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All’una e un quarto, Clark Hobart, procuratore distrettuale della Contea di Westchester, strinse gli occhi e mi disse: – Siete completamente sprovvisto di buonsenso, Goodwin. Vi state mettendo nei guai.

Eravamo nel suo ufficio, una grande stanza d’angolo, illuminata da quattro finestre. Hobart era seduto alla scrivania; dalla testa ai piedi, trasudava autorità. Mascella volitiva, occhi penetranti, orecchie a sventola.

Io ero sistemato a lato della scrivania.

Di faccia a Hobart erano seduti il capitano Saunders, della polizia di Stato, e un uomo con il quale avevo già avuto dei contatti: Ben Dykes, capo degli agenti investigativi della Contea. Dykes era ingrassato, nei due anni in cui non ci eravamo visti; le rughe erano diventate solchi, sul suo viso, e lo stomaco straripava sulla cintura. A quanto dicevano, però, era ancora un poliziotto coi fiocchi.

Affrontai lo sguardo di Hobart, apertamente, ma senza aggressività.

– Vorrei assicurarmi che le cose vi siano arrivate così come sono accadute, visto che hanno fatto rapporto prima che entrassi io. Non penso che abbiano falsato il racconto deliberatamente; conosco Ben Dykes e so che non ne sarebbe capace. Ma preferisco evitare malintesi. Dunque: ho visto un cadavere, che ho identificato per quello di Dinah Utley. Il capitano Saunders mi ha domandato se la conoscevo bene, e io gli ho risposto di averla incontrata una sola volta, ieri pomeriggio, aggiungendo che l’identificazione, però, era ugualmente sicura. Saunders mi ha chiesto dove l’avevo incontrata, ieri pomeriggio, e io gli ho risposto: nello studio di Nero Wolfe. Lui mi ha domandato allora che cosa c’era venuta a fare, e io gli ho spiegato che era venuta per incarico della signora Vail, moglie di Jimmy Vail, e che era stato Wolfe a chiedere alla signora Vail di mandarla, in modo da poterla interrogare riguardo a un incarico confidenziale affidateci dalla stessa signora Vail. A questo punto, il capitano Saunders mi ha domandato di specificare qual era questo incarico confidenziale, e io...

– E voi vi siete rifiutato di dirglielo.

Annuii. – Questo è il punto. Il mio rifiuto era giustificato. Ho spiegato al capitano che avevo ricevuto istruzioni precise dal signor Wolfe.

Il capitano doveva dirmi dove e quando era stato trovato il cadavere, con tutti i particolari. Se si trattava di omicidio, a mia volta avrei riferito a Wolfe, il quale avrebbe deciso se era ragionevole supporre che la morte della signorina Utley potesse essere connessa in qualche modo con l’incarico affidategli dalla signora Vail. Non avevo ancora finito di parlare, quando il capitano Saunders mi ha interrotto, affermando che Dinah Utley era stata uccisa, e che quindi avrei fatto bene a raccontargli esattamente che cosa si erano detti, lei e il signor Wolfe, nello studio. Gli ho risposto che non ci pensavo neanche, e lui ha commentato che aveva sentito dire che mi consideravo un duro, ma che mi avrebbe portato in un posto solitario, dove mi avrebbe insegnato a vivere. Evidentemente, il capitano è un buontempone. Ben Dykes, che è semplicemente un poliziotto, non un eroe, ha insistito perché mi portasse da voi. Se i guai a cui accennavate consistono nell’essere consegnato nelle mani del capitano Saunders, per me va benissimo. È un po’ di tempo che penso di andare da uno psichiatra, per scoprire fino a che punto sono duro, e questo mi risparmierebbe la fatica.

– Sarò lieto di farvi questo favore – disse Saunders. Muoveva le labbra il minimo necessario per fare uscire le parole. Qualcuno doveva avergli detto che era una dimostrazione di autocontrollo, e probabilmente lui si era esercitato davanti allo specchio.

– Non sarete consegnato nelle mani di nessuno! – esclamò Hobart.

– Sono la più alta autorità giuridica di questa Contea. È stato commesso un crimine: l’omicidio di Dinah Utley, che è stata con voi non molte ore prima di morire. A quanto ci risulta, siete l’ultima persona che l’abbia vista viva. Il capitano Saunders è più che giustificato, quindi, se vi ha chiesto di riferirgli i particolari del vostro colloquio con lei.

Scossi il capo. – Non ha chiesto. Ha ordinato. In quanto all’omicidio, dove e quando ha avuto luogo? Se Dinah Utley è stata investita da un’automobile...

– Come fate a sapere che è stata investita da un’automobile? – sbottò Saunders. Lo ignorai.

– Se è stata investita qui, in Main Street, e i passanti hanno visto che il guidatore era un nano con un occhio di vetro e le basette fino al collo, dubito che il signor Wolfe penserebbe che il colloquio di ieri possa avere a che fare con l’omicidio. Avendo visto il cadavere, ho dedotto che Dinah Utley dev’essere stata investita da un’automobile. A meno che non le abbiano

inferto un centinaio di colpi di martello. – Alzai una mano. – Avanti, signor Hobart. Sapete benissimo che il signor Wolfe si tiene al corrente delle leggi.

Annuì. – Già. So anche che le infrange in lungo e in largo... come voi, del resto. Dinah Utley non è stata uccisa qui, in Main Street. Il suo cadavere è stato trovato stamattina alle dieci da due ragazzi che sarebbero dovuti essere a scuola. Era in un fosso, al Iato della strada, e...

– Quale strada?

– Iron Mine Road. Probabilmente, un tempo conduceva a una miniera di ferro, ma ora è un vicolo cieco, che termina a circa tre chilometri dalla Statale Centoventitré. Il cadavere...

– Dove conduce, la Statale Centoventitré? Saunders emise un gemito strozzato, senza aprire la bocca. Continuai a ignorarlo.

– A sud di Ridgefield, non lontano dal confine dello Stato. Il corpo era stato gettato nel fosso dopo l’investimento. L’automobile che aveva condotto la ragazza fin là era a un centinaio di metri, sul viottolo, con il cofano puntato verso il bosco. Nella macchina abbiamo trovato una patente intestata a Dinah Utley, e l’indirizzo. Nella borsetta c’erano altri documenti.

«È ormai stabilito che la ragazza è stata investita da quella stessa macchina.»

– Quando è morta?

– Tra le nove di ieri sera e le tre di stamattina.

– C’erano tracce del passaggio di Un’altra automobile, per caso?

– Sì. Forse di due, però sull’erba. La strada è acciottolata, però l’erba è cresciuta parecchio, attraverso le pietre.

– Qualcuno ha visto l’automobile di Dinah Utley, ieri sera?

– No. La casa più vicina è a circa un chilometro a est, verso la Statale.

– Avete trovato qualche indizio?

– Sì. Voi. Quando una donna viene uccisa poche ore dopo essere andata da un investigatore privato, è facile intuire che i due avvenimenti sono saldamente connessi. Eravate presente, quando la ragazza ha parlato con Wolfe?

– Sì. È ancor più facile intuire che l’unico giudice capace di stabilire se i due avvenimenti sono connessi, è l’investigatore privato in questione. Come ho già spiegato, Dinah Utley non è venuta da Wolfe per qualcosa che la riguardasse personalmente. È stata mandata dalla signora Vail; doveva fornire a Wolfe delle informazioni che potevano risultare utili per un caso che stavamo trattando. Benone. Mi avete detto quello che potrei leggere sui giornali tra un paio d’ore. Riferirò al signor Wolfe, poi vi telefonerò.

– Questo lo dite voi. – Saunders balzò in piedi di scatto. – Signor Hobart, sapete quanto sia importante il fattore tempo, in casi come questo. Vi rendete conto che se lo lasciate andare, sarà fuori della vostra giurisdizione nel giro di venti minuti? Vi rendete conto che è a conoscenza di particolari che, saputi subito, potrebbero esserci di estrema utilità?

Gli sorrisi. – Siete capace di fare cinquanta flessioni? Io sì.

Ben Dykes disse a Hobart: – Vorrei chiedergli una cosa. – Hobart rispose di fare pure. Dykes si voltò nella mia direzione: – Ieri, sull’edizione della “Gazette”, c’era un’inserzione indirizzata a un certo signor Knapp e firmata da Nero Wolfe. Questa inserzione ha a che fare con il colloquio della signorina Dinah Utley con il vostro principale?

A quanto pareva, Dykes era veramente ancora un fior di poliziotto. Il sorriso che gli dedicai era ben diverso da quello che avevo rivolto a Saunders. – Spiacente, ma ho ricevuto ordini tassativi dall’uomo che mi paga lo stipendio. – Mi rivolsi al procuratore distrettuale: – Spero che vi rendiate conto che, visto come stanno le cose, sarebbe mutile trattenermi.

«Tanto per cominciare, non risponderei a nessuna domanda; in secondo luogo. Nero Wolfe si rifiuterebbe non solo di parlare al telefono, ma anche di fare entrare qualcuno in casa, se prima non mi vede tornare. Quindi, per questa volta il buon Saunders deve restare a bocca asciutta. Naturalmente, però sta a voi decidere.»

Il procuratore distrettuale aveva gettato indietro il capo e mi studiava con gli occhi socchiusi. – Lo sapete che se intralciate il lavoro della polizia, correte il rischio di essere condannato? – Quando ebbi risposto che lo sapevo, strinse i pugni, li calò sul ripiano della scrivania, balzò in piedi e sbraitò: – Levatevi dai piedi! Fuori!

Mentre mi voltavo per tagliare la corda, vidi che Ben Dykes mi guardava scuotendo la testa.

Passai molto vicino a Saunders, in modo che, se avesse voluto, avrebbe potuto farmi lo sgambetto. Ma non lo fece.

Quando fui in strada, guardai l’orologio: l’una e trentacinque.

Percorsi tre isolati, e raggiunsi un locale chiamato Mary Jane, dove facevano il pollo allo spiedo con la stessa abilità di mia zia Anna. Mentre mangiavo, studiai la situazione.

Era inutile sprecare quattrini per telefonare a Nero Wolfe, visto che gli sviluppi di quell’affare non lo interessavano. In quanto alla nostra cliente, non c’era fretta. Avrei potuto chiamarla dopo aver conferito con Wolfe. Quindi, visto che ero a metà strada... be’, diciamo a un terzo di strada... tanto valeva andare a dare un’occhiata alla Iron Mine Road. E magari anche alla vecchia miniera di ferro, ammesso che riuscissi a trovarla.

In fondo, se rapissi un uomo, non chiederei di meglio che una vecchia miniera abbandonata, per tenerlo nascosto in attesa di riscuotere il mezzo milione di riscatto. Pagai il conto, arrivai fino al parcheggio dove avevo lasciato la Heron, mi misi al volante e mi diressi verso l’Hawthorne Circle. Poi imboccai la Saw Mill River Road, proseguii fino a Katonah e presi la Statale Trentacinque. Era una splendida giornata di sole. Dovete sapere che io sono un tipo romantico: mi piace godere lo spettacolo dei prati verdi e delle mucche al pascolo, se ho a disposizione una macchina che mi permetta di prendermela comoda. Prima di arrivare al confine con il Connecticut, imboccai la Statale Centoventitré e fissai l’occhio sul contachilometri: non appena ne ebbi percorsi circa due e mezzo, cominciai a cercare la Iron Mine Road. La trovai dopo qualche centinaio di metri.

Andai avanti ancora, poi cominciai a mettere in dubbio che la Heron sarebbe stata in grado di riportarmi in città. Incrociai cinque macchine. Per una, fui costretto a salire su un mucchio di terra, oltre il ciglio, e per Un’altra dovetti fare marcia indietro per una cinquantina di metri.

Non mi fu difficile riconoscere il luogo del delitto, una volta arrivato. La via era bloccata da otto macchine in fila, nessuna delle quali apparteneva alla polizia. Una decina di donne e quattro uomini erano raggruppati sul ciglio della strada, vicino a un fosso; due tipi, poco lontano, discutevano ad alta voce per un paraurti acciaccato. Non mi presi la briga di scendere. Verso nord si stendeva un fitto bosco; a sud, un pendio roccioso scendeva fino a una palude.

Lo ammetto: non è che avessi le idee chiare, sulle miniere di ferro abbandonate. Non sapevo assolutamente che aspetto potessero avere. Una cosa era certa, però. Niente di quello che vedevo mi sembrava molto promettente. Innestai la marcia indietro, e presi a retrocedere, finché non trovai un piccolo spazio che mi permise di fare dietrofront. Quando raggiunsi la Statale Centoventitré, avevo già incontrato tre macchine dirette verso il luogo del delitto.

Durante il tragitto di ritorno, presi due decisioni.

La prima molto semplice, e mi venne in mente non appena fui uscito da Iron Mine Road. Non ce l’avrei fatta ad arrivare a casa prima delle quattro, quindi avrei trovato Wolfe nella serra, fedele al suo appuntamento pomeridiano con le orchidee. E Wolfe non sopporta di essere disturbato quando è nella serra, soprattutto se si tratta di un caso che non lo interessa.

Quindi, ecco che cosa decisi: tanto valeva prendermela comoda e godermi il paesaggio dal finestrino della Heron.

Per quanto riguarda la seconda decisione, non so quando mi balenò nella mente. So solo che a un certo punto mi trovai sulla carreggiata centrale della Thruway, con il tachimetro che segnava i centoventi orari.

Dovete sapere che quando vado a New York, provenendo dalla Contea di Westchester, se devo sbucare nel West Side, imbocco la Saw Mili Road; se invece devo sbucare sull’East Side, prendo Thruway. Quindi, visto che ero sulla Thruway, evidentemente ero diretto verso l’East Side. Ma dove intendevo andare, di preciso? Ci misi circa due secondi, prima di capirlo.

“Maledizione” pensai “sto andando a casa della nostra cliente, per metterla al corrente del fatto che ho identificato il cadavere.” Be’, tanto meglio. Avrei risparmiato i soldi della telefonata. E poi, se la signora Vail o Suo marito avevano delle domande da rivolgermi, sarebbe stato più soddisfacente, per loro, ricevere le risposte di persona. Imboccai l’East River Drive, poi la Novantaseiesima Strada.

Erano le quattro e dieci, quando trovai un buco in cui posteggiare la macchina, nell’Ottantunesima Strada. Pochi secondi dopo, entrai nell’atrio del maniero di pietra in cui abitava la nostra cliente, e premetti il pulsante del campanello. L’uscio venne spalancato da una donna dalla faccia quadrata, con un porro su una guancia. Pensai che il Tedder che aveva fatto costruire quella casa, il padre di Harold F., non avrebbe assolutamente permesso che la sua porta venisse aperta da una donna, ma avrebbe preteso tanto di maggiordomo in divisa impeccabile. Quindi, era molto meglio per lui che non fosse più in circolazione.

La domestica dalla faccia quadrata aveva una sorpresa per me: quando le spiegai chi ero e che volevo parlare con la signora Vail, rispose che la signora mi stava aspettando. Non sarei dovuto stupirmene: in fondo, non era la prima volta che Nero Wolfe prevedeva una mia mossa. Invece, restai ugualmente sbalordito. Ecco com’erano andate le cose: la signora Vail aveva telefonato al mio padrone e signore, per chiedergli se avevo identificato il cadavere, e lui aveva risposto che sarei passato da casa sua, di ritorno da White Plains. Il fatto che Nero Wolfe mi conosca così bene, mi irrita. Un giorno o l’altro, questo sarà causa di grandi dissidi tra noi. In fondo, io stesso non mi ero reso conto che avevo intenzione di andare dai Vail, se non quando ci ero già praticamente arrivato.

Mentre la donna dalla faccia quadrata prendeva il mio cappotto, una voce stridula domandò, dal piano superiore: – Chi è, Elga?

Elga rispose: – Il signor Goodwin, signor Tedder. La voce stridula esclamò: – Salite, Goodwin!

Salii. La scalinata era di marmo, bianca, larga, e a semicerchio. In cima, trovai Noel Tedder. Come ho detto, l’avevo visto in giro un paio di volte, ma non mi era mai stato presentato. Da quanto avevo sentito, era un perdigiorno di ventitré anni, che aveva tentato di essere ammesso in ben tre università, senza riuscirci, e che era stato costretto da sua madre a smetterla di scalare le montagne, dopo che era precipitato da un picco. Una volta, aveva atterrato in elicottero sulla pista dello Yankee Stadium, durante una partita di baseball. Questo è quanto avevo sentito.

Personalmente, mi risultava solo che, nonostante la vocetta, era un ragazzone alto un metro e ottantadue, con le spalle da lottatore, che non si faceva scrupolo di andare a teatro o al Flamingo con il vestito sportivo, e che parlava a voce alta tutte le volte che aveva bevuto un bicchiere di troppo.

Mi guidò lungo il corridoio, fino a un uscio aperto, e mi invitò a entrare con un cenno. Oltrepassai la soglia e mi fermai di botto, pensando per un attimo di essere capitato nel bei mezzo di un ricevimento, ma poi mi resi conto che solo cinque delle persone presenti nella stanza erano vive: le altre erano di bronzo o di pietra. A questo punto, ricordai che anni prima avevo visto la riproduzione fotografica della biblioteca di Harold F.

Tedder. Eccola là. Per quanto fosse una stanza enorme, dal soffitto a cupola, sembrava piuttosto angusta, affollata com’era di statue a grandezza naturale.

Mi arrivò la voce della signora Vail: – Da questa parte, signor Goodwin.

Mi mossi. Le cinque persone vive erano raggruppate all’estremità della stanza, accanto a un caminetto senza fuoco. Mentre mi avvicinavo, la signora Vail domandò: – Be’?

– Era Dinah Utley – risposi.

– Che cosa... come...

Mi guardai intorno. – Non vorrei disturbare...

– Neanche per sogno! – esclamò Jimmy Vail, che era in piedi, con le spalle al caminetto. – Sono tutti al corrente della cosa. Vi presento Margot Tedder, figlia di mia moglie. Ralph Purcell, fratello di mia moglie.

Andrew Frost, avvocato di mia moglie.

– Sanno che ho assunto Nero Wolfe – disse la signora Vail. – I miei ragazzi e mio fratello hanno cominciato a fare domande, e noi abbiamo deciso che era meglio dire la verità. Poi è accaduto questo... la faccenda di Dinah... e, sapendo che la polizia ci avrebbe chiesto dove eravamo ieri sera, ho chiamato il mio avvocato. Ma ditemi, siete sicuro che fosse proprio la mia segretaria, Dinah?

– Sì.

– È stata investita da una macchina? – La domanda era stata formulata da Andrew Frost, l’avvocato. Lo guardai: assomigliava vagamente all’uomo di bronzo piazzato dietro la spalliera della sua sedia, solo che non aveva la barba e che i suoi capelli erano brizzolati. Probabilmente, però, in piedi sarebbe stato più basso dell’altro. L’uomo di bronzo era Abramo Lincoln. Pensai che doveva aver saputo com’era morta Dinah telefonando a White Plains, oppure grazie a qualche comunicato radio.

– Sì. È stata investita dalla sua stessa macchina – risposi io.

– Che cosa?

Guardai la signora Vail, che se ne stava abbandonata contro i cuscini di un divano. – Vi devo due informazioni per conto di Nero Wolfe.

  • Primo: il cadavere che sono andato a identificare è quello di Dinah Utley.

  • Secondo: ho detto al procuratore distrettuale che l’avevo conosciuta ieri, nello studio di Wolfe, dov’era venuta per parlare di un affare che ci avete affidato. Nient’altro. Mi sono rifiutato di specificare di che affare si trattava. Non vi devo altro. Però, se volete sapere ‘ come, quando e dove Dinah è morta, vi accontenterò. Volete saperlo?

– Sì. Prima di tutto, quando.

– Tra le nove di ieri sera e le tre di stamattina. Tra qualche giorno lo sapremo con più esattezza. Si tratta di omicidio, perché Dinah e stata schiacciata dalla sua stessa macchina: le è passata sul torace e poi è stata abbandonata sul posto. Dinah aveva un livido sulla tempia. Probabilmente è stata colpita, prima di...

M’interruppi, perché la signora Vail aveva emesso un gemito e aveva chiuso gli occhi. – Dovete proprio essere tanto brutale? – domandò Margot Tedder. La figlia, più giovane di un paio d’anni del fratello Noel, era seduta all’altra estremità del divano. Da quanto avevo sentito, era un tipetto pepato, altero e sdegnoso. A vederla, almeno secondo me, sarebbe bastato che ingrassasse di qualche etto e che cercasse di correggere la linea dura della bocca, perché diventasse un donnino coi fiocchi.

– Non sono stato io a uccidere Dinah – ribattei. – Mi limito a raccontare come sono andate le cose.

– Dov’è accaduto? – intervenne Jimmy Vail. La signora Vail aveva sollevato le palpebre. Preferii rivolgermi da quella parte, visto che la nostra cliente era lei. – È accaduto in Iron Mine Road, una stradetta piena di sassi che parte dalla Statale Centoventitré. La Statale Centoventitré arriva a dieci chilometri da Katonah, non lontano dal confine.

La signora Vail sgranò gli occhi. – Mio Dio... – mormorò, fissandomi. – L’hanno uccisa foro! – Si rivolse a Andrew Frost. – I rapitori. L’hanno uccisa loro! – Riportò lo sguardo su di me. – Allora il signor Wolfe aveva ragione, quando ha affermato che Dinah era coinvolta nel rapimento di mio marito. È là che...

– Un momento, Althea! – ordinò Frost. – Devo parlarti in privato.

«È una faccenda pericolosa, molto pericolosa. Avresti dovuto consultarmi lunedì, quando hai ricevuto quella lettera. Come tuo legale, ti consiglio di non dire una sola parola finché non ne avrai discusso con me. E non...

«Dove stai andando?»

Althea Vail si era alzata per dirigersi verso la porta. Disse di sopra una spalla: – Tomo subito – e continuò a camminare.

Quando fu uscita, Jimmy fece qualche passo, si fermò, restò immobile per un paio di secondi, poi tornò davanti al caminetto. Ralph Purcell, il fratello di Althea, disse qualcosa a Frost, ma non ottenne risposta. Non avevo mai vistò Purcell, né avevo mai sentito parlare di lui. Era un uomo sulla cinquantina, anno più anno meno, con i capelli radi e la faccia tonda come quella di sua sorella.

Avevo notato che aveva una strana abitudine: quando qualcuno gli rivolgeva la parola, lui si voltava a guardare qualcun altro. Se lo faceva per attirare l’attenzione, ci riusciva. Veniva voglia di dirgli qualcosa, per vedere se eravamo capaci di trattenere il suo sguardo.

Noel Tedder, che se ne stava appoggiato a George Washington, mi chiese: – Cos’è questa storia? È vero che sospettate che Dinah fosse coinvolta nel rapimento? – L’avvocato lo guardò, scuotendo la testa, e Margot disse: – Che importanza ha, ormai? È morta. – Purcell mi fissava. Stavo decidendo fino a che punto potevo raccontargli come stavano le cose, quando rientrò la signora Vail: aveva in mano una busta. Andò a sedersi sul divano e tirò fuori qualche foglio di carta. Frost domandò: – Che cos’è quella roba? Althea, ti dico...

– Non me ne importa un accidente, di quello che dici – rispose lei.

– Sei un bravo avvocato, Andy; Harold aveva molta stima di te, e io mi fido ciecamente del tuo giudizio, purché si tratti di questioni di ordinaria amministrazione. Questo è un affare particolare. Ti ho messo al corrente perché tu mi consigliassi da un punto di vista legale, ma ora che so che Dinah è stata uccisa in Iron Mine Road, non ho bisogno solo di consigli legali. Ho bisogno di qualcos’altro. Ho bisogno di Nero Wolfe. – Si voltò a guardarmi. – Pensate che sia disposto a venire qui? No, vero?

Scossi il capo: – Non esce mai di casa per affari. Se volete parlargli, alle sei sarà...

– No. Non me la sento... no. Posso dire a voi, vero?

– Certo. – Tirai fuori taccuino e matita, andai a sedermi su una poltrona, vicino al divano, e aspettai.

La donna si guardò intorno. – Voglio che mi ascoltiate anche voi.

Conoscevate tutti Dinah e sono sicura che la stimavate, come del resto la stimavo io. Con questo non voglio dire che vi era simpatica, ma che la consideravate una ragazza competente e degna della massima fiducia. A quanto pare, invece... ma aspettate un attimo... – Frugò tra i fogli, ne estrasse uno, me lo porse e si guardò attorno. – Vi ho raccontato della lettera che ho ricevuto lunedì mattina, la lettera che mi comunicava il rapimento di Jimmy e che mi annunciava la telefonata del signor Knapp.

Mi pare anche di avervi detto che quando è arrivata la telefonata, lunedì pomeriggio, Dinah ha ascoltato e l’ha stenografata. Più tardi, l’ha battuta a macchina. Eccola. Leggete ad alta voce, signor Goodwin.

Mi bastò un’occhiata, per rendermi conto che il foglio che tenevo in mano era stato battuto sulla stessa macchina della lettera del rapitore; anche le lettere più scolorite erano le stesse. Unica differenza, il formato del foglio e la qualità della carta.


  • SIGNORA VAIL: Qui Althea Vail. Siete...

  • KNAPP: Sono a signor Knapp. Avete ricevuto il mio messaggio?

  • SIGNORA VAIL: Sì, stamattina.

  • KNAPP: Siamo forse ascoltati da una derivazione?

  • SIGNORA VAIL: Neanche per sogno! Il vostro messaggio diceva chiaramente...

  • KNAPP: Che non dovevate aprire il beccò. Sarà meglio che ubbidiate, se volete che il vostro Jimmy tomi vivo. Avete il denaro?

  • SIGNORA VAIL: No. Come avrei potuto procurarmelo? Ho ricevuto il messaggio solo...

  • KNAPP: Procuratevelo. Avete tempo fino a domani. Mettetelo in una valigia. Cinquecentomila dollari in banconote usate, di piccolo taglio. Capito?

  • SIGNORA VAIL: Sì, ho capito. Ma dov’è mio marito? È...

  • KNAPP: Sta benissimo. È sano e salvo, senza neppure un graffio. Dico la verità, signora Vail. Se vi comportate come ho detto, potete contare sulla nostra parola. Ora ascoltatemi bene, non voglio parlare a lungo. Prendete il denaro e mettetelo in una valigia. Domani sera, martedì, mettete la valigia nel portabagagli della vostra due posti azzurra, e ricordatevi di chiudere il portabagagli. Prendete la Merritt Parkway, poi imboccate la Statale Trentatré. Sapete dov’è la Statale Trentatré?

  • SIGNORA VAIL: Sì, Sì.

  • KNAPP: E sapete dov’è la Fowler’s Inn?

  • SIGNORA VAIL: Sì.

  • KNAPP: Andate alla Fowler’s Inn. Dovete arrivarci per le dieci di domani sera: non anticipate di un solo minuto. Al massimo, potete ritardare di cinque minuti. Sedetevi a un tavolo sulla sinistra e ordinate da bere. Riceverete un messaggio.

  • SIGNORA VAIL: Che tipo di messaggio?

  • KNAPP: Lo saprete al momento opportuno. Siete sicura di aver capito?

  • SIGNORA VAIL: Sì. Fowler’s Inn, alle dieci di domani sera. Ma quando...

  • KNAPP: Fate come ho detto. È tutto.


Sollevai lo sguardo. – Non c’è altro.

– S... santo Dio, mamma – balbettò Noel Tedder – se ne avessi parlato con me!

– O con me! – sbottò Frost.

– Be’? – domandò la signora Vail. – Che cosa avreste potuto fare? Jimmy è tornato, no? È tornato sano e salvo. Mi sono rivolta a Nero Wolfe: quello che ha fatto può anche essere stato utile. Non lo so, e ormai non mi interessa saperlo.

– Secondo me, sei stata molto saggia – intervenne Margot Tedder – a non dire niente a loro due. L’avvocato Frost ti avrebbe chiesto di aspettare finché non avesse consultato i sacri testi. Noel sarebbe andato alla Fowler’s Inn travestito, magari con la barba finta. Ma raccontaci che cos’hai fatto, dopo la telefonata.

La signora Vail fece un cenno con il capo. – Ho eseguito gli ordini del signor Knapp alla lettera. Naturalmente, il signor Graham, il direttore della banca, si è insospettito... anzi, no, si è incuriosito. Voleva che gli dicessi che cosa avevo intenzione di fare del denaro, ma non gli ho dato spiegazioni. In fondo, erano soldi miei. Sono arrivata alla Fowler’s Inn troppo presto, perciò sono rimasta seduta in macchina fino alle dieci, poi sono entrata. Ho cercato di non dimostrare quanto ero nervosa, ma ora mi rendo conto che non devo esserci riuscita. Continuavo a guardare l’orologio. Alle dieci e venti, sono stata chiamata al telefono. Sono entrata nella cabina e ho sentito la stessa voce della prima telefonata. Questa volta, però, l’uomo che parlava non ha detto il suo nome. Mi ha ordinato di aprire la guida telefonica, alla pagina dove comincia la lettera Z, e ha riattaccato.

Ho fatto come mi ha detto, e tra le pagine della guida ho trovato un biglietto. Eccolo qui. – Tirò fuori un altro foglio e me lo porse. – Leggetelo pure, signor Goodwin.

– Un momento. – Era Jimmy Vail. Si era mosso: adesso era in piedi vicino a sua moglie, e la guardava. – Sarebbe meglio che tu lasciassi perdere per qualche minuto, Althea. Andiamo di là a parlarne tra noi. In fondo, non è ancora venerdì, e tu stai raccontando tutto di fronte a Goodwin e a Frost...

Lei sollevò una mano per sfiorargli delicatamente il braccio. – Devo, Jimmy. Devo, ora che Dinah... Mio Dio, l’hanno uccisa! Leggete, signor Goodwin.

Anche quel foglio era stato dattiloscritto sulla stessa macchina e sulla stessa carta da pochi soldi della prima lettera. Lessi ad alta voce:


Uscite immediatamente. Non parlate con nessuno. Salite in macchina. Leggete il resto di questo messaggio quando sarete al volante.

Prendete la Statale Sette e voltate a destra. Dopo Weston, lasciate la Statale, imboccate la prima traversa che vi capita, proseguite per due chilometri, poi imboccate Un’altra traversa, a caso. Vagate per mezz’ora, continuando a cambiare strada, poi tornate sulla Statale Sette e dirigetevi verso Danbury. A un chilometro e mezzo dopo Branchville c’è un locale, chiamato Vitello Grasso. Entrate, mettetevi a sedere e ordinate da bere.

Riceverete un messaggio.


– Datemi quelle lettere – sbottò Jimmy Vail. Dal suo tono, capii che era mutile discutere: se gli avessi chiesto di lasciarmele, per mostrarle a Wolfe, mi avrebbe mandato al diavolo. Copiai i due messaggi sul mio taccuino. Non che fosse necessario: dopo due anni di allenamento, sono in grado di tenere a mente, parola per parola, un intero poema indiano dopo averlo letto una sola volta; ma con documenti come quelli, era sempre meglio mettere tutto nero su bianco. Mentre scrivevo, ascoltavo il racconto della signora Vail.

– Ho fatto quello che diceva il messaggio. Penso di essere stata seguita continuamente da una macchina, ma non ne sono sicura. Non volevo saperlo, non volevo esserne sicura. Al Vitello Grasso, è accaduto esattamente quello che era accaduto alla Fowler’s Inn. Alle undici e dieci, sono stata chiamata al telefono; la stessa voce mi ha ordinato di aprire la guida telefonica alla lettera U. Ho ubbidito e ho trovato un altro messaggio. – Mi porse un foglio. – Leggetelo.

Stessa macchina da scrivere, stessa carta. Lessi:


Uscite immediatamente. Non parlate con nessuno. Leggete il resto di questo messaggio quando sarete al volante. Continuate sulla Statale Sette fino all’incrocio con la Statale Trentacinque. Voltate a sinistra, e proseguite sulla Statale Trentacinque, finché non avrete oltrepassato Ridgefield. Dopo tre chilometri, voltate a sinistra e prendete la Statale Centoventitré. Percorrete circa due chilometri, poi voltate a destra, nella Iron Mine Road.

Andate piano. Quando una macchina, dietro di voi, farà lampeggiare i fari per tre volte, fermatevi. Scendete e aprite il portabagagli. Si avvicinerà un uomo, che vi dirà: “È l’ora di Knapp”. Consegnategli la valigia. Vi spiegherà lui che cosa dovrete fare in seguito.


– Me l’ha spiegato – disse la signora Vail. – Mi ha detto di tornare direttamente a New York, senza fermarmi, e di non parlare con nessuno fino al ritorno di Jimmy, se volevo rivederlo vivo. E mi ha promesso che Jimmy sarebbe stato liberato nel giro di ventiquattr’ore. Ha mantenuto la promessa, grazie al cielo! Jimmy è qui con me! – Allungò la mano per accarezzare il marito, ma fu costretta a sporgersi in avanti di parecchio, perché lui era al mio fianco, pronto a strapparmi di mano le lettere, non appena avessi finito di copiarle. Stavo stenografando l’ultima, sul mio taccuino. I ragazzi Tedder, figlio e figlia, dissero qualcosa. Quando ebbi finito di scrivere, ignorai la mano tesa di Jimmy e consegnai le lettere alla signora Vail.

Questa mi disse: – Capite, adesso, per quale motivo sono stata costretta a parlare prima del termine prescritto dal signor Knapp?

– Sì, capisco – risposi. – II signor Wolfe vi ha detto che sospettavamo che Dinah Utley fosse coinvolta nel rapimento. Poi avete saputo da me che il suo cadavere è stato trovato in Iron Mine Road, la stessa strada in cui avete consegnato la valigia con i soldi. Certo che questo complica le cose; se voi e vostro marito non volete raccontare l’accaduto alle autorità fino a venerdì, non so come ve la caverete, quando la polizia della Contea di Westchester verrà a chiedervi la ragione per cui avete mandato Dinah a parlare con Wolfe. A proposito, si è fatto vivo qualcuno?

– No.

– Non tarderanno molto. Per quanto riguarda me e il signor Wolfe, non apriremo bocca fino alle undici di venerdì mattina. Wolfe ha deciso le undici, perché è a quest’ora che scende dalla serra. In quanto a voi e a vostro marito, e ora ai vostri figli e al vostro avvocato, regolatevi come meglio credete. È rischioso nascondere delle informazioni collegate a un omicidio, ma se si agisce per proteggere se stessi da un pericolo, se siete convinti che il signor Knapp non scherzasse, quando ha detto che ve ne sareste pentiti, se aveste aperto la bocca prima di venerdì, non credo che la polizia vi darà delle noie serie. È questo che volete dal signor Wolfe e da me?

– No. – Aveva infilato i fogli nella busta, che stringeva con dita contratte. – Cioè, solo in parte. Voglio sapere perché avete pensato che Dinah fosse implicata nel rapimento.

– Certo. – Mi rimisi in tasca il taccuino. – Non l’avete vista in Iron Mine Road?

– No! Naturalmente no.

– Non naturalmente no, perché era là. L’uomo nella macchina che vi ha seguito era solo?

– Non ho visto nessun altro. Era buio. Non... non mi importava, se c’era qualcun altro.

– Che tipo era, l’uomo?

– Non lo so. Aveva il cappotto, e portava il cappello calato sugli occhi. U viso era nascosto da una specie di fazzoletto. Restavano scoperti solo gli occhi.

– Chi si è allontanato per primo, voi o lui?

– Io. Mi ha ordinato di andarmene. Sono stata costretta a proseguire lungo la strada per trovare uno spiazzo in cui poter girare la macchina.

– L’automobile dell’uomo era ancora là, quando siete tornata indietro?

– Sì. Si era spostato sul ciglio della strada, per lasciarmi passare.

– Avete incontrato qualche altra macchina?

– No. – Fece un gesto impaziente. – Ma che cos’ha a vedere, tutto questo, con Dinah?

– Niente – disse Noel Tedder. – È un investigatore. Fa parte della sua natura, spremere la gente.

– Stai commettendo un grosso errore – esclamò Andrew Frost, rivolto alla signora Vail. – Althea, ti ripeto che stai commettendo un errore. Non sei d’accordo, Jimmy?

Questi era tornato davanti al caminetto. – Sì. Sonò d’accordo.

– Ma Jimmy, devi capire! – protestò la signora.

– Dinah è stata uccisa in Iron Road! Devi capire perché voglio sapere le ragioni per cui Wolfe sospettava di lei! – E a me: – Perché sospettava di lei?

Scossi il capo. – Io sono semplicemente una specie di schiavetto negro, per Wolfe. Non mi dice mai niente. – Mi alzai. – Se volete, però, posso tentare di indovinarlo. Dinah ha ascoltato la telefonata del signor Knapp, lunedì pomeriggio. L’ha stenografata e poi l’ha battuta a macchina.

Posso vedere la macchina che ha usato?

I tre uomini parlarono contemporaneamente. Jimmy Vail e Andrew Frost esplosero: – No! – e Noel Tedder esclamò: – Te l’avevo detto! – La donna li ignorò e si limitò a domandare: – Perché? – Ve lo spiegherò dopo aver visto la macchina da scrivere. Potrei anche avere qualche consiglio da darvi. Dov’è, è qui?

– È nel mio studio. – Si alzò. – Poi mi direte perché sospettavate di Dinah?

– Credo di sì. Comunque, lo capirete da sola.

– Benissimo, venite con me. – S’incamminò, ignorando le proteste dei tre uomini. La seguii fuori della stanza, lungo il corridoio, fino a un pannello metallico. Lei premette un pulsante; il pannello scivolò da un lato e scoprì la cabina di un ascensore. Entrammo. L’ascensore in questione era molto più nuovo e funzionale di quello che porta quotidianamente Wolfe fino alla serra: niente scricchiolii, né sussulti. Quando sì fermò e il pannello si fu riaperto, Althea Vail uscì e mi precedette lungo un altro corridoio, più stretto di quello del piano inferiore. La stanza in cui entrammo non era grande quanto la biblioteca di Harold F. Tedder, ma quasi. Mi guardai intorno, come al solito. Due scrivanie, una grande e una piccola, mensole cariche di libri e di riviste, un armadiettoarchivio, un grande specchio a muro, un televisore, parecchie fotografie in cornice. La signora Vail si era avvicinata alla scrivania più piccola. Si voltò di scatto.

– La macchina da scrivere! Non c’è più!

Mi avvicinai a lei. Accanto alla scrivania, c’era un tavolinetto metallico, coperto da un tappetino di feltro. Nient’altro.

– La tenete sempre qui, o a volte la portate in qualche altra stanza? – chiesi.

– Mai, È sempre stata qui.

– Quando l’avete vista l’ultima volta?

– Non... devo pensarci. Oggi non ho messo piede qui dentro, finché non sono entrata poco fa. per prendere la busta. Non mi sono accorta che fosse scomparsa. Forse ieri... ma devo pensarci. Non riesco a capire...

– Potrebbe averla presa qualcuno dei vostri parenti. – Mi diressi verso la porta, poi mi voltai: – Racconterò tutto al signor Wolfe. Se ha qualcosa da comunicarvi, vi telefoneremo. Per ora, l’unica cosa importante è che non apriremo bocca fino a venerdì, a meno che...

– Ma dovevate dirmi per quale motivo Wolfe sospettava di Dinah!

– Non ora. Trovate la macchina da scrivere, poi vedremo.– Uscii.

Mentre percorrevo il corridoio, fui seguito dalla sua voce, ma non mi fermai. Non avevo nessuna voglia di parlare ancora. Non avrei mai dovuto accennare alla macchina da scrivere, visto che Nero Wolfe considerava il caso già chiuso, ma avevo desiderato prendere un campione di scrittura.

Noel Tedder aveva ragione. Ero un investigatore privato e faceva parte della mia natura. Storie! Ignorai l’ascensore, imboccai le scale, scesi tre rampe, e quando raggiunsi il pianterreno, da una porta sbucò la donna dalla faccia quadrata. Prese il mio cappotto, mi aiutò a infilarlo e aprì la porta per farmi uscire. Sulla soglia c’era Ben Dykes, con la mano sollevata a metà strada verso il campanello. Ben Dykes, capo degli agenti investigativi della Contea di Westchester.

Dissi: – Salve! Come mai arrivate con tanto ritardo? Vi hanno trattenuto per eccesso di velocità?

– Mi sono fermato al parco a dar da mangiare ai piccioni. Non volevo disturbarvi.

– Questo si che si chiama agire da gentiluomini! Grazie. Che la vostra tribù possa proliferare. – Gli girai al largo, l’oltrepassai e uscii.

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