Alle sei, quando mi arrivò il cigolio dell’ascensore che portava Wolfe al pianterreno, ero seduto nello studio, con i piedi appoggiati sulla mia scrivania, il peso del corpo in bilico sull’osso sacro, la testa contro lo schienale della poltrona.
Per venti minuti, non avevo fatto altro che inventare ipotesi. In fondo, non avevo niente di solido su cui lavorare, ma poiché un giorno o l’altro il rapimento di Jimmy Vail, incluso l’omicidio di Dinah, sarebbe diventato di dominio pubblico, se fossi riuscito a dare almeno una parvenza di spiegazione alla faccenda, mi sarei sentito orgoglioso di me stesso.
Di conseguenza ci avevo messo tutta la buona volontà, nel mio lavoro di cervello.
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Domanda: la Utley era coinvolta nel rapimento?
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Risposta: Certo. È stata lei a battere a macchina la lettera arrivata per posta e i biglietti che la signora Vail ha trovato nelle guide telefoniche.
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D.: Chi ha fatto sparire la macchina da scrivere?
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R.: Dinah Utley, quando ha saputo che la signora Vail si era rivolta a Nero Wolfe e quando io, prendendole le impronte digitali, le ho domandato che cosa si era fatta all’anulare e al mignolo della sinistra.
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D.: Dinah Utley era con l’uomo che ha ritirato la valigia della signora Vail?
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R.: No. Era nella propria macchina, nei pressi di Iron Mine Road. Partita la signora Vail, si è avvicinata al rapitore, perché voleva essere presente alla spartizione del malloppo. Però l’uomo che aveva ritirato la valigia, probabilmente il signor Knapp, non aveva nessuna intenzione di dividere il malloppo con lei, e così l’ha uccisa.
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D.: Oltre a Dinah Utley, qualcuno della famiglia Vail era coinvolto nel rapimento?
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R.: Sì. Jimmy Vail, che ha rapito se stesso. Aveva anche un altro complice, però, perché non era lui al telefono. Sarebbe stato troppo rischioso: sua moglie avrebbe riconosciuto la voce anche se avesse tentato di contraffarla. Ma potrebbe essere l’uomo che ha ritirato la valigia e che ha ucciso Dinah Utley. Questo non collima con il “probabilmente il signor Knapp” di cui sopra, ma in fondo non siamo in tribunale. Indizi a carico: Jimmy Vail scappato da questo studio, quando ha sentito che Nero Wolfe diceva alla signora Vail che sospettavamo di Dinah Utley. Inoltre, ha tentato di mettere a tacere sua moglie, quando lei mi ha mostrato i biglietti trovati nelle guide telefoniche. Anzi, è arrivato a chiedermi di consegnargli quei biglietti. Per non parlare del suo comportamento durante tutto il colloquio. E poi, perché insiste tanto sulla necessità di tenere il becco chiuso fino a venerdì?
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D.: Perché si è alleato con Dinah Utley?
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R.: Passo. Esistono decine di spiegazioni possibili.
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D.: Ma non è stato un po’ troppo ingenuo, a far battere la lettera su quella macchina da scrivere?
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R.: No. Sapendo che sua moglie avrebbe perso la testa, ricevendo la lettera, era convinto di andare sul sicuro. Alla signora Vail non sarebbe certo venuto in mente di confrontare la lettera con la macchina. Al suo ritorno, Jimmy avrebbe distrutto ogni cosa, affermando di averlo promesso al signor Knapp e di aver paura a non farlo. Doveva pur usare una macchina da scrivere, e noleggiarne una, o addirittura comprarla, però sarebbe stato ancor più pericoloso. Se usava quella che aveva in casa e poi distruggeva tutti i biglietti, il rischio sarebbe stato praticamente inesistente. Tanto è vero che ha fatto di tutto perché io non portassi via i biglietti.
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D.: È possibile che Ralph Purcell, Andrew Frost o Noel Tedder siano il signor Knapp?
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R.: No, non è possibile. La signora Vail conosce fin troppo bene le loro voci.
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D.: Venerdì, se non prima, Jimmy dovrà raccontare tutto. Dove e quando l’hanno rapito, dove l’hanno tenuto prigioniero, dove l’hanno liberato. Con la polizia e gli agenti federali alle costole, è sicuro di poter tener duro e di riuscire a non contraddirsi?
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R.: Non ha bisogno di scendere in troppi particolari. Potrà sempre raccontare che gli avevano bendato gli occhi e che quindi non sa dove l’hanno condotto. Ieri sera, oppure stamattina presto, l’hanno portato da qualche altra parte, sempre bendato, e l’hanno lasciato libero.
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D.: In questo caso, come faremo a provare che Jimmy Vail è il rapitore di se stesso?
Stavo meditando su questa domanda, quando mi giunse il cigolio dell’ascensore. Entrò Wolfe, che andò alla scrivania e si accomodò sulla poltrona, prima di ordinare: – Rapporto!
Tirai giù i piedi e riequilibrai il peso del corpo sulle parti basse.
– Sissignore. È Dinah Utley. Ho detto al procuratore distrettuale, Clark Hobart, che l’avevo vista ieri pomeriggio in questo studio, dov’era venuta per parlare con voi per un caso affidatevi personalmente dalla signora Vail. Quando mi ha domandato di che cosa si trattava, ho stabilito che sarebbe stato poco educato rispondergli semplicemente di andare al diavolo, perciò gli ho spiegato che se lui mi rivelava dove e quando Dinah Utley era morta, avrei riferito a voi, e voi, a vostra volta, avreste deciso il da farsi. Naturalmente, è inutile mettervi al corrente, dei particolari, dato che avete già affermato che non ci interessano e che per noi il caso è chiuso... Ho raccontato tutto alla signora Vail, promettendole che terremo il becco chiuso fino a venerdì mattina.
Mi tirai davanti la macchina da scrivere, inserii la carta, veline e carta carbone, e cominciai a picchiettare sui tasti. Quando due persone sono costrette a passare le giornate insieme, è molto importante che si capiscano perfettamente. Wolfe capiva che ero troppo cocciuto per aggiungere una sola parola se lui non mi chiedeva di farlo, e io capivo che lui era troppo puntiglioso per chiedermelo. Naturalmente, visto che mi pagava un lauto stipendio, dovevo tenermi occupato; non potevo permettermi di restarmene seduto a covare la mia cocciutaggine. Copiai i testi dei due biglietti, poi gli altri appunti che avevo buttato giù sul taccuino e, quando ebbi finito, mi alzai, andai alla cassaforte, l’aprii e tirai fuori là lettera che il signor Knapp aveva mandato per posta. Mi sembrava abbastanza probabile che Jimmy Vail venisse a richiederla, prima o poi, e da come stavano andando le cose, ero convinto che sarebbe stato meglio per noi se avessimo avuto una copia da mostrare a qualcuno, al momento adatto.
Appuntai la lettera sul sottomano e la appoggiai contro la spalliera della sedia, tirai fuori una delle macchine fotografiche (la Tollens, visto che è l’unica con cui riesco a fare delle cosette decenti) e scattai una mezza dozzina di foto.
A questo punto, Wolfe era tornato al suo libro e mi ignorava. Avevo appena riposto la lettera nella cassaforte e la macchina fotografica nel cassetto, quando suonò il campanello.
Andai nell’atrio e sbirciai dallo spioncino, dopodiché tornai nello studio e dissi: – Scusatemi se vi interrompo. Fuori dalla porta c’è Ben Dykes, capo degli agenti investigativi della Contea di Westchester. Era presente anche lui, oggi, nell’ufficio del procuratore distrettuale. È leggermente ingrassato, dall’ultima volta che l’avete visto in casa di James U. Sperling, vicino a Chappaqua.
Finì il paragrafo che stava leggendo, prima di alzare gli occhi dal libro.
– Maledizione! – imprecò sottovoce. – Devo proprio riceverlo?
– No. Posso dirgli che la cosa non vi interessa. Può darsi che tra un paio di settimane si decidano a trascinarci a White Plains con l’aiuto di un mandato di comparizione, però.
– Non avete fatto rapporto.
– Vi ho raccontato tutto quello che, secondo voi, poteva interessarvi.
– Il vostro modo d’agire è quantomeno capzioso. Fate entrare il signor Dykes.
Mentre mi dirigevo verso la porta, pensai che non dovevo cercare sul dizionario la parola “capzioso”. Quel suo scherzetto di terminare le discussioni con dei termini che non avevo mai sentito in vita mia, cominciava a darmi sui nervi. Aprii l’uscio, dissi a Ben Dykes che lo stavamo aspettando, il che era vero. Gli presi cappello e cappotto e lo guidai verso lo studio.
Fece tre passi oltre la soglia e poi si fermò per guardarsi attorno. – Mica male – commentò. – Lo vorrei anch’io, uno studio così. Non credo che vi ricordiate di me, signor Wolfe. – Lui rispose che lo ricordava benissimo e lo pregò di accomodarsi. Dykes andò a prendere posto sulla poltroncina rossa.
– Non ho creduto opportuno portarmi dietro un agente della polizia locale – esordì – dato che ho bisogno solo di un’informazione. Goodwin vi ha raccontato di Dinah Utley. Ieri pensavamo che voi due foste stati gli ultimi ad averla vista viva, ma da allora sono saltate fuori altre due persone che l’hanno incontrata dopo di voi. Ma sapete come vanno le cose, quando si tratta d’omicidio: bisogna pur cominciare da qualche parte. È appunto quello che sto tentando di fare: trovare un punto d’avvio, e forse voi potete aiutarmi. Goodwin ci ha detto che Dinah Utley era venuta qui perché la signora Vail l’aveva pregata di farlo. È vero?
– Sì.
– Be’, naturalmente non vi chiedo di comunicarmi quale incarico la signora Vail vi ha affidato, perché mi rendo conto che è una cosa confidenziale. Mi limito a domandarvi di Dinah Utley. Non vi chiedo neanche che cosa le avete detto, voglio solo sapere che cosa vi ha raccontato lei. È molto importante, perché è stata assassinata dopo otto o nove ore dal colloquio che aveva avuto con voi. Che cosa vi ha rivelato?
Wolfe sollevò di pochi millimetri gli angoli della bocca. – Ammirevole – dichiarò. – Competente e piuttosto ammirevole.
Dykes tirò fuori il taccuino. – Ha detto questo?
– No. Questo lo dico io. La vostra domanda non poteva essere formulata in modo più intelligente. Ammirevole. Avete il diritto di chiedere in cambio, da parte mia, altrettanta chiarezza. – Sollevò una mano. – Signor Dykes, non posso riferire le parole della signorina Utley senza divulgare le confidenze fattemi in precedenza dalla signora Vail. Ora, dato che non mi trovo sul banco dei testimoni, sta a me decidere se tali confidenze hanno a che fare con l’omicidio della signorina Utley. E da quanto mi risulta, in tutta tranquillità posso assicurarvi che non ci hanno a che fare. Di conseguenza, a mio rischio e pericolo, non aprirò bocca in proposito.
– Quindi vi rifiutate di rispondermi?
– Sì.
– Vi rifiutate di dirmi che cosa volevate da Dinah Utley a poche ore dal suo assassinio?
– Sì.
– Vi rifiutate allora anche di riferirmi la ragione della sua visita?
– Sì.
Dykes si alzò. – Come avete detto, a vostro rischio e pericolo. – Si guardò attorno. – Proprio accogliente, questo studio. Mi ha fatto piacere rivedervi. – Si voltò e si diresse verso la porta. Lo seguii lungo l’atrio.
Quando gli porsi il cappotto, disse: – Anche a vostro rischio e pericolo, Goodwin, non dimenticatelo. – Gli consegnai il capello e lo ringraziai per l’avvenimento. Poi lo pregai di porgere al capitano Saunders i miei saluti.
Quando tornai nello studio, il mio capo aveva riaperto il libro. Wolfe è sempre cocciuto, ma a volte è peggio di un mulo. Ancora non sapeva dove e quando Dinah Utley era stata uccisa, né aveva idea di quanto potesse essere rischioso, per noi, tentare di guadagnare il resto di quei sessantamila dollari, ma non si sarebbe mai abbassato a chiedermi di metterlo al corrente di come stavano i fatti. Né tantomeno avrebbe ammesso che la morte di Dinah Utley poteva interessarci, dopo che era stato tanto stupido da affermare, sia pure per un attimo, che non ci interessava affatto.
Durante la cena, mentre si ingozzava di animelle immerse in una salsa inventata da lui e da Fritz, divagò su un argomento che pareva stargli particolarmente a cuore: secondo lui, per conoscere a fondo qualunque società umana, era sufficiente appurare di che cosa si nutriva, il resto sarebbe stato facile da dedurre. E per “il resto”, intendeva cultura, filosofia, etica, politica, eccetera.
Da parte mia, godetti la cena a fondo, perché quella salsa era uno dei piatti migliori di Fritz. Comunque, non potei fare a meno di chiedermi che cosa sarebbe saltato fuori, se qualcuno avesse tentato di scoprire tutto su Nero Wolfe basandosi su quello che aveva mangiato negli ultimi dieci anni. Decisi che quel qualcuno avrebbe dedotto che era morto.
Dopo cena, uscii. Il mercoledì era serata di poker, e quella serata in particolare eravamo ospiti di Saul Panzer, nell’appartamentino rimodernato all’ultimo piano di un edificio della Trentottesima Strada. Comunque, avrò occasione di parlarvi di Saul più avanti. Se l’avete già conosciuto, capirete perché ci tenevo a passare un’eretta da solo con lui; volevo metterlo al corrente della situazione e sentire se era d’accordo con me, per quanto riguardava Jimmy Vail. Nonostante questo, però, in un certo senso fui soddisfatto di non avere la possibilità di restare a quattrocchi con lui, poiché se avesse accettato la mia tesi, mi sarei trovato ad affrontare un problema grave: non si sarebbe più trattato di una mia ipotesi personale, e il fatto che Jimmy Vail fosse riuscito a convincerci a tenere la bocca chiusa con la polizia fino a venerdì, poteva metterci nei guai. Naturalmente, tutto questo avrebbe dato una lezione a Wolfe, ma c’ero anch’io di mezzo.
La partita di poker non andò bene per me, giacché ero preoccupato.
A Saul non sfugge niente. Si accorse che non giocavo con la solita abilità e fece alcuni commenti pepati in proposito. In quanto a lui, proseguì come se la cosa non lo riguardasse. Quando ce ne andammo, alle due, aveva intascato più di cento dollari usciti dal mio portafoglio, e io non avevo più nessuna voglia di considerarlo un vecchio amico fidato.
Il giovedì, in genere, se non c’è niente di urgente da fare, non esco mai di camera prima delle nove e mezzo. Quel giovedì in particolare, invece, mi trovai con gli occhi fissi sul soffitto prima delle otto.
Cominciavo a risentire della tensione. – Al diavolo Jimmy Vail! – esclamai alla fine. buttando le gambe giù dal letto.
Mi piace camminare. Adoravo passeggiare per i boschi quando ero bambino, nell’Ohio, e al giorno d’oggi mi piace ancora di più vagare sui marciapiedi di Manhattan. Se non apprezzate le lunghe passeggiate a piedi, non potete capirmi. Vi assicuro che trovarsi in mezzo alla gente, a contatto di gomito, è molto utile per studiare l’umanità dal giusto punto di vista.
Perciò, dopo essermi fatto il bagno e la barba, e dopo aver ingollato in fretta la colazione, detti un’occhiata al “Times”, chiamai la serra per comunicare a Wolfe che uscivo e che sarei rientrato per mezzogiorno, quindi me la battei.
Naturalmente, non basta vagare per la città per conoscere tutta la gente. Quello che intendevo dire è che si scopre sempre qualcosa su qualcuno in particolare. Quel giovedì mattina, per esempio, scoprii che cos’è capace di dire una ragazza apparentemente tranquilla e riservata, se le capita di infilare un tacco nella grata di un tombino. La cosa mi lasciò sbalordito, tanto che dovetti rivedere il mio giudizio sulle donne in generale e sulle ragazze apparentemente tranquille in particolare. Comunque, sempre passeggiando, mi capitò di entrare in un bar della Cinquantesima Strada. Una volta sistemato al banco, ordinai un bicchiere di latte e mi guardai attorno. Accanto a me, si sedette un tipo azzimato, che ordinò un caffè. Quando il barista gli mise davanti la tazza fumante, domandò: – Hai sentito di Jimmy Vail, Sam?
L’altro scosse il capo. – Come vuoi che faccia a sentire qualcosa, qui dentro? Sono sempre alle prese con qualcuno che è ubriaco. Perché, che cosa ha combinato Jimmy Vail di bello?
– È morto. L’ho sentito alla radio. L’hanno trovato stecchito sul pavimento, schiacciato da una statua. Come sai, ero amico di Jimmy, prima che sposasse la miliardaria. Amico intimo.
– Non lo sapevo. – Sam passò lo straccio sul banco. – Poveretto.
Entrò un altro cliente, e Sam si spostò verso di lui. Finii il mio bicchiere di latte, prima di ficcarmi nella cabina telefonica. Può anche darsi che l’avessi ingollato in fretta, il latte, ma accidenti, lo scolai fino all’ultima goccia. Non ero disposto a rinunciare a niente, per quel caso. Comunque, quando fui sul punto d’infilare la moneta nell’apparecchio telefonico, ci ripensai. Una voce al telefono va benissimo, ma fino a un certo punto, e poteva anche darsi che io decidessi di oltrepassarlo, quel punto. Quindi, mi conveniva allungare la mia passeggiata. Rimisi intasca la moneta, uscii dal bar, camminai per sette isolati a destra, e poi per tre a sinistra, entrai nell’atrio di marmo di un edificio e m’infilai nell’ascensore.
Feci un cenno di saluto alla segretaria del ventesimo piano, e proseguii. L’ufficio di Lon Cohen, con la targhetta con il nome sulla porta ma senza alcun titolo, era vicino a quello del direttore della “Gazette”. Non mi era mai capitato di entrarci senza trovarlo al telefono, e quella volta non rappresentò un’eccezione. Mi lanciò un’occhiata e continuò a parlare. Mi lasciai cadere su una sedia e lo studiai: non aveva l’aria assonnata, per quanto fosse uscito dalla casa di Saul Panzer alle due, insieme a me. Il suo viso olivastro era sbarbato e fresco, gli occhi penetranti e svegli come al solito. Non appena posò il telefono, si voltò verso di me e scosse il capo.
– Spiacente, ma ho depositato tutto in banca. Oltre a Saul, era stato l’unico vincitore, la sera precedente. – Avanti, non farti pregare – risposi. – Bastano pochi dollari, per salvarmi dal fallimento.
Piegò la testa da una parte. – Che c’è, Nero Wolfe ti ha mandato ad annusare l’aria? In genere, quando vieni da me vuoi un prestito. Oppure qualche notizia.
– No, non mi ha mandato Wolfe. Questa faccenda mi interessa personalmente. Stavo bevendo un bicchiere di latte, quando ho sentito qualcosa. Potrei aspettare l’uscita dei giornali, ma sono curioso. Raccontami tutto quello che sai.
– È morto.
– Questo lo so. Come?
– È stato trovato... Hai sentito parlare della biblioteca di Harold F. Tedder?
– Sì. È piena di statue.
– È stato trovato stamattina poco dopo le nove dalla figliastra. Margot Tedder. Era sul pavimento, con Benjamin Franklin sul petto. Benjamin Franklin in bronzo. Una copia della statua di John Thomas Maklin che è a Filadelfia. Sarebbe una fotografia interessantissima, ma non credo che riusciremo a scattarla.
– Come ha fatto, Franklin, a cadergli addosso?
– Magari lo sapessi! Tu hai qualche idea?
– No. Altre notizie?
– Quasi niente. Posso telefonare in cronaca, ma non credo che sia arrivato altro. Abbiamo messo al lavoro cinque giornalisti, ma lo sai come si comporta la polizia, quando ci sono in ballo tipi come Jimmy Vail. Per non parlare del procuratore distrettuale. Non ti mandano neanche al diavolo. Si limitano a tenere la bocca chiusa.
– Qualcosa devi pur sapere! Per esempio, da quanto tempo era morto, quando l’hanno trovato...
– Invece non ne ho idea. Spero di riuscire ad appurarlo per l’edizione delle tre. – Suonò il telefono. Lon prese il ricevitore, borbottò “sì” due volte e “no” quattro, poi tomo a me. – Ora sei tu a dovermi raccontare qualcosa, amico. È evidente che questo affare vi interessa da vicino. Ieri è stato trovato il cadavere della segretaria della signora Vail, in un fosso della Contea di Westchester. Oggi salta fuori il cadavere di Jimmy, nella biblioteca di casa Tedder. E poi arrivi tu... E bada bene, non ti limiti a telefonare, ma vieni di persona. Da questo deduco che Wolfe è stato assunto da qualcuno. Quando? Ieri? Deve occuparsi dell’omicidio della segretaria?
Lo osservai con attenzione per un attimo prima di rispondere. – Avrei da fornirti tante notizie da riempire l’intera prima pagina.
– Mi accontento di mezza. E non guardarmi a quel modo. Lo sai che sono ipersensibile. Allora, tu sai chi ha ucciso la segretaria.
– No. Pensavo di saperlo, ma ora non ne sono più tanto sicuro.
«Comunque, le notizie di cui sono al corrente devono restare segrete, per il momento. Quindi, anche se ti raccontassi tutto, dovresti tenerlo in serbo fino al momento opportuno. Sempre che non salti fuori da qualche altra parte. Comunque, ti assicuro che sono venuto qui di mia iniziativa. U mio capo non è al corrente di nulla.»
– E va bene. Vorrà dire che le terrò in serbo, le tue notizie, fino al momento opportuno.
– Guarda che mi fido!
– D’accordo. Ti prometto che non aprirò il becco.
– Allora prendi carta e matita. Jimmy Vail era aspettato a casa, di ritorno dalla campagna, domenica sera, ma non è tornato. Lunedì mattina, la signora Vail ha ricevuto una lettera, che le diceva che poteva riavere suo marito per cinquecentomila dollari, e che avrebbe ricevuto una telefonata da un certo signor Knapp. Ho una copia fotografica della lettera in questione. Te la cedo, se in cambio mi darai man forte alla prossima partita di poker, in modo da permettermi di rientrare in possesso dei quattrini che Saul mi ha vinto ieri sera. Ti piacerebbe avere la riproduzione della lettera in esclusiva?
– Ti prometto di appoggiare il tuo gioco alla prossima partita che faremo, finché non avrai vinto cento dollari. Siamo d’accordo?
– Sì.
– Accidenti! Questa storia del signor Knapp è davvero sensazionale!
Annuii. – Ha telefonato alla signora Vail lunedì pomeriggio e le ha detto di procurarsi i soldi, di metterli in una valigia, di riporre la valigia nel portabagagli della macchina e di trovarsi martedì sera per le dieci esatte alla Fowler’s Inn, sulla Statale Trentatré. La signora Vail ha ubbidito. Una volta alla Fowler’s Inn, è stata chiamata al telefono; una voce, probabilmente la stessa, le ha ordinato di aprire la guida telefonica alla lettera Z. La signora Vail ha trovato così un biglietto con ulteriori istruzioni. Non ho...
– Bene, splendido! – Lon Cohen scriveva freneticamente.
– Per favore non interrompermi, ho fretta. Non ho potuto fotografare questo biglietto, ma l’ho ricopiato testualmente. Comunque, tutti i messaggi erano dattiloscritti. Ma torniamo alla signora Vail: ha seguito le istruzioni, e dopo aver vagato a caso, per le undici si è trovata al Vitello Grasso. Una volta là, ha ricevuto Un’altra telefonata. Questa volta doveva aprire la guida alla lettera U. Ulteriori istruzioni. La signora Vail le ha seguite ed è arrivata in Iron Mine Road, una stradicciola piena di sassi, e...
– Dinah Utley! – esclamò Lon Cohen eccitato come non mai. – Dinah Utley, la segretaria, è stata trovata in Lon Mine Road!
– Non interrompermi. Quando una macchina dietro di lei ha fatto lampeggiare i fari, la signora Vail è scesa, ha tirato fuori la valigia dal portabagagli e l’ha consegnata a un uomo col viso nascosto che era sceso dall’altra automobile. L’uomo le ha ordinato di tornare a casa e di tenere la bocca chiusa, cosa che la signora Vail ha fatto. Verso le sette e mezzo di ieri mattina, suo marito le ha telefonato dalla loro villa di campagna e le ha detto che i rapitori l’avevano lasciato libero, aggiungendo che si sarebbe lavato, cambiato e nutrito, e poi l’avrebbe raggiunta in città. Le ha raccomandato di non aprire il becco per nessun motivo per quarantott’ore, perché i rapitori, altrimenti, gliel’avrebbero fatta pagare cara. Non so con esattezza a che ora è arrivato a casa, nella Quinta Avenue, ma dev’essere stato verso le dieci.
Mi alzai. – Ora sai tutto. Me ne devo andare. Se il giornale pubblica anche un accenno a questa storia, prima che io ti abbia dato il via, scrivo una lettera al tuo direttore, e ti assicuro che nel giro di due ore sarai disoccupato. Se e quando ti darò via libera, non dovrai parlare di me o di Nero Wolfe. Lo stesso dicasi nel caso in cui la polizia dovesse scoprire la storia del rapimento prima che io ti dia il permesso di pubblicare quello che ti ho raccontato.
– Un momento! – Lon balzò in piedi. – Lo sai bene che questa faccenda e molto pericolosa! Potrei bruciarmi il di dietro!
– Certamente. E purtroppo, se dovesse accadere, non sarai più in grado di aiutarmi a vincere i miei cento dollari.
– È almeno attendibile, questa storia?
– No. Esiste un’alternativa: o è tutt’oro colato, dal principio alla fine, oppure Jimmy Vail era un bugiardo e quasi certamente un assassino.
«In quest’ultimo caso, non è più in grado di bruciarti neanche la punta del naso, figuriamoci il di dietro! Se è stato lui a uccidere Dinah Utley, chi ha ucciso lui? Benjamin Franklin? – Mi voltai per andare. »
– Accidenti, ascolta! – Mi afferrò per un braccio. – Dinah Utley era con la signora Vail, martedì sera?
– No. Dinah era andata in Iron Mine Road con la propria macchina.
«Non c’è altro, per ora, amico. Potresti continuare a farmi domande per un’ora, e non potrei risponderti. Tanto più che non avrei il tempo di stare a sentirti.»
Me ne andai.
Dentro l’ascensore, fuori nell’atrio, sul marciapiede, poi di nuovo in cammino. Col traffico che c’era a quell’ora, un taxi non avrebbe fatto certo prima di me, senza parlare del fatto che preferivo fare due passi. Giù per Lexington Avenue fino alla Trentacinquesima Strada, su per sette isolati, fino al vecchio edificio di arenaria. Salii i gradini, aprii la porta con la mia chiave, appesi il cappotto all’attaccapanni ed entrai nello studio. Wolfe era alla scrivania e si stava versando un bicchiere di birra.
– Buongiorno – dissi. – Avete sentito la radio?
– Sì.
– Ha parlato di Jimmy Vail?
– Sì.
Andai alla mia scrivania e mi misi a sedere.
– Sono venuto per darvi la soddisfazione di licenziarmi su due piedi. Ho disubbidito agli ordini. Sono sleale. Ho tradito la vostra fiducia.
«Ho appena finito di raccontare a Lon Cohen la storia del rapimento di Jimmy. Non perché la pubblichi, però. Non lo farà, finché non gli avrò dato il via. Non ho accennato al fatto che siete stato assunto dalla signora Vail. Vi ho tenuto fuori da questa faccenda. Non do le dimissioni, siete voi che mi licenziate, perciò ho diritto a due mesi di stipendio.»
Sollevò il bicchiere e bevve.
Ha la mania di bere la birra quando in superficie c’è ancora un po’ di schiuma, in modo da potersela poi leccare sulle labbra. Infatti la leccò, poi rimise il bicchiere sulla scrivania. – È uno dei vostri piaceri?
– Nossignore. Verità sacrosanta. Se volete che vi dica perché l’ho fatto, ve lo dirò. Non come attenuante, badate bene, ma tanto per tenervi informato. Volete che ve lo dica?
– Sì.
– Il terreno cominciava a scottare. Sapevo troppe cose che voi non sapevate. Non avete voluto essere messo al corrente di quello che avevo scoperto a White Plains. Avete intuito che sarei passato dalla signora Vail, al mio ritorno, ma non avete voluto sapere neanche che cosa avevo scoperto là. Da quanto...
– Non mi sono mai rifiutato di ascoltarvi.
– Storie. Sapete benissimo come sono andate le cose. Avevate affermato che non vi interessava quello che era accaduto a Dinah Utley, e che il caso era chiuso, per noi. Pensate che sia utile continuare a discuterne, comunque?
– No.
– Benissimo. Dunque, a un certo punto sono arrivato a una conclusione: Jimmy Vail aveva rapito se stesso, aveva ucciso Dinah Utley e ci stava prendendo per il fondo dei calzoni. Di conseguenza, ero nei guai.
«Avrei dovuto arrendermi e dirvi: “Vi prego, signor Wolfe, mettete via il libro per un attimo e abbiate la bontà di permettermi di raccontarvi quello che è accaduto, in modo che possiate decidere il da farsi”. Ecco cos’avrei dovuto fare, quando siete sceso, alle undici. Ma sapete benissimo che sono cocciuto. Quindi, non l’ho fatto. Ho preferito uscire e andare a bere un bicchiere di latte in un bar. Ma a un certo punto ho sentito un tizio che diceva che Jimmy Vail era stato trovato morto sul pavimento della biblioteca. Nella stessa biblioteca in cui ero andato ieri pomeriggio.»
Mi interruppi, nella speranza di creare un effetto drammatico.
– A questo punto, dove mi trovavo? Se i ragazzi della Squadra Omicidi non sapevano ancora che ieri avevo avuto un colloquio con l’intera famiglia, l’avrebbero saputo presto. E forse, al mio arrivo qui, avrei trovato Cramer in persona ad aspettarmi. E se Cramer mi avesse chiesto che cosa ci facevo, ieri, in casa Vail, i casi erano due: o avrei raccontato tutto, tradendo così l’impegno che avevamo assunto con la signora Vail, oppure sarei stato zitto, mettendomi in un guaio che, al minimo, mi avrebbe fatto perdere la licenza. Ormai era troppo tardi anche per dirvi: “Vi prego, signor Wolfe, abbiate la bontà di ascoltarmi, perché sono nei guai”. Che cosa avrei dovuto fare? Dovevo cavarmela da solo, cosa che ho fatto. Ho commesso un’azione che mi avevate proibito di commettere. Ho raccontato a Lon Cohen la storia del rapimento. Poi sono venuto qui, e quando ho visto che davanti alla porta non c’erano macchine della polizia, sono entrato. Ora licenziatemi, così me ne vado. E in fretta. Sono pronto a scommettere che non mi troveranno prima di domani mattina alle undici. L’ora X.
Mi alzai.
– Sedetevi – grugnì.
– No. Cramer o Stebbins potrebbero arrivare da un momento all’altro.
– Non li faremo entrare.
– Circonderanno la casa e torneranno con un mandato.
– Finitela! – sbraitò. – E va bene. Non mi lasciate scelta. Lo ammetto: quello che è accaduto alla signorina Utley potrebbe riguardarci da vicino. Fate rapporto. Particolareggiato.
– Se sono licenziato, perché dovrei fare rapporto?
– Non siete licenziato. Maledizione, fate rapporto!
– È troppo tardi. Sarei interrotto a metà. Il campanello potrebbe suonare da un momento all’altro.
Mi lanciò un’occhiata di fuoco, poi si voltò a guardare l’orologio appeso alla parete. Chiuse le mani a pugno e abbassò gli occhi, come per studiarle, poi le usò per spingere indietro la poltrona. Si alzò e si diresse verso la porta. Una volta nell’atrio, tuonò: – Fritz!
La porta della cucina venne spalancata di colpo e il tuttofare apparve sulla soglia. Wolfe si stava dirigendo verso l’attaccapanni. Fritz spalancò gli occhi: il mio sferico padrone prese il cappotto e si voltò.
– Le ostriche sono già aperte?
– No. Sono solo...
– Non apritele. Archie e io usciamo. Torneremo domani, per l’ora di colazione. Tenete chiusa la porta.
L’altro boccheggiò: – Ma...ma... – Era rimasto senza parole.
– Se qualcuno dovesse chiedervi dove siamo, non potete rispondere, perché non lo sapete. – Finalmente riuscì a infilarsi il cappotto, che gli avevo preso dalle mani e che reggevo. – Domani, colazione alla solita ora.
– Ma dovete prendere una valigia per...
– Mi arrangerò. Non preoccupatevi. Dite a Theodore che non salirò nella serra. Sapete che cos’è un mandato di perquisizione, vero? Se dovesse venire un poliziotto con un mandato del genere, fatelo entrare, ma non lasciatelo solo. Archie?
Avevo infilato il cappotto e aperto l’uscio. Wolfe oltrepassò la soglia, io lo seguii e chiusi l’uscio.
Mentre scendevamo i pochi gradini, domandai perplesso: – Devo prendere la macchina? – Rispose di no, e svoltò a destra, verso la Nona Avenue. Ma non raggiunse la Nona Avenue: a metà strada svoltò ancora a destra e dopo pochi passi prese a salire i pochi gradini che conducevano a un edificio di arenaria simile a quello in cui vivevamo noi. Premette il campanello, e dopo pochi attimi la porta venne aperta da una donna bruna e prosperosa, alla quale Wolfe aveva continuato a mandare orchidee, a ritmo regolare, negli ultimi dieci anni. Parve sorpresa di vederci.
– Ma... signor Wolfe... signor Goodwin... Entrate. Volete parlare con il dottore? Entrammo, e lei chiuse la porta.
– Non per ragioni professionali, però... – sentenziò Wolfe. – Possiamo aspettare qui?
– Certo, certo. – La donna era impacciata. Io ero già stato un paio di volte in quella casa, ma Wolfe non ci aveva mai messo piede. Il dottor Vollmer veniva a visitarlo a domicilio, quando era necessario. La donna andò in fondo all’atrio, aprì una porta e scomparve. Dopo un attimo, arrivò Vollmer: un tipo dall’aria triste, piccoletto, con una fronte che non finiva mai e la mascella praticamente inesistente. Anni prima mi aveva ricucito il ventre, in seguito a una coltellata infertami da un tizio irrequieto.
Si avvicinò. – Guarda, guarda! Entrate, entrate!
– Scusate il disturbo, dottore – disse il mio capo. – Abbiamo bisogno di una poltrona in cui sedere per il resto della giornata e di due letti per la notte. Naturalmente, anche di che nutrirci fino a domani. Potete ospitarci?
Vollmer non era solo meravigliato, quanto piuttosto sbalordito. – Ma... certo... Intendete dire per voi? Per voi e Archie?
– Sì. Aspettavamo un visitatore importuno e siamo ruggiti. Per domani, il visitatore in questione si sarà reso meno importuno. Fino ad allora, però, dobbiamo restare nascosti. Però. se tutto questo dovesse disturbarvi oltre il sostenibile...
– Ma neanche per sogno! – Vollmer sorrise bonario. – Sono onorato. Lusingato. Temo, però, che il cibo non sarà all’altezza delle vostre abitudini... Non ho Fritz, io. Avete bisogno di un telefono, in camera?
– No, grazie.
– Allora, scusate... ho un paziente nello studio...
Sparì, e dopo qualche minuto riapparve la donna dai capelli neri, il cui nome era Helen Gillard.
Ci invitò a seguirla, fingendo di accettare come normale amministrazione il fatto che due vicini arrivassero all’improvviso per chiedere vitto e alloggio. Ci guidò su per le scale, per due rampe, poi lungo un corridoio che portava, sul retro dell’edificio.
Entrammo in una stanza con due finestre, in mezzo alla quale troneggiava un letto enorme. Le pareti erano coperte di fotografie di giocatori di baseball, di barche a vela, di ragazzi e di ragazze. Bill Vollmer, al quale avevo insegnato un tempo come si rilevano le impronte digitali, era in collegio. Helen domandò: – Scendete per la colazione, oppure preferite che ve la porti in camera?
– Ancora non abbiamo deciso – rispose Wolfe prontamente. – Ve lo farà sapere il signor Goodwin.
– Avete bisogno di qualcosa?
– No, grazie.
La donna uscì, lasciando aperta la porta.
Andai a chiuderla. Ci togliemmo i cappotti, che appesi nell’armadio.
Wolfe restò in piedi a guardarsi intorno: non c’erano speranze.
Esistevano tre sedie, ma erano troppo piccole, per poter ospitare il suo deretano.
L’unica poltrona nella stanza, poi, aveva dei braccioli che avrebbero impedito nella maniera più assoluta ogni suo tentativo di sistemazione.
Wolfe sospirò; si avvicinò al letto, si mise a sedere sul bordo, si tolse le scarpe, si calò contro i cuscini, chiuse gli occhi e parlò: – Fate rapporto, Archie.