Alle dodici e trentacinque di venerdì, l’ispettore Cramer della Squadra Omicidi si piazzò nella poltroncina di pelle rossa, si tolse di bocca un sigaro spento e cincischiato, e sentenziò: – Insisto per sapere dove siete stati, voi e Goodwin, nelle ultime ventiquattr’ore, e che cosa avete fatto.
Avevamo un’unica ragione per non rivelarglielo: avrebbe mandato uno dei suoi tirapiedi a controllare se avevamo raccontato la verità, e il dottor Vollmer era un uomo molto occupato. Sarebbe stato poco gentile, da parte nostra, ricambiare la sua ospitalità con uno scherzo del genere.
Per quanto mi riguardava, non avevo niente di cui lamentarmi: mi era stato offerto un letto comodissimo, in una stanzetta piccola ma accogliente.
Per Wolfe, invece, le difficoltà erano cominciate quasi subito. In casa Vollmer esistevano molti buoni libri, ma c’era una mancanza assoluta di poltrone capaci di contenere la stazza del mio signore, e Wolfe si rifiuta di leggere stando sdraiato. Per non parlare del pigiama: non era stato possibile trovarne uno della sua misura, perciò alla fine aveva dovuto dormire in biancheria da giorno. Il cibo non era tanto cattivo da costringere a restare digiuni, ma neanche tanto buono da soddisfare le sue esigenze di palato. In casa, poi, esisteva un’unica marca di birra, e non era quella preferita da Wolfe. Inoltre i cuscini erano troppo soffici per poterne usare uno solo, e troppo alti per poterne usare due. Gli asciugamani erano troppo piccoli. Il sapone odorava di tuberosa, almeno a sentir lui, e non di geranio, come avrebbe preferito. Comunque, tenuto conto di tutte queste difficoltà, si era comportato abbastanza bene, in quella notte trascorsa fuori di casa.
Naturalmente era infastidito, ora, ma non quanto mi sarei aspettato.
Non avevamo telefonato a Fritz per chiedergli se aveva ricevuto visite, dato che non ce ne intendevamo gran che, di elettronica. Sapevamo che rintracciare da dove partiva una telefonata non era facile, ma, per quanto ne sapevamo, la polizia poteva anche aver installato un controllo a base di neutroni, o positroni o chissà quali altri “troni”, in modo da poter bloccare tutte le chiamate in arrivo al numero di Wolfe. Per tenerci al corrente delle novità, c’erano i giornali, ma giovedì sera e venerdì mattina non era stato stampato niente di sensazionale o degno di nota. Sulla “Gazette” non era apparsa neanche una parola sul rapimento. Lon Cohen aveva mantenuto la sua promessa. Niente neanche sul “Times” di venerdì mattina, né alla radio. Molto spazio era dedicato alla morte di Jimmy Vail, ma sempre secondo la versione datami da Lon: Margot Tedder era entrata in biblioteca alle nove e cinque del giovedì mattina, e l’aveva trovato sul pavimento, sotto Benjamin Franklin.
La statua di bronzo gli aveva schiacciato il torace.
Le persone che l’avevano visto per ultime erano cinque: sua moglie, il figlio e la figlia di sua moglie, Noel e Margot Tedder, l’avvocato Andrew Frost e Ralph Purcell. Si erano riuniti tutti nella biblioteca, dopo cena (non avevano voluto spiegare la ragione di quella conferenza familiare), e poco dopo le dieci Jimmy Vail aveva affermato di non aver dormito abbastanza in quegli ultimi tre giorni (per una motivo non specificato), e si era addormentato sul divano. Un’ora dopo dormiva ancora profondamente, quando gli altri se n’erano andati lasciandolo solo.
Noel, Margot e Ralph Purcell si erano ritirati nelle loro camere, la signora Vail e Andrew Frost si erano chiusi nello studio. Verso mezzanotte, Frost se n’era andato, e la signora Vail era andata a letto. A quanto pareva, neanche lei aveva riposato a sufficienza in quegli ultimi giorni, giacché quando i suoi figli erano entrati nella sua stanza, giovedì mattina, per dirle di Jimmy, dormiva ancora profondamente.
Tutte le persone che abitavano nella casa, inclusa la servitù, erano al corrente che la statua di Benjamin Franklin traballava.
La “Gazette” aveva pubblicato l’articolo di un esperto sui diversi metodi di assicurare una statua di bronzo al piedistallo. Non gli era stato permesso di esaminare la statua che aveva ucciso Jimmy Vail, ma secondo lui non era possibile che si fosse allentato un dado; era più probabile che una vite, o le viti, avessero avuto un difetto di fabbricazione e si fossero spezzate.
Sempre secondo l’esperto, l’ipotesi più probabile era che Jimmy Vail si fosse alzato dal divano, e, ancora insonnolito, si fosse aggrappato alla statua, tirandosela addosso. Pensai che la “Gazette” si era comportata in modo più che corretto: sarebbe bastato un sospetto di omicidio per vendere migliaia di copie in più, e invece il giornale aveva formulato l’ipotesi che si trattasse di morte accidentale. Erano riusciti, tra l’altro, a scattare la fotografia che, secondo Lon Cohen, sarebbe stata interessantissima: quella di Jimmy Vail con la statua sul torace.
Nessun membro della famiglia aveva rilasciato dichiarazioni. La signora Vail era a letto, affidata alle cure di un medico. Andrew Frost si rifiutava di ricevere i giornalisti, ma aveva confessato alla polizia che, quando era uscito da quella casa, verso mezzanotte, non era passato dalla biblioteca.
Come ho già accennato, venerdì mattina la radio non comunicò niente di nuovo. Verso le undici e dieci chiamai la Squadra Omicidi, con il telefono dello studio del dottor Vollmer, e dissi al centralinista di riferire all’ispettore Cramer che Wolfe doveva comunicargli delle informazioni riguardanti Jimmy Vail. Alle undici e tredici, contattai l’ufficio del procuratore distrettuale di White Plains, parlai con il vice procuratore, e lo pregai di riferire a Hobart che Wolfe aveva deciso di rispondere a tutte le domande che volevano sottoporgli. Alle undici e diciotto chiamai la “Gazette”, mi feci passare Lon Cohen, e gli comunicai che poteva stampare la notizia del rapimento, visto che ben presto sarebbe stata di dominio pubblico. Lo autorizzai perfino a citarmi come fonte dell’informazione, ammesso che fosse capace di scrivere i nostri nomi senza errori.
Naturalmente avrebbe voluto altri particolari, ma io riattaccai prima che insistesse.
Alle undici e ventiquattro ringraziammo Helen Gillard, la incaricammo di porgere i nostri ossequi al dottore, e uscimmo. Camminammo fino alla soglia di casa Wolfe, trovammo la porta chiusa dall’interno con la catena di sicurezza, suonammo, fummo ammessi da Fritz, e apprendemmo che il giorno prima, dieci minuti dopo che eravamo usciti, era arrivato il sergente Purley Stebbins. Verso le sei, invece, si era fatto vivo l’ispettore Cramer in persona. Niente mandati di perquisizione, ma Cramer aveva telefonato alle otto e quarantatré, e poi di nuovo alle dieci e diciannove.
Appena arrivato sulla soglia dello studio, Wolfe si informò delle condizioni delle ostriche, e Fritz rispose che erano perfette. Dopo un attimo, il mio capo era sprofondato nella poltrona della scrivania, l’unica che facesse veramente al caso suo, e teneva gli occhi chiusi, respirando lentamente e a fondo.
Io ero sistemato al mio posto e avevo cominciato ad aprire la posta, quando squillò il campanello. Andai ad aprire e mi trovai di fronte all’ispettore Cramer, il suo viso era più rosso del solito e le spalle massicce lievemente sporte in avanti. Lo feci accomodare, ma non mi degnò neppure di uno sguardo; proseguì verso lo studio, mentre io lo seguivo. Una volta sulla soglia, lo sentii gracchiare: – Dove siete stati, voi e Goodwin, da ieri pomeriggio?
Cinquanta minuti più tardi, alle dodici e trentacinque, ripeteva la domanda, sia pure in altri termini.
Avevamo vuotato il sacco.
Naturalmente, avevo parlato quasi sempre io, perché come tutti sanno (o almeno, come sanno una decina di persone), l’unica differenza tra me e un registratore è che io posso rispondere, quando vengo interrogato.
Per buona parte del mio recital, Wolfe era stato assente. Alla fine, avevamo consegnato a Cramer una copia fotografica della lettera di richiesta del riscatto arrivata per posta, la trascrizione esatta dei biglietti trovati dalla signora Vail nelle guide telefoniche e quella della conversazione avuta dalla signora con il signor Knapp. Da parte mia, avevo fatto di tutto per spiegare a Cramer che il punto più importante di tutta la faccenda era stato di riportare Jimmy Vail a casa sano e salvo. Non solo, ma di aiutare lui e sua moglie a mantenere la promessa fatta ai rapitori. Naturalmente, Cramer aveva cominciato a calpestare le mie dichiarazioni con i suoi piedi ormai notoriamente piatti. Perché avevamo continuato a proteggere Vail anche ventiquattr’ore dopo che era morto? Certo, perché Wolfe non voleva rinunciare ai quattrini della signora Vail, già depositati in banca! Che vergogna! Nascondere delle informazioni in un caso di omicidio, solo per guadagnarsi un onorario!
Wolfe aveva sbuffato, e io mi ero sentito ferito. Avevamo voluto proteggere la povera vedova!
E poi, chi diceva che Vail fosse stato assassinato? Forse che Cramer ne fosse sicuro? Avevo letto l’articolo di un esperto, secondo il quale era probabile che si trattasse di un incidente. Giusto? Cramer non aveva risposto, ma evidentemente era convinto che nella morte di Jimmy ci fosse qualcosa di losco. Alla fine aveva ammesso, sia pure a malincuore, che l’ufficio del procuratore distrettuale aveva attribuito la causa di quella morte alla caduta di una statua di bronzo, ma che non si poteva sapere niente di sicuro finché l’autopsia non fosse stata completata. Poi si era tolto di bocca il sigaro cincischiato e aveva ripetuto per l’ennesima volta che voleva sapere dove eravamo stati nelle ultime ventiquattro ore.
Wolfe non si lasciò scomporre. Era tornato a casa, nella sua poltrona; l’ora X era trascorsa, e le ostriche sarebbero state pronte nel giro di un’ora.
– Come vi ho spiegato – grufolò – sapevo che saremmo stati importunati, perciò abbiamo deciso di andarcene. Trovo inutile dirvi dove. Non abbiamo fatto niente e non abbiamo comunicato con nessuno. Alle undici di stamattina, ora in cui è scaduto l’impegno che avevamo preso con la signora Vail, il signor Goodwin ha telefonato al vostro ufficio. Non avete ragione di rammaricarvi del nostro comportamento. Ancora non siete in grado di poter affermare che è stato commesso un omicidio. State svolgendo delle indagini per appurarlo. Di conseguenza, non potete accusarci di aver ostacolato il corso della giustizia. Dalle domande che avete rivolto al signor Goodwin, arguisco che lo sospettate di aver tentato di rintracciare la macchina da scrivere sparita dallo studio della signora Vail. Bubbole. Da ieri pomeriggio, non ha mosso un dito, così come non l’ho mosso io. Per quanto ci riguarda, il caso ha perso ogni interesse. Non abbiamo più alcun impegno da rispettare nei confronti della signora Vail.
«Non abbiamo clienti. Se è stata lei a uccidere sia la signorina Utley sia il signor Vail, cosa improbabile ma non impossibile, non le dobbiamo alcuna solidarietà.»
– Vi ha versato sessantamila dollari.
– Me il sono guadagnati, rispettando i termini del nostro accordo.
Cramer si alzò, venne davanti alla mia scrivania e lasciò cadere il sigaro spento nel cestino della carta straccia. Strano. In genere, lo buttava da lontano, e sbagliava regolarmente la mira.
Andò a raccogliere il cappello dal pavimento, dove l’aveva appoggiato, e si voltò verso Wolfe: – Voglio una deposizione firmata da voi e da Goodwin. Una deposizione particolareggiata. Dev’essere nel mio ufficio per le quattro. Probabilmente il procuratore distrettuale vorrà parlare con Goodwin. Spero che voglia parlare anche con voi.
– È impossibile trascrivere per le quattro ciò che è stato detto da ogni persona coinvolta in quest’affare – obiettai. – Facciamo per le sei.
– Voglio la sostanza di quanto è stato detto, completa di particolari.
«Potete omettere la parte che si è svolta a White Plains, perché ho già ricevuto un rapporto dalla polizia della Contea di Westchester. – Si voltò e marciò verso l’uscita. Lo seguii lungo Patrio, gli chiusi la porta alle spalle e tornai nello studio. Wolfe aveva riaperto il libro. Finii di esaminare la posta, la misi sulla scrivania di Wolfe, mi tirai davanti la macchina da scrivere e preparai fogli e carta carbone. Era un lavoro duro, quello che mi aspettava, e per giunta avrebbe rappresentato una perdita di tempo, visto che eravamo senza caso e senza clienti. Quattro copie: una per la polizia di Westchester, una per il procuratore distrettuale di Manhattan, e due per noi.»
Mentre introducevo i fogli nella macchina, alle mie spalle tuonò la voce di Wolfe: – Un fascio di Dendrobium Chrysotoxum per la signorina Gillard, e uno di Laelia Purpurata per il dottor Vollmer. Domani.
– Bene. E di Leggenda Sedentaria per voi, e di Iran scriptum Macchinae Underwoodae per me. – Cominciai a far crepitare i tasti.
Erano le quattro e cinque quando, dopo aver mangiato qualcosa ed essermi cambiato la camicia, uscii di casa, andai all’edicola a comprare la “Gazette” e feci un cenno a un taxi. Ero riuscito appena in tempo a far firmare la deposizione da Wolfe prima che salisse nella serra, perché eravamo stati interrotti parecchie volte. Mi aveva telefonato il sergente Stebbins per dirmi di portare la deposizione all’ufficio del procuratore distrettuale, invece che alla Squadra Omicidi. Poi ero stato chiamato da Ben Dykes, che dopo avermi tenuto all’apparecchio per quindici minuti, si era rassegnato ad accettare di vedere Wolfe sabato mattina alle undici e mezzo, e non prima.
Si erano fatti vivi tre giornalisti, due per telefono e uno di persona, ma erano stati respinti. A quanto pareva, li aveva risvegliati la prima pagina della “Gazette”, che lessi mentre il taxi mi portava verso il centro: c’era la notizia del rapimento di Jimmy Vail e della consegna del riscatto da parte di sua moglie.
Naturalmente, non era una notizia mozzafiato, dato che Jimmy Vail era tornato a casa sano e salvo, per poi farsi ammazzare da una statua invece che dai rapitori, comunque restava pur sempre un buon colpo giornalistico. C’erano le fotografie della Fowler’s Inn, del Vitello Grasso e di Iron Mine Road. Lon Cohen aveva fatto le cose a dovere, includendo un lieve accenno a Wolfe e a me. Dava l’impressione che fossimo al corrente della cosa solo perché non ci sfuggiva niente, il che era quanto di meglio poteva offrirci, in cambio del favore che gli avevamo fatto.
Quando arrivai al numero centocinquantacinque di Leonard Street e fui accompagnato nell’ufficio del vice procuratore distrettuale Mandel, quest’ultimo mi salutò picchiando l’indice sulla “Gazette” posata sulla scrivania e domandando: – Quando gli avete raccontato questa storia? – Risposi che gliel’avevo raccontata alle undici e diciotto di quella mattina.
In fondo, me la cavai con una certa facilità.
Avevo avuto parecchi colloqui, in quell’ufficio: uno era durato sei ore abbondanti, un altro quattordici ore, e due erano finiti con me chiuso in una cella come testimone oculare.
Quel giorno, Mandel e due tirapiedi della Squadra Omicidi mi lasciarono andare nel giro di due ore, in parte perché ufficialmente il rapimento riguardava la Contea di Westchester, in parte perché avevo portato la deposizione firmata, e in parte perché non erano sicuri che la morte di Jimmy Vail fosse un omicidio.
I poliziotti, in genere, preferiscono occuparsi di casi meno clamorosi: quando ci sono di mezzo famiglie come i Tedder e come i Vail, appena possono, girano volentieri al largo.
Di conseguenza, dopo avermi bersagliato di domande per quasi due ore, mi invitarono a ripulire la stanza della mia presenza. Alle sei e un quarto, pagavo il tassista e scendevo davanti alla vecchia casa di arenaria che è il mio nido.
Mentre i miei piedi toccavano il marciapiede, qualcuno mi afferrò per un braccio e pronunciò il mio nome. Mi voltai di scatto.
Era Noel Tedder. – Chi diavolo crede di essere, questo Nero Wolfe? – squittì.
– Dipende dallo stato d’animo in cui si trova. – Cercai di liberarmi, ma lui mi strinse ancora di più. – Lasciate andare il mio braccio, potrebbe servirmi. Che succede, vi ha preso a pedate?
– Non sono neanche entrato. Prima di tutto, mi è stato detto attraverso uno spioncino di tornare dopo le sei, cosa che ho fatto. Poi mi è stato comunicato che Wolfe aveva da fare... anzi, che era “impossibilitato a ricevermi a causa di impegni urgentissimi”. A questo punto, ho chiesto di voi. Mi stato risposto che eravate fuori e che non sapevano quando sareste tornato. Ho domandato se potevo di entrare, in modo da aspettarvi comodamente seduto, e mi sono sentito rispondere con un “pfui”. Che cosa ci vuole, per oltrepassare quella soglia, il passaporto?
– Avete detto chi eravate?
– Certo.
– Gli avete spiegato perché volevate parlargli?
– No. Se devo spiegarglielo, però, lo farò.
– Impossibile. Prima dovete dirlo a me. È una regola. Inoltre, il signor Wolfe ha avuto una giornata piuttosto difficile. A colazione non ha avuto la solita marmellata di mirtilli fatta in casa, è stato costretto a saltare il consueto incontro mattutino con le sue orchidee, ha ricevuto la visita di un ispettore di polizia alquanto importuno, e ha dovuto leggere e firmare una lunga deposizione noiosa. Se mi dite cosa desiderate, può anche darsi che vi riceva. In caso contrario, non avete speranze.
– Qui fuori?
– Possiamo sederci sui gradini, se siete stanco. Si voltò a guardare due passanti. Aveva bisogno di farsi la barba. Aveva bisogno anche di tagliarsi i capelli, oppure di un pettine, oppure di un cappello. In quanto alla giacca sportiva e ai calzoni di flanella, un ferro da stiro avrebbe fatto al caso loro. Quando i due passanti si furono allontanati, Noel Tedder riportò lo sguardo su di me.
– Avrei la possibilità di guadagnare dei quattrini, ma non posso farlo da solo. Non saprei da dove cominciare. Mia madre mi ha detto che se riesco a recuperare i soldi del riscatto, o parte di questi soldi, posso tenermeli. Mezzo milione! Voglio che Nero Wolfe mi aiuti. Sono disposto a dargli un quinto della somma che riuscirà a recuperare.
Inarcai le sopracciglia. – E quando ve l’ha detto, vostra madre?
– Mercoledì sera.
– Può darsi che oggi abbia cambiato idea.
– No. Gliene ho parlato questo pomeriggio. Non molto... be’, insomma, è piuttosto abbattuta... comunque, ho pensato che non c’era niente di male, a parlargliene. Ha risposto di sì, che potevo prendermi tutto quello che fossi riuscito a recuperare, perché lei non vuole più vederlo, quel denaro, ora.
Le mie sopracciglia erano ancora corrucciate. – La polizia è al corrente del rapimento. E anche l’FBI.
– Non so se l’FBI ne sia al corrente. Alla polizia l’abbiamo detto noi stamattina.
– Decine di uomini preparati e intelligenti sono già al lavoro. Entro domani, ce ne saranno centinaia. Non avete molte probabilità di arrivare prima di loro.
– Maledizione, lo so! È per questo che sono venuto da Nero Wolfe! Lui è più intelligente di tutti i poliziotti messi insieme, no?
– Certo. – Stavo pensando a un particolare che mi interessava: non ci eravamo mai trovati alle prese con un problema del genere. Se Wolfe avesse accettato, sarebbe stato quanto mai eccitante vedere come l’avrebbe risolto. Sarebbe stato altrettanto eccitante incassare parte della cifra recuperata.
– Sentite – dissi. – Secondo me, è difficile che il signor Wolfe accetti un incarico del genere. Non solo è un tipo eccentrico, ma detesta lavorare; di conseguenza, non accetta mai incarichi particolarmente pressanti. Comunque sia, sono disposto a parlargliene. Potete accomodarvi.
– Ammesso che riusciate a farvi aprire quella maledetta porta! – squittì. La vocetta stridula stonava con il suo fisico atletico.
– Posso sempre provare.
Premetti il campanello, visto che all’interno era stata messa la catena di sicurezza. Se Fritz, spalancando l’uscio, restò sorpreso nel vedermi entrare con un visitatore che era già stato scacciato per due volte, non lo dimostrò. Fritz dimostra solo quello che pensa sia doveroso dimostrare.
Accompagnai Tedder nella stanza centrale e ce lo lasciai, poi andai nello studio passando dall’atrio, invece che dalla porta comunicante.
Wolfe, alla scrivania, stava frugando in un cassetto aperto. Contava i tappi delle bottiglie di birra, per assicurarsi di essersi messo in pari con la solita dose settimanale, dopo essere stato assente per ventiquattr’ore. Aspettai a parlare finché non ebbe finito di contare e non ebbe chiuso il cassetto.
– Ossequi da parte del signor Mandel. Non ho parlato col procuratore distrettuale. Probabilmente non ci scocceranno più, finché non avranno stabilito che Jimmy Vail non è morto accidentalmente, cosa che senza dubbio preferirebbero non fare. Avete letto la “Gazette” per caso?
– Sì.
– Qualche commento?
– No.
– Allora non mi devo ancora considerare licenziato. Prendo un mese di permesso, senza stipendio. Può anche darsi che il mese si protragga...
Strinse le labbra e respirò a fondo. – Avete intenzione di irritarmi oltre ogni limite di sopportazione?
– Nossignore. Voglio solo cogliere un’occasione d’oro. Quando sono arrivato, pochi minuti fa, ho trovato Noel Tedder davanti alla porta.
Lui sì che era irritato oltre ogni limite di sopportazione perché vi siete rifiutato di riceverlo. Mercoledì, sua madre gli ha detto che può tenersi i soldi del riscatto, se riesce a rientrarne in possesso. E lui è venuto a offrirvene un quinto, purché lo aiutiate. Naturalmente, visto che ormai accettate solo casi che al massimo richiedono un’inserzione sul giornale, la proposta non può interessarvi. Quindi, ho intenzione di dire a Tedder che mi occuperò personalmente del suo problema. Mi sono preso la libertà di farlo accomodare nella stanza centrale. Mi è sembrato doveroso parlarne con voi prima. Mi rendo conto che non ho molte probabilità di riuscita, ma se arrivassi a recuperare tutto il malloppo, la mia parte ammonterebbe a centomila dollari. In questo caso aprirei un ufficio a mio nome, magari in società con Saul Panzer, e la smetterei di irritarvi oltre...
– Silenzio!
– Sissignore. Ecco un altro vantaggio: non sareste più costretto a sbraitare e...
– Silenzio.
– Sissignore.
Mi guardò con freddezza. – E così, sperate di costringermi a occuparmi di quest’assurda questione.
– Almeno perdete un minuto del vostro prezioso tempo per studiarla più da vicino. Sarebbe piacevole trovare qualcosa che diecimila poliziotti e agenti federali cercano. Mi rendo conto che le probabilità di riuscita sono minime, ma se fate centro e aggiungete i centomila dollari a quello che già avete depositato in banca, potrete riposarvi fino all’inverno, e non siamo ancora a maggio. Se fallite, al massimo ci rimetterete le spese. In quanto a me, siccome detesto starmene con le mani in mano tutto il giorno, se non vorrete occuparvi di quest’affare, prendo un mese di permesso. Ci penserà Fritz a spolverarvi la scrivania e a vuotarvi il cestino della carta straccia. In quanto alla porta, potrete sempre aprirvela da solo.
– State bluffando. Non sareste mai capace di fare una cosa del genere.
– Mettetemi alla prova.
Chiuse gli occhi, probabilmente per contemplare la rosea possibilità di restare mesi e mesi senza niente da fare e senza clienti da ricevere.
Dopo un minuto, li riaprì.
– Fatelo entrare.