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Sabato mattina sentii le notizie della radio nella mia camera da letto, alle sette, e in cucina alle otto. Saul, Fred e Orde erano arrivati ed erano saliti in camera di Wolfe. Stavo ascoltando il giornale radio delle nove, quando scesero. In genere, non sono molto curioso, e non me ne importa gran che se un poliziotto o un agente federale ritrovano mezzo milione di dollari estorti da un rapitore. Però quel giorno avevo le mie buone ragioni per desiderare di tenermi al corrente.

Avevo letto anche i giornali. L’ufficio del procuratore distrettuale ci andava piano, con la morte di Jimmy Vail. Secondo le ultime dichiarazioni ufficiali, la causa della sua morte doveva essere attribuita a Benjamin Franklin, punto e basta. Non esistevano informazioni o indizi atti a indicare che si trattasse di omicidio. Comunque, le indagini continuavano.

Avevo i miei dubbi, in proposito: l’ultima dichiarazione era stata rilasciata perché il procuratore distrettuale voleva mettersi con le spalle al sicuro, nel caso saltasse fuori qualcosa di nuovo, ma non credevo che le cinque persone, che per ultime avevano visto Jimmy Vail vivo, fossero tenute sotto il torchio.

Non esistevano dubbi, invece, sul fatto che le indagini sul rapimento continuassero, anche se Jimmy era morto prima di poter dire da chi o dove era stato rapito, da chi o dove era stato tenuto prigioniero, da chi o dove era stato liberato. II custode della villa vicino a Katonah era stato torchiato a dovere da una decina di esperti, ma si era attenuto alla versione originale: Jimmy Vail era partito con la sua automobile da corsa poco dopo le otto di domenica sera, per tornare in città, ed era riapparso con la stessa macchina da corsa alle sette e mezzo di mercoledì mattina, stanco, irritato, sporco e affamato. Non aveva detto assolutamente niente al custode della villa.

Secondo la polizia, i rapitori avevano trattenuto la macchina da corsa insieme a Jimmy Vail, e quando avevano deciso di lasciare libero il rapito, gli avevano permesso di riprendersela. Era un’ottima teoria dato che, quasi certamente, i rapitori non si sarebbero mai sognati di usare un’automobile tanto appariscente.

L’auto era stata esaminata da un’orda di esperti alla ricerca di impronte digitali, di segni sui copertoni, all’interno o sulla carrozzeria, e di indizi che potessero aiutare a stabilire da quante persone era stata toccata.

La fotografia dell’automobile era apparsa sui giornali e alla televisione, con la richiesta per chi l’avesse vista da domenica sera a mercoledì mattina, di mettersi in contatto con la polizia, col procuratore distrettuale della Contea di Westchester o con l’FBI.

Venne descritta, ma non apparve in televisione, anche la valigia che aveva contenuto il denaro: cuoio giallo, sessanta centimetri per ottanta, vecchia e macchiata, leggermente spellata, con tre fermagli d’ottone, uno in mezzo e due vicino agli angoli. La signora Vail l’aveva portata alla banca, dove era stata riempita di banconote, e la descrizione era stata fornita dal vice presidente della banca stessa. Era di proprietà di Jimmy Vail... o lo era stata.

L’unica speranza di trovare un indizio riposava ora nel fatto che saltasse fuori qualcuno che avesse visto i rapitori alla Fowler’s Inn o al Vitello Grasso, martedì sera. L’uomo al quale la signora Vail aveva consegnato la valigia, aveva il viso coperto.

La polizia era convinta che in tutti e due i locali pubblici fosse stato presente un complice, con l’incarico di assicurarsi che la signora non mostrasse a nessuno i messaggi inseriti nelle guide telefoniche.

Alcuni clienti dei due locali ricordavano di aver visto la signora Vail.

Il cassiere della Fowler’s Inn affermava di aver notato che la signora era entrata nella cabina telefonica e aveva cercato un nome nella guida nervosamente. Nessuno, invece, poteva dire con certezza di aver visto qualcuno apparentemente interessato ai movimenti della signora Vail.


Il servizio funebre in memoria di Jimmy Vail avrebbe avuto luogo domenica mattina alle undici, nella Dunstan Chapel.

Grazie all’aiuto di Nero Wolfe e ad Archie Goodwin, nonostante nessuno ci ringraziasse oltre a Lon Cohen, l’omicidio di Dinah Utley era messo in gran risalto sia dai giornali, sia dalla televisione. Non solo il suo cadavere era stato trovato vicino al luogo in cui la signora Vail aveva consegnato la valigia, ma qualcuno di White Plains o di Manhattan si era lasciato sfuggire che Dinah era considerata una complice dei rapitori. E così, Cramer aveva accettato la deduzione fatta dal mio capo in base ai biglietti dattiloscritti, e l’aveva passata a quelli della Contea di Westchester. Quando fosse arrivato Ben Dykes, alle undici e mezzo, ci sarebbero state delle spiegazioni da dare.

Come ho detto, ero nello studio ad ascoltare il giornale radio delle nove, quando Saul, Fred e Orrie scesero dalla camera di Wolfe. Ormai le notizie sul rapimento e sull’omicidio di Dinah erano state trasmesse, perciò spensi la radio e salutai i tre. Sono sicuro che. trovandovi nella necessità di scegliere un investigatore privato per un lavoro difficile, fra i tre avreste preferito con tutta probabilità Fred Durkin o Orrie Cather. E vi sareste sbagliati.

Fred è grosso e massiccio, con un faccione onesto e aperto, ma dalla testa in su non ci sa fare, quando si trova alle prese con un lavoretto che richiede delle reazioni svelte. Orrie è alto, affascinante e intelligente, e in qualunque situazione le sue reazioni sono sufficientemente veloci, solo che a volte ha le reazioni giuste, altre, quelle sbagliate.

Saul è piccoletto, asciutto, con un viso lungo e incavato, e un nasone a becco. Ha sempre l’aria disordinata, porta il berretto invece che il cappello, e i suoi calzoni paiono sempre sul punto di cadere in pezzi. Ma non esiste un’agenzia, in tutta New York, che non fosse disposta ad assumerlo con uno stipendio da far girare la testa, se lui decidesse di abbandonare la libera professione. Comunque, a dieci dollari all’ora, si può affidargli qualunque tipo di lavoro, sicuri che lo porterà a termine nel migliore dei modi.

– Esistono seicentotré modi di portare avanti questa faccenda – stava dicendo Orrie – ma ho bisogno di una fotografia di Noel Tedder.

– Io di una fotografia di Ralph Purcell.

– E così, ve ne prendete uno a testa? – Mi accucciai per girare la manopola della cassaforte. – il miglior modo per buttar via tempo e quattrini. In quanto alle fotografie, ho solo delle riproduzioni ritagliate dai giornali.

– Me le farò dare da Lon – intervenne Saul. – B signor Wolfe mi ha detto che siete in credito, con lui.

– Altro che! – Aprii la cassaforte e tirai fuori la cassetta degli spiccioli. – Un vagone di fotografie non basterebbe neppure per intaccare il credito che Lon ha con noi. E così, a te spetta Andrew Frost?

Saul fece un cenno d’assenso, e aggiunse che il signor Wolfe aveva detto che io sarei rimasto nello studio ad aspettare i loro rapporti. Me l’ero sentito arrivare tra capo e collo. Quando c’è in ballo un caso difficile, non è divertente sapere di avere al lavoro tre uomini in gamba, e di essere costretti a restarsene seduti sulle parti molli ad aspettare di trascrivere quello che riescono a scoprire.

Non feci commenti.

Tirai fuori i soldi, li distribuii equamente tra loro, segnai il totale sul registro, fornii alcuni particolari, ei tre se ne andarono. Erano arrivati alle otto, e usciti alle nove e mezzo. Questo voleva dire che eravamo già fuori di trentasette dollari e cinquanta.

Ero indietro con la registrazione sulla fioritura e sulla germinazione delle orchidee, un lavoro di alto concetto, che consiste nel trascrivere su alcuni cartoncini gli appunti presi da Wolfe nella serra; perciò, dopo aver aperto la posta, tirai fuori la cartella dall’archivio e cominciai a copiare dati come: “Orch. Callypigia Rubra germ.3h.autocl.l8”.

Avrei giurato che sarebbe arrivata una telefonata da parte di Margot Tedder, di suo fratello, o della loro madre, ma alle undici, quando Wolfe scese dalla serra, non si erano ancora fatti vivi. Ormai, comunque, era tardi perché chiamassero: a quell’ora dovevano essere tutti al funerale.

Il colloquio con Ben Dykes, che si presentò alle undici e quaranta, con dieci minuti di ritardo, non andò per niente male, Dykes arrivò a farci capire che da parte sua non avevamo niente da temere, mentre Hobart aveva lanciato l’idea di convocarci ufficialmente per interrogarci.

Dykes voleva solo delle informazioni. Aveva letto le nostre deposizioni, ed era al corrente di quanto avevamo dichiarato a Cramer, ma non si accontentava di così poco. Non lo disse a chiare lettere, ma quello che pensava era all’incirca quanto segue: il rapitore aveva riscosso mezzo milione di dollari all’interno della sua giurisdizione, così poteva anche essere che il malloppo fosse ancora da quelle parti e lui sarebbe stato ben lieto di ritrovarlo, soprattutto perché ne avrebbe tratto gloria e, con ogni probabilità, anche una ricompensa. Se nel contempo riusciva a trovare qualche indizio sull’omicidio di Dinah Utley, tanto meglio, ma non era questo che gli stava a cuore. Restò con noi per più di un’ora, nella speranza di farci sputare qualche particolare che potesse aiutarlo a realizzare il suo sogno. Quando lo accompagnai alla porta, gli dissi che in fondo la Contea di Westchester era la sua tana, e che quindi doveva ben sapere dove cercare. Rispose scuotendo la testa: – Tutto sta nel riuscire a muoversi senza essere travolti dalla polizia di Stato o dai superuomini dell’FBI.

All’una, la radio non aveva novità di nessun genere, come del resto non ne avevamo noi. Saul, Fred e Orrie avevano telefonato. Avevano partecipato tutti e tre al funerale, il che mi sembrò molto gentile da parte loro. Ecco uno dei piaceri del pedinamento: dovete andare ovunque vada il pedinato. Una volta, avevo seguito un tipo per quattro ore, su e giù per la Quinta Avenue e per Madison Avenue, finché avevo scoperto che cercava di trovare un paio di bretelle grigie a strisce gialle.

La giornata si trascinava lentamente. A pranzo, Fritz ci servì capriolo, arrosto di maiale, crescioni alla panna e altre verdure assortite. Alle tre, quando tornammo nello studio, vi fu uno sviluppo, ammesso che così si possa chiamare. Il telefono squillò: era Orrie Cather. Si trovava in una cabina della Cinquantaquattresima Strada, a due passi dalla Lexington Avenue. Noel Tedder e Ralph Purcell erano appena entrati in un bar, dall’altra parte della strada. Era tutto. Dieci secondi dopo che ebbe riattaccato, il telefono squillò di nuovo. Questa volta era Noel Tedder. Be’, non potevo certo dire che le cose non procedessero a ritmo serrato: Fred e Orrie aguzzavano la vista e l’ingegno, nascosti in una cabina telefonica, e il pedinato chiamava me. Mi comunicò che aveva convinto Purcell a parlare con Wolfe, e che sarebbero arrivati nel giro di venti minuti.

Mi voltai per chiedere conferma al mio capo, ma questi guardò l’orologio e disse che non se ne parlava neanche. Tornai all’apparecchio.

– Sono molto spiacente, signor Tedder, ma il signor Wolfe è molto...

– Lo sapevo! Mia sorella!

– No, non si tratta di vostra sorella. Il signor Wolfe non ha accettato l’incarico offertogli da lei; ha deciso di mantenere l’impegno assunto con voi. Ma è molto occupato, tutti i giorni, dalle quattro alle sei. Il signor Purcell non potrebbe venire alle sei?

– Un momento. Restate in linea. – E dopo mezzo minuto: – Va bene, alle sei sarà da voi.

– Grazie. – Riattaccai e mi voltai a guardare Wolfe. – Pensate come sarebbe divertente se Purcell ci fornisse un indizio. Naturalmente io e Fred ci butteremmo sulla pista... perché Fred lo pedinerà fin qui e resterà davanti alla nostra porta... Pensate come sarebbe divertente, ripeto, se Purcell ci fornisse un indizio, e io e Fred arrivassimo in ritardo, battuti sul tempo da qualche piedipiatti. Ora, vi chiedo: perché volete buttare via due ore preziose?

Wolfe grugnì. – Sapete benissimo che, se ammettessi qualche eccezione ai miei orari, ben presto sarei senza più orari del tutto. Ci pensereste voi, a buttarmeli all’aria.

Avrei potuto fare una decina di commenti in proposito, ma sarebbe stato inutile. Tornai alla macchina da scrivere e ai cartellini con i dati della fioritura. Quando Wolfe salì nella serra, alle tre e cinquantanove, accesi la radio. Niente di nuovo. L’accesi anche alle cinque. Ancora niente di nuovo.

Quando arrivò la “Gazette”, vidi che aveva pubblicato la fotografia delle quattordici persone che martedì sera si erano trovate alla Fowler’s Inn e al Vitello Grasso. Inutile, i giornali con le casseforti piene possono fare quello che vogliono, per soddisfare la curiosità del pubblico. Ero di nuovo alla macchina da scrivere, alle cinque e cinquantacinque, quando squillò il campanello. Andai nell’atrio, vidi Ralph Purcell attraverso lo spioncino e aprii la porta.

Purcell disse in tono di scusa: – Temo di essere in anticipo – e mi porse la mano.

Gliela strinsi. In fondo, non sarebbe stata la prima mano d’assassino che stringevo.

Mentre prendevo il suo cappello, l’ascensore si fermò al pianterreno, la porta si aprì e ne emerse il mio signore e padrone. Era in anticipo di tre minuti, perché preferisce essere sistemato sulla sua poltrona, quando arriva un visitatore.

Purcell gli si avvicinò, tendendo la mano. – Sono Ralph Purcell, signor Wolfe, vostro grandissimo ammiratore. Come certo sapete, sono fratello della signora Vail – si presentò.

Naturalmente, Wolfe fu costretto a stringergli la mano, e quando il mio capo stringe una mano, cosa che accade ben di rado, la stringe davvero. Mentre si dirigevano verso lo studio, Purcell continuò a massaggiarsi le dita.

L’investigatore lo pregò di prendere posto sulla poltroncina rossa davanti alla scrivania, andò dietro il tavolo da lavoro, sistemò la mastodontica stazza sulla poltrona, e parlò: – Penso che il signor Tedder vi abbia messo al corrente della situazione.

Purcell guardava me. Quando faccio rapporto a” Wolfe, non dovrei omettere niente, e in genere mi attengo a questa regola. Giovedì pomeriggio, in casa del dottor Vollmer, avevo avuto tutto il tempo che volevo, ma avevo tralasciato di dirgli un particolare riguardo a Purcell.

L’avevo descritto accuratamente: faccia rotonda, come quella di sua sorella, leggermente gonfia, capelli radi, eccetera. Ma avevo dimenticato di accennare al fatto che quando qualcuno gli rivolgeva la parola, lui guardava da Un’altra parte. In quel momento mi accorsi, però, che non arrivava al punto di guardare altrove anche quando era lui che si rivolgeva al suo interlocutore. Portò gli occhi su Wolfe.

– Sì – disse. – Noel mi ha spiegato tutto, ma non sono sicuro di... be’, insomma, mi sembra un po’...

– Forse posso aiutarvi a capire meglio. Che cosa vi ha detto di preciso?

– Che avreste trovato il denaro del riscatto... il denaro che mia sorella ha consegnato al rapitore. Mi ha chiesto se ricordavo che mia sorella gli aveva dato il permesso di tenersi la somma, se l’avesse ritrovata.

Gli ho risposto che lo ricordavo benissimo. A questo punto, però, la cosa mi è parsa un po’ troppo confusa. Ma forse lo era solo nella mia mente.

Noel mi ha detto che volevate rivolgermi delle domande, nel tentativo di scoprire qualcosa di più su Dinah Utley. Ha aggiunto che sospettavate che il whisky di Jimmy fosse stato drogato. Non ha voluto spiegarci meglio, però. Secondo lui, ci avreste pensato voi, a darmi tutte le delucidazioni necessarie.

E cosi, dopotutto, Noel aveva usato del tatto, almeno nei confronti di zio Ralph.

Wolfe fece un cenno d’assenso. – È una cosa complicata. Il miglior... Ma perché guardate il signor Goodwin, quando parlo?

Purcell arrossì, distogliendo gli occhi da me. – È un’abitudine – rispose. – Una cattiva abitudine.

– Lo è davvero.

– Lo so... lo so... Avete notato che i miei occhi sono sporgenti?

– Non in modo accentuato, però.

– Grazie. Quando ero piccolo, la gente diceva che avevo gli occhi da rana. Una persona soprattutto. Era una ragazza che... – S’interruppe di botto. Dopo un attimo continuò: – È passato molto tempo, ma da allora non riesco a fissare la gente che mi rivolge la parola. Dopo un po’, però, quando sono entrato in confidenza, cambio. Ora, per esempio, comincio a sentirmi a mio agio.

– Allora procediamo. – Wolfe appoggiò i gomiti sui braccioli della poltrona, e unì le punte delle dita davanti a sé. – Sapete che la signorina Utley ha partecipato al rapimento?

– No, non lo so. Voglio dire, a me non risulta, e poi, non ci credo.

«So solo quello che si sono detti il signor Goodwin e mia sorella. Ora vi spiego perché non ci credo: il rapimento è un affare pericoloso. Se si viene scoperti, si finisce male. E Dinah non era tipo da correre grossi rischi. L’ho capito da come giocava a carte. Era capace di non scartare una carta che non le serviva, per timore di prenderne Un’altra ancor meno utile. Capite?»

Wolfe non poteva capire, dato che non gioca mai a carte, ma annuì ugualmente. – E voi, ditemi, correte mai dei rischi?

– Sì, io sono un giocatore nato. Mia sorella è riuscita a vincere tre... no, quattro scommesse piuttosto forti con me, solo perché io sono pronto a rischiare su qualunque cosa, alla prima occasione.

– La vita ha bisogno di essere resa emozionante, in un modo o nell’altro – concesse Wolfe. – Per quanto riguarda la signorina Utley, però, vi sbagliate. Era coinvolta nel rapimento. Ma se anche vi spiegassi come sono arrivato a questa conclusione, restereste ugualmente scettico.

«Ma dato che per fare cosa grata al signor Tedder siete venuto fin qui, sono certo che vorrete essere indulgente nei miei confronti. Se la signorina Utley era coinvolta nel rapimento, è logico supporre che fosse amica di almeno uno dei rapitori. Di conseguenza, ho bisogno di sapere qualcosa sulle sue conoscenze. Vi ha mai presentato della gente che frequentava al di fuori della vostra cerchia?»

– Be’... – Purcell si spostò verso il bordo della poltrona. – Be’, è strano. Gli amici di Dinah. Naturalmente aveva degli amici, doveva averne, ma io non ne ho mai conosciuti, in realtà. Usciva spesso, di sera. Andava al cinema, a teatro, e via di seguito, ma non so con chi. È bizzarro. Ho sempre pensato di conoscerla piuttosto bene. Be’, naturalmente incontrava molta gente, ma in quanto a dei veri e propri amici...

Squillò il telefono. Sollevai il ricevitore, e mi giunse una voce nota: – Archie? Qui Fred. Sono in una cabina, all’angolo. Vado a mangiare un boccone, e poi torno, o devo restare dove sono? Secondo il signor Wolfe avrei dovuto stare con quel tipo finché non fosse rientrato. Quanto tempo si fermerà da voi?

– Un momento. – Mi rivolsi al mio capo: – È Fred. Il soggetto è entrato in un edificio, una specie di catapecchia che potrebbe essere un covo di viziosi. Vuole istruzioni. Può andare a mangiare un boccone?

Wolfe mi lanciò un’occhiata disgustata. – Ditegli che può ritenersi libero, per oggi. Riprenderà domani mattina. – E a Purcell: – Dicevate?

Ma zio Ralph attese finché non ebbi trasmesso l’ordine e poi riattaccato. – Parlavo di Dinah. Incontrava molta gente, in casa nostra, ai pranzi e ai ricevimenti, ma non credo proprio che intendiate parlare di questo. Voi cercate qualche amico deciso, che Dinah avrebbe usato per un incarico pericoloso come un rapimento, non è vero?

– O qualcuno che avrebbe usato lei.

Purcell scosse il capo. – No, non credo che Dinah avrebbe mai rischiato così grosso, ma anche ammesso, per assurdo, che ne fosse stata capace, avrebbe preso lei le redini della faccenda. Avrebbe comandato lei.

– Sollevò la mano. – Ho detto che sono un vostro ammiratore, signor Wolfe, e lo sono davvero. Un grande ammiratore. So che non vi sbagliate mai, e se siete sicuro che Dinah era coinvolta nel rapimento, dovete avere le vostre buone ragioni. Ero convinto di conoscere bene quella ragazza, e naturalmente sono curioso, ma certo non siete disposto a raccontare a nessuno come siete arrivato...

– A qualcuno l’ho già raccontato, invece. – Wolfe lo fisso. – L’ho raccontato alla polizia, e ben presto, con ogni probabilità, la mia deduzione sarà di dominio pubblico, quindi tanto vale che soddisfi la vostra curiosità.

« È stata la signorina Utley a dattiloscrivere i messaggi... quello che vostra sorella ha ricevuto per posta e i due che ha trovato nelle guide telefoniche.Non ci sono dubbi»

Nessuna reazione percettibile. Sembrava quasi che Purcell non avesse sentito. Gli unici muscoli che si mossero, furono quelli che gli fecero battere freneticamente le palpebre, mentre si sforzava di tenere gli occhi fissi su Wolfe. Alla fine mormorò: – Grazie per avermelo detto. Questo dimostra che non sono poi tanto sciocco come qualcuno sembra pensare. Ho sospettato qualcosa del genere, quando mi hanno chiesto se sapevo chi aveva preso la macchina da scrivere dallo studio di mia sorella.

– È stata la polizia, a chiedervelo?

– Sì. Non ho risposto, perché... be’, insomma, non ho risposto. Ma lo dirò a voi. Ho visto Dinah che la prendeva. Martedì sera. La sua automobile era parcheggiata davanti a casa. L’ho vista uscire con la macchina da scrivere, perciò deve averla messa per forza sull’automobile.

– A che ora?

– Non lo so, ma doveva essere sicuramente prima delle nove. Circa un’ora dopo che mia sorella era partita con la valigia.

– Come fate a sapere che vostra sorella aveva con sé una valigia?

– L’ho aiutata a metterla nel portabagagli. L’avevo incontrata di sopra, con la valigia in mano, e mi sono offerto di portargliela fino all’auto.

«Non mi ha detto dove era diretta, né io gliel’ho chiesto. Ho intuito, però, che qualcosa non andava, ma non sapevo che cosa. Ho pensato che volesse raggiungere Jimmy da qualche parte. Era sparito da domenica, ed ero convinto che non fosse a Katonah. Tra l’altro, mia sorella evitava di parlare di lui. – Purcell scosse il capo. – E così, è stata Dinah a battere a macchina i messaggi. Avete ragione, dunque. E pensare che ero convinto di conoscerla bene! Sapete, una settimana fa... giovedì... no, venerdì, ho giocato a carte con lei. Naturalmente, doveva aver già organizzato tutto. È difficile da credere, ma a questo punto non mi resta che accettare le vostre conclusioni. Ora capisco perché volete sapere qualcosa sui suoi amici. Se potessi darvi una mano, lo farei volentieri. Posso dire a mia sorella che è stata Dinah a battere a macchina quei messaggi?»

– Con tutta probabilità, l’ha già saputo dalla polizia. – Wolfe appoggiò le mani sui braccioli della poltrona. – Non mi siete stato di molto aiuto, signor Purcell, ma se non altro avete parlato con sincerità. Vi ringrazio molto. Anche il signor Tedder dovrebbe ringraziarvi, e sono certo che lo farà non appena ne avrà l’occasione. Non voglio trattenervi oltre.

– Ma dovevate spiegarmi perché pensate che qualcuno abbia messo qualcosa nel bicchiere di Jimmy!

– Certo. È accaduto mercoledì sera, nella libreria. Eravate presente, no?

– Sì.

– Avete servito del cognac al signor Frost?

– Sì, credo di si. Ma come fate a... Ma certo, ve l’ha detto Noel.

– No, me l’ha detto la signorina Margot. Avevo intenzione di spingerla a formulare un’ipotesi su chi poteva aver messo del sonnifero nel bicchiere del signor Vail, ma alla fine ci ho rinunciato. Le indagini di questo genere sono spesso inutili. I ricordi risultano troppo contusi e gli interessi in gioco troppo complessi. Comunque, le cose stanno così: il signor Vail doveva essere sotto l’effetto di qualche sonnifero, quando è stato trascinato giù dal divano, fino alla statua. Quindi, qualcuno ha drogato il suo whisky.

Questa volta, la reazione del nostro ospite fu percettibile. Purcell spalancò gli occhi, senza più sbattere le palpebre. – Trascinato? – domandò.

– Avete detto trascinato?

– Sì.

– Ma non è stato trascinato. A meno che non si sia trascinato da solo.

– No. Era in stato di incoscienza. Qualcuno l’ha trascinato fino alla statua, nel punto desiderato, e in qualche modo gli ha fatto cadere addosso la statua stessa. Non ho intenzione di discutere della questione. Non adesso e non con voi, almeno. Ve ne ho parlato perché mi è sembrato doveroso darvi una spiegazione in merito, dopo che il signor Tedder aveva risvegliato la vostra curiosità.

– Ma questo significa solo una cosa: che Jimmy è stato assassinato!

– Sì.

– La polizia afferma il contrario.

– Davvero?

– Ma a Noel non avete raccontato tutto questo!

– Certo che gliel’ho raccontato.

– Avete detto a Noel che Jimmy stato assassinato?

– Sì.

– Non ne siete sicuro, però. Non potete.

– Il termine sicurezza ha diverse sfumature di significato. Diciamo solamente che sono giunto a questa conclusione...

– Allora non vi... non è Dinah Utley che vi interessa. Avete cercato di prendermi per il bavero! – Aveva il volto in fiamme. – Mi avete preso in giro. – Balzò in piedi. – Noel avrebbe dovuto dirmelo. Non è stato corretto. Anche voi avreste dovuto dirmelo. Sono un cretino! – Si voltò e si diresse verso la porta.

Restai seduto. A volte, è meglio che gli ospiti si prendano da soli il cappello e il cappotto. Quando sentii chiudere la porta, andai nell’atrio per assicurarmi che Purcell si fosse ricordato di oltrepassare la soglia, prima di sbattere l’uscio.

Dopo un attimo, ero di nuovo alla scrivania. Wolfe stava facendo una smorfia.

– Se non è uno sciocco – mormorò lui – possiamo eliminarlo dalla lista dei sospetti, almeno per il momento...

Fece Un’altra smorfia.

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