Le proteste della zia Carolina e della sorella riguardo al trasferimento a Costa Zampogna furono terribili più d’una vera guerra.
Minacce, insulti, gomitate, sputi, cosa non dovette subire il povero Cornelio Azzarello per amore del figlio?
Toccò a lui il feroce bestiale assalto delle due donne, che ben sapevano cosa le aspettava vicino al laghetto. Zanzare a non finire, malaria in agguato, per non dire che la casa era accomodata (mancava la luce, il cesso alla turca era fuori, mancavano i materassi, e non c’era la ghiacciaia cui ormai s’erano abituate).
«Non ne avete cuore?… il povero figlio è anche vostro… povera creatura sventurata…»
Cornelio parlava al plurale per coinvolgere Carolina in una maternità di riflesso, maternità che le cascava dal cielo.
«Carne della vostra carne è la creatura… a una buttanazza lo volete consegnare?… perdere si deve un tale gioiello di figlio? dov’è scritto? dov’è il cuore d’una madre? e che? non me le prendo le zanzare io, e la malaria se servirà a salvarlo il nostro Sasà…»
Il tono del Direttore Azzarello era assai diverso dal solito. Si affidava alla pietas all’amore all’indulgenza alla supplica.
Tenero sofferente patetico piagnucoloso. Il groppo di lagrime alla gola, gli occhi persi disperati. Le cigliette spiumate.
Cornelio Azzarello aveva cambiato solfa, perché se quelle cretine si fossero intestate col non volersi spostare dal paese, a Costa Zampogna non ci si poteva andare (Chi avrebbe lavato cucinato riassettato nettato il cesso?) e il nobile ingegnoso piano del suo Sasà sarebbe andato a monte.
Cornelio Azzarello credeva infatti d’avere capito – bastava che si guardassero negli occhi padre e figlio – il significato di quella folle richiesta di trasferimento a Costa Zampogna. E ne era felicissimo. Una Pasqua.
Credeva che Sasà volesse annegarla, dentro qualche pozzanghera del laghetto, la friulana, simulando una sciagura. Anche perché era arciconvinto che la friulana non sapesse nuotare.
Quindi anche quei pochi litri d’acqua sarebbero stati più che sufficienti per annegarcela come si faceva coi gattini appena nati.
Del resto i dintorni erano deserti. Chi doveva sentirle le sue grida d’aiuto?
Chi avrebbe dovuto soccorrerla?
Quanto al dopo – carabinieri autoambulanze perizie avrebbe pensato lui a ogni dettaglio, a ogni incombenza. A dare ogni spiegazione della disgrazia.
E di lui stimatissimo Direttore didattico, ora che oltretutto era presidente di commissione nel concorso magistrale per il posto di ruolo, nessuno avrebbe dubitato.
Quanto a Sasà chiuso nel suo dolore non gli avrebbe permesso di fiatare né d’incontrare anima viva.
Sasà Azzarello, ogni mattina alle dieci in punto, saliva su una barchetta fatiscente assieme all’Ada e remando con grande sforzo ché il remo incontrava ostacoli d’ogni tipo – lattine carcasse d’animali – si portava in mezzo al “lago” sperando in una tempesta improvvisa che, sollevandone le tacite onde sommerse insino al cielo, uccidesse lui e l’Ada insieme, nel medesimo istante.
Sperava, altresì, in una sorta di diluvio che si sostituisse a lui in quella deficienza di coraggio che gli impediva di prendere la pistola e spararsi secco alla tempia. O dritto in bocca.
Sasà pregava con tutto se stesso che il suo suicidio potesse essere favorito aiutato dalla natura, anzi, più che dalla natura stessa da eventi soprannaturali.
Ma quale diluvio? quale tempesta? quale evento soprannaturale?
Ogni giorno il sole si faceva più impietoso, tale che gli aveva procurato una scottatura terribile in testa con vescicole a sangue, mentre l’Ada perfezionava la sua splendida abbronzatura.
Al tramonto zia Carolina per lenirgli il prurito, il dolore delle piaghe, gli copriva la testa con una montagna di patate crude tagliate a fetta. Un elmetto di patate.
Uno spettacolo a vedersi! Del povero Sasà non restavano che due occhietti nichinichi da sorcio, e le grida lancinanti da lupomannaro in piena notte, vuoi per la testa bruciacchiata vuoi per le zanzare che più api parevano.
Quanto all’Ada, la ragazza s’era proprio scocciata. Non che la impensierisse il fatto in sé e per sé – se anche la barchetta si fosse rovesciata tutt’al più al ginocchio poteva arrivarle quella fanghiglia – ma trovava ridicola e ormai esasperante la fissazione di Sasà.
A parte la noja mortale, tutto il giorno in mezzo all’acquitrino col sole che arrostiva le pietre, c’era di peggio.
Quel cretino (Ada cominciava a pensare in questi termini di Sasà) la teneva morta di fame. Già in tre giorni chissà quant’era scesa di peso, soprattutto ai fianchi. E come ci teneva a quei fianchi l’Ada! Erano il suo punto forte.
Non lo sospettava minimamente che fossero, invece, i suoi più grandi accusatori, assieme (ovviamente) al culo svasato.
Dal quarto giorno le cose cambiarono. Salivano regolarmente ogni giorno alle dieci del mattino sulla barchetta per scenderne al tramonto, ma con una cesta di vimini, piena di manicaretti sostanziosissimi.
Niente panini né uova fritte. Ma polli alla campagnola, spezzatino di vitello, triglie al sughetto. Peperonata.
C’era proprio di tutto e, poi che la cesta pesava almeno quanto Sasà, la barca cominciava a traballare, con grande felicità di Sasà.
«Chissà forse… se si alza un po’ di vento… si capovolge su un fianco… ci inabissiamo…»
Mentre Sasà s’addentrava in cotali pensieri, l’Ada ripuliva la cesta mangiando per due. Per se stessa e il suo Sasà che non toccava nemmeno un’acciuga.
«Lo senti?… Mi pare qua alla nuca un filo d’aria… così cominciano le tempeste di mare dalle nostre parti con un filo d’aria… c’è nuvolo a est… segno che tra poco ci siamo…»
Sasà era così preso dai presunti avvistamenti d’una calamità naturale da non accogersi che l’annuvolo a est era in realtà una modesta spirale di fumo da paglia bruciata, e proveniva dalla vigna accanto, dove il vicino bruciava erba secca, di quando in quando.
Sasà si preparava a morire ogni mattina, pure se ogni sera ritornavano al casotto vivi entrambi, almeno in apparenza perché lui… l’Ada chiedeva subito la cena e mangiava ch’era uno sgomento a vedersi.
Poi che i giorni passavano e non succedeva niente – segno che la natura era matrigna con lui, o semplicemente se ne fregava – Sasà pensò che forse andava aiutata, che lui doveva collaborare.
Gli occhi, non più grandi d’uno spillo, andarono a posarsi sul tappo della barca. “Se lo allentava” pensò in ragione d’un secondo “la barca avrebbe preso acqua e allora poteva bastare a farli inabissare anche un soffio di vento, senza pretendere un tornado.”
Sì, andava fatto, il tappo andava svitato e la natura andava aiutata.
Il tappo però marcio com’era se ne venne d’un colpo prima che Sasà potesse svitarlo, e il sughero marcio ammuffito gli si sbriciolò tra le mani.
Inutile dire che Sasà e la friulana tornarono alla casina d’accomodo imbrattati di fango, melma e insetti. La friulana fino alla coscia per via dell’altezza, Sasà fino al petto. Con una salamandra morta che gli scapizzava da sotto la camicia.
L’angoscia e lo smarrimento che Cornelio lesse quella sera sul volto di Sasà furono pugnalate per lui.
A sua volta Sasà guardava il padre con occhio implorante e accusatorio a un tempo, come a dire: tu quoque Corneli?
Cornelio Azzarello aveva perso la speranza. Il naufragio della barca non aveva sortito l’effetto sperato. Era stata una cosa da ridere.
La disgrazia non c’era stata, e la friulana era lì viva e vegeta più che mai.
Non era servito quel mese di supplizio a Costa Zampogna tra zanzare grandi quanto calabroni, e mosconi che parevano elicotteri, non era servito a niente.
Che forse la pedagogia si sbagliava riguardo a un simile caso? Che forse tanta sciagura andava trattata in modo diverso?
La soluzione arrivò inattesa, quando ormai Cornelio aveva perso le speranze, dalla friulana stessa.
Sotto forma di aut-aut. O Sasà la seguiva subito immediatamento sulla prima Freccia del sud in partenza dalla stazione di Catania, o se ne sarebbe tornata da sola a Padova.
Le urla, le minacce, che inutilmente Sasà aveva atteso da suo padre Cornelio, arrivarono insperatamente dall’Ada. Un fulmine a ciel sereno.
Lei per le vacanze – parola sconosciuta alle femmine di Bulàla – era venuta in Sicilia, non per offrire lauto pasto delle sue carni a moschiglioni e coleotteri d’ogni tipo!
Cornelio non se lo fece ripetere. Era quella l’occasione d’oro che gli salvava la vita e l’onore.
Ah benedetta troja friulana!
Andò subito alla Piazza a impegnare il tassì. Ouella stessa sera, alle nove, Cornelio assieme alla friulana aspettavano la Freccia del sud al binario 1 della stazione di Catania.
Lei a dirgli che Sasà era un inetto, che l’aveva delusa, che aveva un cuor di piccione, ch’era un cretino… un minchione e altro altro altro…
Lui Cornelio ad acconsentire, a dire sì sì sì sì sìììììì su tutto.
Sì, Sasà era un inetto un minchione un irresoluto uno sminghiato una femminella un cretino un verme una merda uno sterco e a lui, onorato Direttore didattico, era toccata la disgrazia d’un unico figlio siffatto.
Che non avrebbe detto Cornelio pur di salvarlo Sasà?
A quale insulto non avrebbe acconsentito ora che la friulana s’era decisa a lasciarlo?
Sarebbe stato disposto a compromettere insino la virilità, a mettere in forse insino il capitale del suo Sasà, con quello che gli era costato quel bluff del capitale!
Ma cosa non fa un padre per un figlio!
Certo se il Cataratta avesse conosciuto per filo e per segno questi particolari non avrebbe chiamato minghiate la filosofia di Sasà riguardo alla verità.
Cornelio e la friulana si lasciarono tra baci e abbracci in totale armonia e intesa riguardo alla inettitudine di Sasà, fidanzato dell’una, figlio dell’altro.
Cornelio Azzarello fece ritorno a Bulàla alle tre di notte. Il treno per il Continente era partito con tre ore di ritardo dalla stazione di Catania e lui era stato lì paziente fino a all’ultimo, pur di vederla partire coi suoi stessi occhi, sì coi suoi occhi medesimi, la buttana che voleva fare d’un emerito Direttore didattico un ignobile cornuto!
Anzi Cornelio, grato alla friulana di quella insperata soluzione al suo dramma, portò la ragazzotta a mangiare in una delle più rinomate trattorie del porto – baccalà fritto trigliola saltata in padella polipi in insalata occhi di bue… E se ne prese tutti i complimenti.
«Voi sì che siete un uomo di mondo Cornelio… voi sì che avete carattere… voi sì che sapete vivere… voi certo qua… voi… certo là…»
Il tassì costò a Cornelio tremila lire, perché si trattava d’un servizio notturno.
Cos’erano tremila lire di fronte a due vite sottratte al barbaro tribale sacrificio d’un intero paese?
Cos’era il volgare danaro tenuto conto che il suo Sasà con lui restava a Bulàla, dimostrando così d’essere un figlio degno, un figlio speciale che, obbediente agli insegnamenti del padre, ne aveva fatto suo (benedetto figlio!) il primo e più importante: Una buttana un uomo non se la sposa, ci si diverte tutt’al più!
Sasà da quell’attore nato che era, con un talento istrionesco polidrammatico proprio da palcoscenico, recitò a meraviglia (ma lui ci credeva beninteso!) la parte del disperato, dell’abbandonato.
Si impose di morire di digiuno, e in effetti per due anni non sedette a tavola con suo padre Cornelio.
Regolarmente, però, tre volte al giorno anche quattro, ripuliva scodelle scodellette tegami con pollo tacchino maiale coniglio all’agrodolce, che la zia Carolina gli lasciava dietro la porta.
Tanto che in meno di tre mesi aveva ripresi a occhio e croce tutti e venti i chili persi, se non qualcosa in più.
La notte, ogni tanto, per scena, ridava di voler partire, di volere raggiungere l’Ada a Padova. Tanto che specie d’estate con le finestre aperte i vicini avevano fatto intervenire in casa Azzarello le guardie municipali.
In quei casi la zia Carolina lo legava con la cordicella fina del canestro che calava dabbasso per il pane. Due tre quattro giri attorno al petto e ai fianchi, ma lenti laschi a non lasciargli il segno.
Giusto per dargli l’idea dell’impedimento della costrizione della prigionia, per affermare che lui voleva raggiungere l’Ada con tutto il cuore, con tutte le sue forze, ma non poteva.
Che lui subiva sevizie torture per quell’infelice amore l’unico della sua vita passata e futura.
Poi c’erano giorni in cui metteva due valige sul letto in bella mostra.
Le riempiva svuotando l’armadio (mutande cappotti maglioni calze) e poi aspettava quel divino rumore della chiave che, girando nella toppa, lo sequestrava, gli negava la fuga, lo costringeva alla prigionia, gli impediva, appena un attimo prima, di raggiungere la sua Ada adorata.
Cornelio che intanto era diventato vicesindaco a Bulàla si raccomandava ogni mattina con le due donne di casa: «Mi raccomando… lasciatelo fare… grida? e voi fatevi sorde… minaccia di gettarsi dal terrazzo? e voi supplicatelo… baciategli le ginocchia… strappatevi i capelli… fate finta di crederci…. vuole scappare? e voi fatelo contento legandolo alla sedia ma leggiero ah? intesi!? mi raccomando Carolina… così giusto per finta… ché la pelle d’un arcangelo ha il mio Sasà… i segni ci restano… mi raccomando…»
Poi Cornelio, impettito come mai, con passo di granatiere si faceva tutto il corso fino al municipio, fiero sicuro fiero ché tutti a Bulàla lo sapevano con quanta determinazione avesse chiuso la partita. Il suo Sasà a casa, la friulana a Padova.
E ne raccontava di balle a proposito della partenza dell’Ada, dicendo che a calci in culo l’aveva messa sulla Freccia del sud.
In ultimo a Sasà venne la fantasia delle lettere. Ne scriveva cento duecento trecento al giorno poi, con teatrale gesto della mano, accartocciate a mo’ di palla finivano in una grande tinozza d’alluminio. Di notte ci pensava Carolina a farle sparire nei bidoni dell’immondizia, e i gatti a farle ricomparire all’alba due tre strade in là, tra le proteste e le risate del vicinato.
Carolina dopo poco tempo s’era accorta che non c’era scritto un bel niente, solo qualcuna cominciava «Mia adorata… Mia divina mio ineffabile amore… angelo del Paradiso luce degli occhi miei…», ma quanto alle altre, bianche, immacolate, intatte finivano nell’immondizia. Un vero spreco.
Altro che disperato Sasà! Furbo era, non se le spremeva le meningi a scrivere, solo palle palle palle di carta faceva… e sembrava averci preso gusto.
A chi gli diceva, in giunta, o incontrandolo sul corso: «Direttore per caso è esaurito vostro figlio Sasà?» una domanda piena di rispetto e solidarietà, Cornelio prontamente fiero confermava. Assentiva. Diceva di sì sì certo sicuro. Esaurito era per tutti Sasà.
Esaurito non cornuto! E tutto fiero d’averla risolta la faccenda, non la finiva di dire a proposito e a sproposito, alle riunioni con i maestri come in giunta, ai funerali come ai matrimoni:
«Benedetta Pedagogia! Benedetta Pedagogia! Benedetta Pedadogia!»
Anche quand’era solo mormorava Benedetta benedetta, tanto che non pochi s’andavano convincendo a Bulàla che anche il padre era esaurito. Non solo il figlio.
Benedetta Pedagogia che gli aveva salvato il figlio! che insegnava a un padre come trattare un figlio sensibile speciale delicato genio come il suo.
Questo era il motivo di gratitudine eterna di Sasà nei confronti della pedagogia.
Cornelio lasciò per due anni libero Sasà di smaniare lacrimare lastimiare, infine, poi che era tempo di riprendere l’università – a Catania massimo visto che non c’era l’università a Bulàla! – Cornelio escogitò un trucchetto.
Tutto si era concluso nel migliore dei modi. Il suo Sasà era libero, e lui pure. Mancava un ultimo ritocco a che l’operazione salvataggio potesse dirsi perfetta.
Ci voleva un pretesto – falso ovviamente – una calunnia a che Sasà pur continuando a patire per il suo amore perduto, ne avesse motivo di risentimento di astio sì da legittimare agli occhi della sua coscienza il ritorno alla normalità.
Un telegramma, e se non bastava due trecento con allusioni infamanti sull’Ada, che chissà! che fine aveva fatto!
Cornelio affidò il compito di fare il telegramma al nipote Rorò, e lo mandò all’ufficio postale di Catania perché a Bulàla la manovra si sarebbe saputa nel giro d’un quarto d’ora.
Il telegramma doveva essere anonimo, soltanto un amico come firma. Il testo ovviamente lo scrisse Cornelio emulando lo stile di Rorò che quella volta era stato eccezionale straordinario nel procurargli l’ulcera con quei misteri, quelle allusioni.
Testualmente c’era scritto: a miglior acque volge le vele la navicella (cioè la constatazione che Sasà era sulla strada giusta), e ancora: tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino (questo significava che Sasà era ancora in zona pericolo semmai avesse ceduto alla tentazione di rivedere l’Ada); l’Arma tiene il banco (questo significava che l’Ada s’era rimessa col carabiniere palermitano o con tutti i carabinieri palermitani di servizio a Padova).
Anche per questo incarico Cornelio dovette foraggiare per bene quel cretino di Rorò, però non ci fu bisogno d’altro. Bastò quell’unico telegramma.
Sasà parve come rinfrancato dal telegramma che scioglieva l’incantesimo del dolore.
Ora poteva infine uscire dal lutto perché la notizia sul comportamento inaffidabile dell’Ada gliene dava piena licenza.
Sasà non aspettava che questo, e lo dimostra il fatto che pur se vistosamente si notava sul telegramma la località di provenienza: Catania, Sasà non fece domande. Non aprì bocca.
Volle credere al telegramma. E vi s’aggrappò con la disperazione del naufrago tra l’onde.
In cuor suo Sasà sapeva benissimo ch’era tutta una montatura. Ch’era stato Rorò a spedire il telegramma da Catania sotto le direttive di Cornelio ma il valore della menzogna nell’universo etico di Sasà era supremo assoluto.
Quanto all’Ada nessuno seppe mai dove fosse finita, mentre riguardo a Sasà tutta Bulàla sapeva dell’inferno della sua vita coniugale con Maddalenina.
Una volta l’occhio nero, una volta gli faceva fare notte sul terrazzo, un’altra una bottiglia in testa… un’altra cinque punti all’ospedale…
Nemmeno Cornelio Azzarello aveva potuto farci niente, lui che pure trattava e risolveva ogni cosa con la pedagogia.
Con Maddalenina, però, non c’era stato niente da fare. L’unica volta che s’era impicciato a difesa dell’occhio di Sasà accecato dalla frittata bollente, la reazione era stata feroce e il messaggio era stato del tipo: se non te la fai alla larga ce n’è anche per te…
E lui s’era scansato giusto per tempo, ché alla sua età gli occhi andavano custoditi come un tesoro.
Maddalenina l’aveva scelta lui per Sasà, e soffriva non poco della disgrazia del suo figliuolo ma quando alla Piazza gli dicevano: «Direttore Azzarello vostra nuora una capitana è… povero Sasà… una vittima un cristo.»
Prontamente rispondeva: «… Sì donna di polso mia nuora Maddalenina sicuro di polso… queste sono le mogli ideali che mandano avanti una casa… e poi tutti lo sanno ch’era pura come il cristallo Maddalenina e Sasà il primo è stato il primo e l’ultimo… (e strizzando l’occhio alludeva all’illibatezza della nuora, titolo, quest’ultimo, che ne annullava qualsiasi neo…) la moglie giusta per Sasà… sicuro non come certe buttane… io gliel’ho scelta a Sasà. Con un solo figlio mica si possono correre rischi evvero? mi capite?!»
Sasà dal canto suo sempre in ossequio alla teoria che la menzogna è spesso assai meglio della verità sopportava nascondeva simulava si fingeva contento di Maddalenina, tutto sommato, anche perché aveva fatto suo il postulato paterno pur con la dovuta metatesi che vedeva ora il figlio al posto del padre e viceversa:
Cosa non fa un figlio per un padre!
Alla sua vita per quanto miserabile due cose non erano mai mancate. Su quelle Sasà non transigeva per niente al mondo.
Autocommiserazione, la prima. Suicidio, la seconda.
Quanto alla prima gli riusciva perfettamente, in ogni virgola. Quanto alla seconda, faticava un po’, ma ora che ci si stava affezionando per davvero all’albero di Giuda chissà! che per la fine dell’estate… chissà!… toccandone il fusto più spesso o forse baciandolo, sì, baciandolo… ma ci pisciavano i vecchi la sera quand’era tardi e non li vedeva nessuno.
Sì lo doveva baciare, e accarezzarglieli quei pennacchi che visti da lontano potevano sembrare pappagalli imbalsamati… e poi chissà! dopo l’estate chissà!…
Contento di questa fiducia in se stesso Sasà Azzarello avanzava sul corso in direzione dell’ospizio. Era buio e le stelle precipitavano senza pudore sulla testa calva di Rorò.