antieroi e che solo in apparenza oppone tradizione contadina e mondo cittadino, senza però mai arrivare ad una esaltazione utopica della prima, anzi, sottolineando, sempre e ovunque, la sostanziale bestialità umana.

Lo stile grassiano, con l’alternanza tra brutalità espressionistica e momenti lirici (che trovano nei distici incipitari del Bastardo il loro momento più esplicito), la commistione tra strutture sintattiche dell’oralità e costruzioni ipotattiche più complesse, con la variatio, dunque, esercitata su più livelli, a nostro avviso, non costituisce tanto una risposta pensata al superamento della infinita questione della lingua, quanto la riproposizione letteraria di un rapporto personale con la lingua/le lingue. Questo tessuto in cui agiscono tensioni e conflitti linguistici ha trovato in importanti critici (Cesare Segre, Giulio Ferroni, Natale Tedesco, Massimo Onofri, Luca Canali, Lorenzo Mondo, ecc.)8 il suo riconoscimento.

Cambiano, infatti, nomi e contesti, ma la sofferenza agisce a partire dalle stesse cause e si manifesta nel disprezzo per la “roba” e per l’esistenza stessa. Silvana Grasso dà vita ad una mitografia dove si incontrano vecchi e nuovi mostri, vecchie e insostituibili divinità, gemellarità di sangue e di animo, infanzie dolorose, illusioni disperate o commoventi, ragioni in bilico, una mitografia, infine, espressa attraverso parole che tentano di costruire una mappa conoscitiva impossibile sotto la dolorosa e immota bellezza della luna.

Marina Castiglione


1 Secondo la polemica definizione che Maurizio Dardano attribuisce a gran parte della narrativa contemporanea (M. Dardano, Stili provvisori. La lingua nella narrativa italiana d’oggi, Roma, Carocci 2009).

2 S. Grasso, La ciclopica quaestio, in «DonnaWomanFemme. Questione di stile», n. 42-43 (1999), Roma, Utopia, pp. 32-37, a p. 35.

3 E. Glissant, Introduction à une poétique du divers, Paris, Gallimard 1996; trad. it. Poetica del diverso, Roma, Meltemi 1998.

4 M. Castiglione, L’incesto della parola. Lingua e scrittura in Silvana Grasso, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore 2009.

5 Maria Corti individua, invece, nell’ossimoro la figura retorica che sostanzia l’intera opera di Gesualdo Bufalino (G. Bufalino, Opere 1981-1988, Introduzione di M. Corti, Bologna, Bompiani, 1992, pp. VII-XXX).

6 C. Papa, “Noi siamo come un albero…”, in «Ethnos, lingua e cultura» XXXIV (1993), pp. 273-296, a p. 296.

7 G. Contini, Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Torino, Giulio Einaudi Editore 1988, p. 103.

8 Si vedano, tra gli altri interventi:

C. Segre, Quel desiderio di vincere il male, in «Corriere della Sera», 27.09.2005.

C. Segre, Nati sotto il segno di una luna impazzita. Se la natura è matrigna, omicidio e amore vanno di pari passo, in «Corriere della Sera», 03.06.07.

G. Ferroni, Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero, Laterza, Bari 2010.

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