Cominciare da zero
Come si fa a inviare una sonda spaziale a raggiungere il nucleo di una cometa e a orbitarvi attorno? Nel 1996 nessuno aveva una risposta a questa domanda, nemmeno gli esperti della NASA che erano stati i primi al mondo a far volare sonde nello spazio profondo, navigando negli immensi spazi interplanetari del nostro sistema solare, e addirittura oltre i suoi confini, ben oltre l’orbita di Plutone.
A quei tempi la NASA aveva già mandato sonde a orbitare attorno a Marte e Venere, le due sonde Voyager avevano sorvolato da vicino i pianeti giganti del sistema solare esterno, Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Ma nemmeno gli esperti di volo interplanetario della NASA avevano mai costruito e operato una missione verso un corpo minore, un asteroide o una cometa. C’era stata la flotta di sonde che nel 1986 era andata incontro alla cometa di Halley. Tra queste c’erano sonde russe e giapponesi, e anche la nostra sonda europea Giotto. Ma, anche se era stata un’impresa storica, si trattava del modo più semplice di avvicinarsi a una cometa: si dirigeva la sonda a intersecare l’orbita della cometa, e al momento dell’incontro questa passava a poche centinaia o migliaia di chilometri dal nucleo, scattava foto, prendeva misure scientifiche per qualche minuto, e poi si allontanava velocissima com’era venuta. In gergo tecnico queste missioni in inglese si chiamano di fly-by, che si può tradurre con “sorvolo”. Se dal punto di vista dell’ingegneria del volo hanno il vantaggio di essere relativamente semplici da progettare ed eseguire, il loro valore scientifico è limitato, dal momento che si raccolgono dati e informazioni solo per pochi minuti, il tempo brevissimo in cui la sonda resta in vicinanza del nucleo.
La missione Rosetta, però, doveva fare molto di più: raggiungere l’orbita della cometa, avvicinarsi lentamente al nucleo ed entrarvi in orbita, a pochi chilometri di distanza, restandoci per più di un anno. Per fare ciò bisognava affrontare tutte le sfide del volo interplanetario: far volare la sonda per anni a distanze di centinaia di milioni di chilometri dalla Terra e dal Sole; calcolare traiettorie complesse tra i pianeti per permettere alla sonda di raggiungere la cometa con la velocità giusta. Poi, una volta arrivati al nucleo della cometa, bisognava riuscire a entrare nell’orbita di un oggetto completamente sconosciuto, di dimensioni minuscole rispetto a un pianeta, con una forza di gravità quasi inesistente e con nuvole di gas e polvere che lo circondano. Nessuno aveva mai tentato una tale impresa prima di allora. Nessuno aveva idea di come si facesse. Addirittura non si sapeva neppure se fosse possibile farlo con la tecnologia a disposizione alla fine del secondo millennio.
Inoltre noi all’ESOC dovevamo cominciare dall’inizio, per risolvere problemi di base che il nostro centro di controllo non aveva mai affrontato fino ad allora: nel 1996 l’ESOC aveva esperienza molto limitata di volo interplanetario e praticamente nessuna infrastruttura di terra, antenne, sistemi informatici e algoritmi di navigazione per realizzare questo tipo di missione. Nel curriculum del centro e delle operazioni spaziali europee c’erano solo due missioni interplanetarie: innanzitutto Giotto, la prima missione verso una cometa, che però si era mantenuta relativamente vicina all’orbita che la Terra percorre attorno al Sole. Per cui la missione aveva potuto essere controllata usando l’infrastruttura esistente, comprese le stazioni con antenne da 15 metri di diametro e il software di controllo che usavamo per le altre missioni orbitanti attorno alla Terra. Almeno per quanto riguardava la navigazione e la dinamica del volo, Giotto era stata un buon esercizio, perché aveva richiesto tutte le tecniche di base necessarie per il volo interplanetario. Avevamo persino effettuato il primo fly-by della Terra in assoluto nella storia del volo spaziale, un sorvolo ravvicinato che serviva a modificare l’orbita della sonda utilizzando la forza di gravità del nostro pianeta.
La seconda missione era stata Ulysses, una vera missione interplanetaria, che aveva raggiunto distanze dal Sole e dalla Terra di molte centinaia di milioni di chilometri, effettuando anche un sorvolo del pianeta Giove che aveva permesso di modificare l’inclinazione della sua orbita, lanciando la sonda – prima e finora unica sonda della storia – al di fuori del piano dell’eclittica, il piano su cui tutti i pianeti maggiori orbitano attorno al Sole, per andare ad osservare e misurare le regioni polari del Sole. Però questa missione era stata realizzata in cooperazione con la NASA, usando l’infrastruttura e l’esperienza del loro Jet Propulsion Laboratory (JPL) di Pasadena, in California. Il nostro team delle operazioni era stato trasferito proprio a Pasadena nel 1989, rimanendo da allora praticamente isolato dal resto dei colleghi che erano rimasti nella vecchia Europa.
L’incontro con Rosetta
Così quando Manfred Warhaut, che già durante gli ultimi mesi prima del lancio di Cluster era stato nominato capo progetto del segmento di terra di Rosetta, mi passò qualche documento che descriveva gli studi iniziali della missione, non mi sembrava vero che avrei fatto parte di questa impresa incredibile. Era una sfida a tutto quello che avevamo fatto fino ad allora. Tecnicamente, scientificamente e anche dal punto di vista programmatico era un salto nel buio, ma anche un viaggio straordinario di quasi due decenni verso una meta sconosciuta. Era vera esplorazione, il sogno di ogni operatore spaziale.
Tutto quello che avevo in mano a quel tempo era una descrizione della traiettoria, che era stata studiata negli anni precedenti, i risultati di studi già compiuti sulle orbite possibili intorno all’ipotetico nucleo della cometa, e infine un paio di documenti che descrivevano un concetto operativo preliminare e una stima molto grossolana del costo totale delle operazioni. La traiettoria era già di per sé una sfida affascinante. Per raggiungere la velocità orbitale della cometa non era sufficiente il potente razzo Ariane 5, che ci avrebbe aiutato almeno a lasciare il campo gravitazionale della Terra. Bisognava usare un trucco che molte missioni interplanetarie utilizzano per accelerare: avvicinarsi a un pianeta e usare la sua forza di gravità per farsi proiettare in avanti, guadagnando energia orbitale e velocità. I nostri analisti di missione avevano progettato una traiettoria che ci avrebbe prima fatto incontrare il pianeta Marte due anni dopo il lancio, nel 2005, per poi farci “ricadere” verso la Terra, usandola due volte, nel 2005 e nel 2007, per accelerare la sonda alla velocità necessaria per raggiungere la cometa. In questo periodo avremmo attraversato due volte la fascia principale degli asteroidi, che si trova tra l’orbita di Marte e quella di Giove, e in entrambi i casi, nel 2006 e nel 2008, ci saremmo avvicinati a un asteroide per sorvolarlo e fare delle osservazioni scientifiche. Avevamo anche i nomi dei due asteroidi prescelti: Otawara e Siwa.
Quello che non mi piaceva era la fase successiva: Rosetta era dotata di grandi pannelli solari per generare l’energia elettrica necessaria per far funzionare tutti i sistemi di bordo. Ma alle distanze dal Sole che avrebbe raggiunto dopo aver superato per la seconda volta la fascia degli asteroidi, fino a quasi 800 milioni di chilometri, questi pannelli solari, benché con una superficie totale di 64 m2 fossero i più grandi che la tecnologia spaziale di allora ci permettesse di installare a bordo, non sarebbero stati sufficienti per mantenere la sonda attiva. Per risolvere questo problema il progetto di missione approvato prevedeva che avremmo messo la sonda in “ibernazione”, spegnendola quasi completamente per circa due anni e mezzo, per poi riaccenderla quando la distanza dal Sole si fosse ridotta a circa 600-700 milioni di chilometri, poco prima di arrivare alla cometa!
Poi c’era la fase finale della missione, l’arrivo al nucleo della cometa, un oggetto misterioso di cui si conosceva solo una stima approssimata della grandezza, circa 2 chilometri, come una piccola montagna, e il periodo di rotazione. Nient’altro. Né un’immagine, né un’idea di come sarebbe stata la sua superficie, la sua forma, e solo una stima statistica della sua densità e quindi della sua massa. Questa fase finale era la parte più difficile della missione. Pura esplorazione, un’avventura rischiosa e straordinaria. Nessuno aveva mai provato a far volare una sonda intorno a una cometa, in condizioni completamente nuove ed estremamente insolite e difficili per il volo spaziale. Non solo non sapevamo ancora come fare a orbitare attorno al nucleo, ma non avevamo nemmeno gli strumenti per la navigazione, neanche la parvenza di un modello dinamico, che avremmo potuto costruire solo dopo essere arrivati nelle sue vicinanze. E come se non bastasse, avremmo avuto poco tempo per imparare a volare attorno al nucleo, perché dovevamo sganciare entro pochi mesi dall’arrivo, nel 2012, il nostro passeggero, il modulo di atterraggio che allora chiamavamo ancora SSP, la sigla per “pacchetto per la scienza di superficie”. Infatti la traiettoria era stata progettata per farci arrivare alla cometa quando era ancora lontana dal Sole, così sarebbe stata inattiva, cioè non avrebbe dovuto espellere ancora quelle fontane di gas e polveri che di solito cominciano ad apparire sul nucleo di una cometa quando si avvicina a meno di 450 milioni di chilometri dal Sole. La “linea della neve”, la chiamano gli astronomi: entro quella sfera immaginaria attorno al Sole le comete si scaldano e diventano attive, cominciano a formare la loro coda, o “chioma”, come viene chiamata già dall’antichità; oltre la sfera, invece, sono ancora fredde e invisibili, pezzi di ghiaccio coperto di polvere nera che vagano al buio nell’immensità del sistema solare. SSP doveva essere sganciato da distanza ravvicinata, e noi sapevamo che volare vicino al nucleo quando fosse in piena attività era una cosa da evitare a tutti i costi. Per cui ci dovevamo sbrigare a “liberarci” del nostro “pacchetto”. Dopo averlo fatto atterrare, la sonda Rosetta sarebbe rimasta in orbita del nucleo prima per permetterci di comunicare con SSP, facendo da ponte radio con la Terra, e poi, una volta terminata la missione del modulo di atterraggio, che sarebbe durata da tre giorni a qualche settimana al massimo, avrebbe continuato a volare vicino al nucleo per più di un anno, accompagnandolo nel suo viaggio in avvicinamento al Sole, osservando e analizzando la sua superficie, il materiale espulso, i cambiamenti indotti dalla radiazione solare, insomma imparando tutto il possibile su quell’oggetto misterioso che è il nucleo di una cometa.
Questo era più o meno tutto quello che sapevamo della missione. Gli analisti avevano studiato il problema in termini generici, trovando una traiettoria per raggiungere la cometa. Ora stava a noi rendere tutti questi studi una realtà. Senza – o quasi – esperienza di volo interplanetario, con l’infrastruttura di terra e gli strumenti necessari ancora da sviluppare, i concetti operativi da inventare, e infiniti interrogativi davanti a noi, da risolvere nei quindici anni che ci separavano dal raggiungimento del nostro obiettivo.
Il nucleo iniziale
Manfred aveva un’idea molto precisa di quello che doveva fare: prima di tutto raccogliere intorno a sé tutta l’esperienza utile che era disponibile all’ESOC. Doveva coprire le quattro aree principali del segmento di terra: operazioni di missione, sistemi informatici, dinamica del volo e stazioni di terra. Allo stesso tempo doveva tenere ben presente che il team iniziale avrebbe dovuto prepararsi al volo nei sei anni seguenti (il lancio era previsto per il gennaio 2003), e il volo stesso sarebbe durato altri dieci anni. Così non poteva prendere semplicemente i più esperti ingegneri disponibili, ma cercare di formare un team che fosse un misto di età, che fosse in qualche modo più sostenibile sul lungo periodo. E come responsabile delle operazioni scelse me, che ero stato il suo braccio destro per Cluster ed ero diventato quasi il suo complemento naturale: quanto Manfred era di carattere facilmente irritabile, esplodeva nei meeting, prendeva decisioni immediate e poi le difendeva ad ogni costo, tanto io ero diplomatico, pacato, e trattavo tutti con un sorriso, anche quelli che a volte mi irritavano per mancanza di competenza, di interesse o di professionalità. Manfred era un manager nato, e mi aveva insegnato tutto in quel campo. Io di contro gli insegnavo cosa voleva dire far volare una missione spaziale, dato che Cluster per lui era stata la prima. Avevamo entrambi studiato fisica all’università: forse l’unica caratteristica che ci accomunava, e probabilmente ci faceva pensare in modo simile nell’affrontare i problemi, nello scegliere le soluzioni. La simbiosi con Manfred, cominciata nel 1993 con la missione Cluster, sarebbe proseguita, cresciuta e continuamente rafforzata con la missione Rosetta per molti anni a venire.
Per quel che riguarda la mia esperienza, nonostante avessi messo insieme il team di controllo missione di Cluster e progettato il sistema di operazioni che ci aveva portati al lancio pochi mesi prima, a causa dell’esplosione dell’Ariane 5 non avevo mai lavorato a una missione in volo sotto la mia responsabilità. D’altra parte mi ero fatto una buona reputazione come viceresponsabile delle operazioni della missione Eureca all’inizio degli anni Novanta, e la complessità di questa missione mi aveva permesso di raccogliere un bagaglio di esperienza operativa unico, specialmente per quanto riguardava le operazioni di un satellite altamente automatizzato e con un software di bordo complesso e flessibile. A quel tempo ero l’unico all’ESOC che aveva fatto volare un satellite con un sistema di elaborazione dati e comunicazione avanzato come quello di Eureca. E la lunga lista di difficoltà e guasti con cui la missione Eureca ci aveva fatto soffrire negli anni di preparazione e soprattutto negli undici mesi di volo mi aveva lasciato una conoscenza piuttosto solida dei sistemi di volo e di terra, e di cosa in essi funzionava o poteva non funzionare. Infine, avevo 37 anni, ancora relativamente giovane non solo per poter portare Rosetta al lancio, ma anche per condurre le operazioni di volo per molti anni, anche per tutto il suo lungo viaggio verso la cometa.
Come responsabile dei sistemi informatici Manfred scelse Erik Sørensen, un altro membro del team di Cluster, probabilmente il più qualificato esperto nel campo dei sistemi software di controllo che avessimo all’ESOC a quei tempi. Erik era un danese di 43 anni, la stessa età di Manfred, un omone alto e imponente che non dava mai l’impressione di essere stressato, anche nei momenti in cui la pressione era forte. Io ci avevo lavorato anche più a lungo di Manfred, dato che prima di Cluster avevamo preparato e operato insieme nella missione Eureca. Erano stati anni intensi, di lavoro senza tregua, inclusi i fine settimana, ma che ci avevano permesso di fare esperienze uniche, come la gestione dell’interfaccia con la NASA e l’esposizione al mondo di Houston, degli astronauti dello space shuttle che aveva portato il nostro satellite in orbita e lo aveva riportato a terra un anno dopo. Erik e io avevamo sviluppato in quegli anni un’intesa molto particolare, superando senza accorgercene ogni differenza culturale, anzi traendone vantaggio. Lui, freddo danese, riservato, forte bevitore; io, italiano estroverso e astemio... Un giorno in un meeting con una ditta esterna uno dei nostri interlocutori disse, riferendosi a un progetto su cui aveva lavorato e senza rendersi conto della nostra nazionalità: «Avete mai provato a far lavorare insieme un danese e un italiano? Un disastro!». Erik e io ci guardammo in silenzio, sorridendo tra noi. In aereo, al ritorno, avremmo poi riso insieme su quanto fossero stupidi e infondati i pregiudizi sulle nazionalità che permeano e nonostante tutto alimentano la cooperazione europea. Ma Erik non era solo esperto: era una delle menti più brillanti che io avessi incontrato nella mia carriera. Un vero ingegnere di sistema, con un vasto spettro di conoscenze, idee sempre innovative e una chiara visione dell’architettura dei sistemi di terra che non avrei più ritrovato in nessuno dei suoi successori negli anni a venire. Con la sua combinazione di esperienza, conoscenza e ingegnosità, Erik era la persona ideale per mettere insieme il complesso dei sistemi informatici di cui avevamo bisogno per questo nuovo tipo di missione.
Per coprire l’area della dinamica del volo Manfred non aveva molta scelta. C’era praticamente solo una persona con esperienza precedente a livello di sistema nel campo del volo interplanetario: Jürgen Fertig, che aveva già lavorato sia sulla missione Giotto che su Ulysses. Jürgen era un altro brillante ingegnere, coetaneo di Manfred ed Erik, con una preparazione matematica impeccabile, un’ottima visione di sistema e un carattere incredibilmente forte. Non era capace di lasciare un problema irrisolto, indipendentemente da quanto fosse difficile, anzi specialmente se appariva irrisolvibile. La sua testardaggine emergeva in ogni discussione, per cui era difficilissimo da convincere nel caso sfortunato che non si fosse della sua stessa opinione. Fortunatamente a me questo non capitava spesso. Ma in molte delle nostre discussioni con le ditte che costruivano il satellite i suoi modi fermi, la sua prontezza nel giustificare le opinioni, e anche il sarcasmo con cui impietosamente puniva chi non riusciva a seguire i suoi argomenti mi fecero molto comodo e mi aiutarono spesso a difendere le nostre opinioni e soluzioni. Certo, a volte riusciva a innervosire anche me, e allora cercavo di metterla sul sarcasmo, con risultati però poco incoraggianti. Jürgen aveva anche una cultura umanistica profonda, rara in uno scienziato o un ingegnere, amava letture sofisticate e aveva fama di possedere una vasta biblioteca, che però non ho mai visto di persona. Fisicamente sembrava un uomo dell’Ottocento, con baffetti curati e una stempiatura crescente. Sempre vestito con cura, parlava un inglese corretto ma con un fortissimo accento tedesco, che mi ricordava il doppiaggio esageratamente forzato degli ufficiali tedeschi nei film di guerra americani della mia infanzia. Ci vollero anni prima che la sua parlata mi suonasse normale e non vedessi più nella mia mente Jürgen in uniforme.
Infine c’era il problema delle comunicazioni con la sonda. In linea di principio la missione era stata approvata come una cooperazione internazionale con la NASA, assumendo che la loro Deep Space Network (DSN), cioè la rete di grandi antenne da 26, 34 e 70 metri di diametro che l’Agenzia spaziale statunitense possedeva e con cui operava in tre punti del globo, Goldstone in California, Robledo (vicino a Madrid) in Spagna e Tidbinbilla (Canberra) in Australia, avrebbe sostenuto le comunicazioni con Rosetta durante tutto il suo viaggio. Noi comunque avevamo bisogno di un esperto che fosse in grado di definire e seguire lo sviluppo delle interfacce radio tra la sonda e le stazioni di terra, seguire i test di compatibilità a radio frequenza tra i sistemi della NASA e la radio di bordo, guidare la preparazione della rete di comunicazioni che avrebbe supportato la missione. Anche per questo settore Manfred scelse un collega che aveva lavorato con noi su Cluster: Enrico Vassallo, un ingegnere elettronico italiano con una solida preparazione in sistemi a radio frequenza. Enrico aveva il raro dono di riuscire a spiegare chiaramente a chiunque ogni aspetto dei complessi sistemi di comunicazione spaziale, e farlo sembrare molto semplice. Negli anni di cooperazione con Enrico avevo imparato a rivolgermi a lui per qualsiasi domanda avessi in questo campo, che certo era molto lontano dalla mia conoscenza ed esperienza, e non mi aveva mai deluso. Enrico aveva la mia stessa età, bilanciando così l’età media del team intorno ai quarant’anni.
Questo era dunque il nucleo iniziale del team, che Manfred mise insieme nel 1996 dalle ceneri del team di Cluster. L’ESOC nella seconda metà degli anni Novanta non stava passando un buon periodo: la recente perdita della missione Cluster aveva ridotto il carico di lavoro del centro fino a uno dei livelli più bassi della sua storia trentennale; poi l’ESA aveva già attivato da alcuni anni un blocco delle assunzioni, per cui la stagnazione del ricambio di personale, unita alla mancanza di prospettive di carriera a breve termine, aveva causato un piccolo ma significativo esodo di molti dei nostri ingegneri più esperti verso altre agenzie, l’industria aerospaziale e soprattutto Eumetsat, l’organizzazione che gestisce i satelliti meteorologici spaziali, che aveva un centro di controllo a poche centinaia di metri dal nostro, era in espansione e offriva un’alternativa allettante al lavoro in ESOC. Il problema che si presentava con Rosetta era dunque doppiamente complicato: non solo dovevamo assicurarci l’esperienza esistente, ma dovevamo anche creare le condizioni per cui queste persone restassero a lavorare nel progetto a medio-lungo termine, cosa che sarebbe stata molto difficile considerata l’atmosfera abbastanza depressa che si stava creando intorno a noi.
Una sfida lunga vent’anni
In più dovevamo preoccuparci di fare un piano per acquisire le conoscenze necessarie per condurre la missione, conoscenze che ancora nessuno di noi aveva, né all’ESOC né altrove in Europa. Le prime riunioni del team furono entusiasmanti: si trattava di analizzare tutti gli aspetti di una missione che ancora dovevamo definire e di elencare le aree di conoscenza ed esperienza che ancora non avevamo, per poi stabilire un piano per crearcele. Dopo due settimane, verso la fine del 1996, avevamo fatto una lista di aree specialistiche e le avevamo classificate in tre categorie. Prima di tutto c’erano quelle per cui era presente in ESOC abbastanza esperienza: le operazioni di satelliti automatici; la progettazione di sistemi di controllo che gestiscono la telemetria e i telecomandi dei satelliti; i sistemi di comunicazioni spaziali almeno nelle vicinanze della Terra.
Poi c’era la categoria delle aree in cui la nostra esperienza era limitata o assente, ma sapevamo che esisteva altrove, perlomeno al JPL della NASA: la navigazione interplanetaria; le operazioni per sonde che volano nello spazio profondo, a grandi distanze dalla Terra; le strategie di sorvolo dei pianeti per guadagnare energia orbitale; il sorvolo ad alta velocità di asteroidi.
Infine la categoria più difficile, quella delle aree di specializzazione totalmente nuove, che nessuno aveva mai affrontato prima, per cui dovevamo inventarci e costruirci tutto da soli: come gestire una lunga fase di ibernazione durante il volo; come navigare attorno a un corpo celeste piccolo e attivo come il nucleo di una cometa; come volare nelle nubi di polveri che lo circondano; come depositarvi un modulo di atterraggio.
Per la prima categoria non c’era problema: il nostro team aveva le conoscenze e l’esperienza necessarie e poteva applicarle direttamente e immediatamente alla preparazione della missione Rosetta. Per la seconda categoria dovevamo stabilire legami e accordi con il JPL. Dato che Rosetta era una missione ufficialmente in cooperazione con la NASA, dove in cambio del loro aiuto noi avremmo portato tre strumenti scientifici americani a bordo della sonda, avevamo un quadro formale che ci avrebbe permesso di contattarli e stabilire accordi di cooperazione tecnica. Quindi si trattava di stabilire i contatti giusti con gli esperti della NASA, soprattutto nel campo della dinamica del volo e delle operazioni, per imparare il più possibile da loro come si opera nello spazio interplanetario, come si controlla una sonda che non orbita attorno alla Terra, ma vola a distanza di centinaia di milioni di chilometri da essa. C’era molto da imparare, ma almeno avevamo qualcuno da cui assorbire le conoscenze necessarie.
Ma la parte difficile fu affrontare le aree che avevamo elencato nella terza categoria, quelle che nessuno aveva mai dovuto affrontare prima nella storia dell’astronautica. Ognuno di noi quattro capigruppo mise insieme un piano che definiva come sviluppare negli anni a venire gli strumenti richiesti e acquisire allo stesso tempo le conoscenze necessarie. La novità di questo piano era che non si fermava al momento del lancio, come per le missioni tradizionali, dove tutto doveva essere pronto e verificato prima di partire: Rosetta aveva di fronte un viaggio di quasi dieci anni prima di arrivare alla meta, e molti degli strumenti nuovi che dovevamo inventare e sviluppare sarebbero solo serviti quando saremmo arrivati in prossimità della cometa. Così il nostro piano prevedeva che molti sviluppi sarebbero cominciati molti anni dopo il lancio. Praticamente saremmo partiti senza ancora sapere come avremmo navigato e controllato la sonda al momento dell’arrivo. Si può paragonare una scelta del genere a una persona che deve imparare a guidare l’auto, e non appena ha imparato ad accendere il motore, sterzare e accelerare sale in auto e parte per un lungo viaggio, senza sapere ancora come si fa a frenare e tantomeno a parcheggiare. Anzi, al momento della partenza non avevamo ancora progettato, per seguire l’analogia, nemmeno il pedale del freno!
In effetti questo approccio non incontrava molta comprensione da parte dei nostri dirigenti. L’ESOC era un centro di controllo con una grande esperienza di missioni spaziali vicino alla Terra, nelle quali poche settimane dopo il lancio tutto deve essere pronto a funzionare a pieno ritmo. Il mondo delle operazioni spaziali è molto conservatore: quando una cosa funziona non si cambia, a meno che si sia costretti a farlo. Alla prima occasione in cui presentammo il nostro piano al capo dipartimento e al direttore riscontrammo in loro molto scetticismo, sfociato presto in una chiara opposizione: Rosetta era troppo importante per l’ESA, dovevamo essere pronti al momento del lancio con tutto l’occorrente per l’intera missione, non potevamo correre rischi, punto e basta. Solo la fiducia sconfinata che Manfred aveva nel nostro giudizio tecnico, unita alla sua forte determinazione, ci permise di difendere con successo il nostro approccio. Molti visi scettici, molte sopracciglia alzate, molti scuotimenti di capo, alcune alzate di voce, ma alla fine il nostro piano fu approvato.
L’area totalmente nuova dove avevamo deciso di ritardare il più possibile gli sviluppi era proprio la navigazione attorno alla cometa. Non avevamo letteralmente la più pallida idea di come si facesse a navigare attorno a un oggetto sconosciuto dalla dinamica variabile, difficile da misurare e tantomeno da prevedere. Inoltre era chiaro che l’accuratezza della navigazione necessaria ad orbitare attorno al nucleo a distanza di pochi chilometri senza rischiare di entrarci in collisione non poteva essere raggiunta con i metodi radiometrici tradizionali, che avremmo usato durante il lungo viaggio. Questo era il settore di Jürgen, che affrontò la cosa in modo sistematico e scientifico, assumendo nei primi anni un planetologo specializzato in comete e stabilendo contatti con le università più affermate nel campo della scienza dei piccoli corpi del sistema solare. Jürgen aveva capito fin dall’inizio che doveva sviluppare un modello ingegneristico del nucleo, da inserire nel suo sistema di determinazione dell’orbita per tenere conto di tutte le forze generate dalla cometa stessa che agivano sulla sonda. Quello che rendeva la cosa ancora più complicata e all’apparenza quasi disperata era che questo modello doveva essere definito sulla base di conoscenze molto generiche sulle caratteristiche del nucleo della cometa, un oggetto totalmente sconosciuto e che sarebbe restato tale fino al momento dell’arrivo della sonda nelle sue vicinanze. Per cui il modello del nucleo avrebbe potuto essere calibrato adeguatamente solo nelle prime settimane di volo attorno al nucleo stesso. E per volare attorno al nucleo era necessario il modello! Insomma, un tipico circolo vizioso, da spezzare e risolvere una volta arrivati alla cometa.
Per rendere ancora più difficile la nostra situazione, per la navigazione vicino al nucleo bisognava anche sviluppare strumenti di navigazione ottica, cioè che usassero, in aggiunta alle misure radio tradizionali, anche le informazioni derivate dalle foto del nucleo che Rosetta avrebbe scattato e trasmesso a terra. Questa tecnica era, a metà degli anni Novanta, ancora tutta da inventare e i relativi strumenti informatici tutti da sviluppare. Era chiaramente un lavoro che andava rimandato a molti anni dopo, anche per approfittare del continuo progresso degli algoritmi e della potenza di calcolo dei computer, che in pochi anni avrebbero sicuramente fatto passi da gigante. Oltretutto il posticipare il lavoro di sviluppo dei sistemi di navigazione dava altri vantaggi: prima di tutto i costi potevano essere “spalmati” su un periodo di molti anni, rendendoli molto più accettabili ai nostri sempre più preoccupati colleghi delle finanze; infine si poteva usare questo lavoro per mantenere motivazione e conoscenza nel team, che altrimenti rischiava di deteriorarsi o smembrarsi durante il lungo viaggio.
Preservare la motivazione e la conoscenza nel team, affrontare il ricambio inevitabile di collaboratori che difficilmente avrebbero voluto lavorare a un progetto, seppure affascinante e interessante come Rosetta, per due decenni, magari sempre nella stessa posizione: questi erano naturalmente tra i miei primi motivi di preoccupazione quando cominciammo a definire il piano di lavoro per la missione. Mai prima avevamo avuto all’ESOC un problema del genere. Di solito le missioni venivano progettate per un volo di due, tre, massimo cinque anni. E anche se alla fine duravano di più, venivano estese ogni due anni, e di volta in volta il team si modificava gradualmente. Faceva eccezione la missione Huygens, un modulo scientifico europeo, che sarebbe partita nel 1998 verso Saturno come passeggero della missione della NASA Cassini. Sarebbe arrivata nel 2005, quando Cassini avrebbe sganciato il modulo Huygens per farlo atterrate dolcemente su Titano, una delle misteriose lune del pianeta con gli anelli, la più grande. Ma non avevamo molto da imparare da questa missione: prima di tutto doveva ancora partire, e poi era un modulo che sarebbe rimasto passivo per tutto il viaggio, comodamente trasportato da Cassini, che era controllata dalla NASA. Huygens avrebbe funzionato solo per poche ore alla fine del viaggio, durante la discesa su Titano. Niente a che vedere con i dieci anni di volo autonomo di Rosetta nello spazio profondo, incontrando pianeti e asteroidi, con brevi fasi intense di operazioni critiche alternate a lunghi periodi di crociera quasi passiva. Come responsabile delle operazioni dovevo occuparmi di questi problemi direttamente, visto che avevo il compito di definire, tra l’altro, il concetto operativo e i costi del personale per coprire tutta la durata della missione, dalle fasi iniziali di preparazione fino alla fase finale in orbita attorno alla cometa.
Il team iniziale di operazioni lo avevo formato portando con me dal team di Cluster due ingegneri solidi e fidati: Mark Sweeney e Nicky Carlomagno. Mark era specializzato nelle interfacce con gli strumenti scientifici, mentre Nicky era la persona giusta per affrontare e risolvere i problemi che avremmo sicuramente incontrato nell’integrazione dei vari elementi dei sistemi di terra che dovevano essere sviluppati da zero o quasi per questa nuova missione. Mentre io mi occupavo, insieme a Erik e Jürgen, di definire i concetti operativi e preparare i requisiti di operabilità per la sonda stessa e per i sistemi di terra, Mark e Nicky avevano il compito di incontrare gli scienziati che stavano sviluppando gli strumenti da installare sulla nostra sonda, e i partner industriali che dovevano progettare i sistemi di telemetria e comando di Rosetta.
Per quanto riguardava le stazioni di terra, quelle grandi antenne necessarie per mantenere il contatto radio con Rosetta durante il volo, superando le enormi distanze dalla Terra – fino a un miliardo di chilometri – che la sonda avrebbe raggiunto nel suo viaggio, in teoria potevamo stare tranquilli, visto che la NASA aveva offerto, come parte del suo contributo alla missione, di utilizzare la loro Deep Space Network. Tutto ciò di cui ci dovevamo occupare era sviluppare, testare e validare le interfacce tra i nostri sistemi di controllo e le stazioni NASA.
Una grande antenna tutta per noi
Tuttavia Manfred non sarebbe stato Manfred se si fosse accontentato di una soluzione minimalistica e di comodo come questa. La sua intuizione gli diceva che una missione storica come Rosetta, la prima vera missione interplanetaria dell’ESA, e la prima missione della storia a raggiungere una cometa e orbitarle attorno, non poteva essere totalmente dipendente, per una funzione fondamentale come il contatto radio con la sonda, da una rete di stazioni di un’altra agenzia, benché questa fosse la NASA, che aveva una lunga tradizione di cooperazione con l’ESA e oltretutto aveva firmato un accordo di supporto reciproco per la nostra missione. Rosetta era la missione più importante del programma scientifico dell’ESA nel decennio successivo, e sarebbe costata più di un miliardo di euro (a quei tempi l’euro non esisteva ancora, ma l’ESA usava un’unità di conto standardizzata e unificata per tutti gli Stati membri, chiamata accounting unit (AU), che assomigliava molto alla futura moneta unica europea e aveva un valore molto simile a quello che avrebbe assunto, cinque anni più tardi, l’euro). Era molto azzardato prendere rischi e creare dipendenze critiche da organizzazioni esterne per una missione di questa portata scientifica, economica e storica.
Come spesso succedeva, la visione strategica di Manfred era quella giusta, e lui non aveva paura di pensare in grande: immaginò che l’ESA un giorno avrebbe potuto avere una rete di stazioni propria per le comunicazioni nello spazio profondo, ed era convinto che Rosetta fosse la missione adatta per creare dei forti impulsi in questa direzione. Così cominciò a premere a tutti i livelli dirigenziali dell’ESA per inculcare l’idea che Rosetta aveva bisogno almeno di un’antenna dedicata da 35 metri di diametro, sufficienti per ricevere i segnali radio trasmessi dalla sonda alla massima distanza che avrebbe raggiunto dalla Terra, e naturalmente per inviare segnali alla sonda sulla stessa distanza. Questa antenna doveva essere costruita nell’emisfero australe, dato che sapevamo che nella fase finale della missione, quando Rosetta sarebbe stata in orbita attorno alla cometa, la sonda si sarebbe trovata nel cielo meridionale, decisamente sotto l’Equatore.
Naturalmente tutti, io per primo, pensavamo che Manfred non avrebbe avuto alcuna possibilità di convincere la dirigenza dell’ESA, e soprattutto il consiglio degli Stati membri, a spendere qualche decina di milioni degli attuali euro per costruire un’antenna per lo spazio profondo, dato che il suo unico utilizzo sarebbe stato per Rosetta, e Rosetta aveva già il supporto garantito della DSN della NASA. Per quale ragione l’ESA avrebbe dovuto imbarcarsi in un’impresa nuova, complessa e rischiosa sotto tutti i punti di vista – tecnologico, finanziario, politico, geografico –, come la costruzione di una grande antenna da 35 metri nell’emisfero australe? Tra l’altro niente nel piano finanziario dell’ESA, già messo a dura prova dalla recente decisione di ricostruire i quattro satelliti Cluster, indicava che ci fosse il minimo spazio per coprire i costi di una nuova stazione di terra. Io davvero non potevo immaginare che una cosa del genere fosse possibile. E lo ripetevo spesso a Manfred. Ma queste erano obiezioni irrilevanti per lui, che sapeva essere una specie di bulldozer quando era convinto di un’impresa. Continuò a premere fino a che, incredibilmente, il finanziamento per la costruzione di un’antenna da 35 metri, in Australia, dedicata alla missione Rosetta, fu davvero approvato dagli Stati membri dell’ESA, con l’obiettivo di renderla operativa nel 2001.
Inizialmente il progetto, totalmente nuovo e molto ambizioso per noi, fu affidato al dipartimento di ingegneria dell’ESOC, ma Manfred era il vero padre di questa antenna e continuò a seguirne gli sviluppi iniziali in parallelo alla preparazione di Rosetta. Fino a quando, circa due anni prima della data prevista per il completamento, il nostro direttore di allora, David Dale, preoccupato dai ritardi accumulati nella progettazione e costruzione dell’antenna, chiese a Manfred di prendere in mano la direzione del progetto per riportarlo in carreggiata. Ero nel suo ufficio quando Manfred ricevette la telefonata del direttore: non esitò un minuto e accettò la sfida. Sapeva che era un incarico difficile e le probabilità di successo, a questo punto, non erano delle migliori. Ma sapeva anche che bisognava riuscirci, ne andava dell’immagine dell’ESA e del nostro centro in particolare, e sentiva di essere la persona giusta. Naturalmente anche questa volta aveva ragione.