Un’enorme palla di fuoco
Il mio team di controllori di missione entrò nella MCR – la sala controllo principale dell’ESOC, da dove venivano eseguite tutte le operazioni di volo nei primi giorni di ogni nuova missione spaziale – alle 11:30 locali, la mattina del 4 giugno 1996. Aspettai fino al momento in cui tutti i membri del mio team fossero seduti al loro posto, dopo aver sostituito in ogni posizione i colleghi del team B, che avevano passato le prime ore del mattino a preparare tutto il cosiddetto segmento di terra, cioè i computer, le grandi antenne sparse per il mondo e le linee di comunicazione che servono a controllare da terra il volo di una missione spaziale. Quattro piccoli gruppi, composti ognuno da un ingegnere di sistema e un controllore di volo, erano seduti nella prima fila delle stazioni di lavoro. Ciascun team era responsabile delle operazioni di uno dei quattro satelliti della missione Cluster, che stavano per essere lanciati nello spazio a bordo del nuovissimo razzo Ariane 5, nel suo primo volo di prova. Anche Cluster era una missione del tutto nuova: una flotta di quattro satelliti che avrebbero orbitato insieme attorno alla Terra per studiarne la magnetosfera, quella specie di involucro invisibile creato dal campo magnetico del nostro pianeta che “cattura” le particelle elettricamente cariche del vento solare, proteggendolo dal loro bombardamento, che renderebbe impossibile la vita sulla superficie.
Io ero seduto nella seconda fila. Il mio ruolo era quello di spacecraft operations manager, ovvero responsabile delle operazioni della missione. Il mio call-sign, cioè la sigla con cui venivo chiamato nelle comunicazioni operative tra le diverse posizioni di controllo, era “SOM”. A fianco a me stava Jörg Fischer, l’ingegnere responsabile del controllo di assetto e orbita dei quattro satelliti. Anche lui aveva la sua stazione di lavoro con tre schermi e, come me, doveva controllare le migliaia di dati e funzioni dei quattro satelliti. Era la prima volta nella storia dell’ESOC che la sala controllo veniva usata in quel modo dal team di missione. In effetti era stata ristrutturata pochi mesi prima, proprio per far posto a un team allargato che potesse controllare in parallelo quattro satelliti lanciati insieme sullo stesso razzo.
La terza e ultima fila di stazioni di lavoro era occupata sulla destra, come nelle altre missioni, dal flight director, il direttore di volo, Alan Smith, affiancato da Gus Mecke, il rappresentante del team di progetto, cioè del gruppo di ingegneri misto tra ESA e industria privata che aveva sviluppato e costruito i satelliti. A sinistra, invece, sedevano i due ground operations managers, responsabili delle operazioni dei complessi sistemi di terra. Molti altri colleghi occupavano varie sale di supporto, come la sala della dinamica del volo, la sala di supporto software, la sala controllo dedicata di Cluster. Ognuna di queste sale ha un ruolo specifico nelle operazioni di una missione. Mentre le prime due vengono usate solo in fasi critiche, come quella che segue il lancio, la sala controllo dedicata è quella che si usa per il controllo di una missione specifica per tutta la sua durata. Le operazioni di questa prima fase della missione Cluster giustificavano un tale spiegamento di forze: oltre ai quattro satelliti da controllare simultaneamente, c’era anche una complessa rete di sette stazioni di terra sparse per il mondo da monitorare, con le loro grandi antenne e i loro sofisticati sistemi di comunicazione radio.
Le immagini dal Centro spaziale di Kourou, nella Guyana Francese, proiettate su uno dei grandi schermi sulla parete della sala controllo, mostravano la forma bianca e tozza del razzo Ariane 5 nell’oscurità delle prime ore del mattino. Le attività di preparazione al lancio procedevano normalmente. Solo le condizioni meteorologiche non erano buone: stava piovendo. Come ci aspettavamo, l’ultimo controllo delle condizioni di lancio fu concluso con la luce verde, il segnale del “pronti al lancio”. Mancava solo la verifica dell’ultimo criterio, relativo alle condizioni meteorologiche. Per questa missione avevamo una finestra di lancio di due ore, cioè potevamo decidere di lanciare in qualsiasi momento tra le 13:34 e le 15:34 locali. All’inizio di questo periodo, in gergo tecnico detto “apertura della finestra di lancio”, aveva smesso di piovere, ma la visibilità in quota non era abbastanza buona. La visibilità non è di solito una condizione necessaria per lanciare un satellite, ma questo era il primo volo di Ariane 5 ed era fondamentale poter osservare da terra il funzionamento dei motori a combustibile solido, che funzionavano nei primi due minuti di volo, fino alla loro separazione automatica dal resto del razzo.
Nel frattempo la “connessione ombelicale”, cioè i cavi che ancora collegavano il razzo alla torre di lancio e che si sarebbero staccati solo al momento della partenza, ci permetteva di osservare sui nostri schermi la telemetria di uno dei quattro satelliti. Avevamo scelto il satellite numero 2, dato che sarebbe stato il primo a mandare il segnale radio a una delle nostre stazioni di terra subito dopo essersi separato dal razzo, alla fine della sua corsa, 30 minuti dopo il lancio, ormai in orbita terrestre. A causa delle condizioni meteorologiche, il lancio fu rimandato inizialmente di 30 minuti, e poi finalmente fissato per le 14:34, esattamente al centro della finestra di lancio. Il cielo era ormai sgombro, e il conto alla rovescia finale stava arrivando ai suoi ultimi secondi. Vidi le immagini del motore criogenico del primo stadio di Ariane 5 accendersi e poi, sette secondi dopo, come previsto, con l’accensione dei motori solidi vidi l’enorme razzo sollevarsi in una grande nuvola di fiamme e vapori. L’accelerazione era impressionante, molto diversa dalla lenta partenza del vecchio modello Ariane 4.
Pochi secondi dopo Sandro Matussi, l’ingegnere di sistema responsabile per il satellite numero 2, mi chiamò sul circuito di comunicazione interno dicendo: «SOM, System 2: ho perso telemetria». Tutti nella sala controllo risero: c’era ovviamente da aspettarsi che, al momento del distacco del cavo ombelicale, mentre il razzo si sollevava da terra, avremmo perso il contatto con il nostro satellite 2: adesso i quattro satelliti Cluster erano davvero in viaggio verso lo spazio. Sandro voleva evidentemente allentare la tensione con una delle sue battute. Mi girai verso la fila posteriore di stazioni di lavoro e vidi che c’erano anche alcuni “spettatori” in sala, appoggiati alla parete di vetro che ci separava dalla sala di riunione operativa che si trovava dietro la sala controllo. Colleghi che non occupavano direttamente una posizione operativa, ma che avevano contribuito con il loro lavoro negli anni precedenti alla preparazione della missione, e non volevano perdersi l’emozione del lancio.
Tra loro Heike Schweitzer, la segretaria del nostro direttore di volo. Impercettibilmente, mi voltai verso di lei. E la vidi spalancare la bocca e aguzzare gli occhi all’improvviso, terrorizzata. Mi girai d’istinto verso lo schermo sulla parete di fronte a noi: ora l’immagine precedente del razzo Ariane che saliva rapido nel cielo era stata sostituita da un’enorme palla di fuoco. Il mio primo pensiero fu: beh, questa sarà la separazione dei motori solidi, è normale. Nello stesso istante sentii due voci nelle mie cuffie: quella dello speaker del controllo lancio di Kourou che diceva con voce monotona e professionale «Trajectoire normale, tous les paramètres normaux» e, su un circuito diverso, quella di Nicolas Bobrinsky, il nostro ground operations manager, che annunciava a tutte le stazioni di terra qualcosa di completamente diverso. E terribile: «Ariane esploso. Missione fallita».
Probabilmente tutti questi eventi avvennero contemporaneamente, sicuramente entro lo stesso secondo, ma io li ricordo distintamente come eventi chiaramente separati e consecutivi. Mi domando ancora come avesse fatto Nicolas a reagire così prontamente a quello che vedeva. Il mio secondo pensiero a questo punto fu: ma che scherzo stupido e poco professionale da fare sul circuito vocale aperto a tutte le stazioni sparse per il mondo. Ancora rifiutavo mentalmente l’evidenza, la perdita della missione pochi secondi dopo il lancio. Poi l’immagine cambiò improvvisamente, e vidi i resti in fiamme del razzo Ariane e del suo carico piovere dal cielo sulla costa della Guyana. Fu a questo punto che realizzai per la prima volta che quei detriti incendiati e fumanti dovevano essere parti dei nostri satelliti Cluster. Mi appoggiai allo schienale alto della mia poltrona, sentendomi all’improvviso totalmente svuotato. Ruotai sulla poltrona verso la fila posteriore della sala controllo: Heike era ancora lì, a fissare incredula lo schermo televisivo, con gli occhi pieni di lacrime. Sandro Matussi si alzò e si appoggiò sull’involucro degli schermi della mia stazione di lavoro, guardando verso di me e verso il retro della sala controllo, come aveva fatto tante volte nei mesi passati, ogni volta che raggiungevamo la fine di una simulazione lunga ed estenuante. Avevamo previsto e ci eravamo allenati su ogni tipo di problema: il raggiungimento di un’orbita più bassa del previsto, un assetto sbagliato dei satelliti alla separazione dall’ultimo stadio, persino il caso catastrofico di dover acquisire il segnale radio da quattro satelliti che rotolavano su se stessi privi di stabilizzazione. Per ognuno di questi casi avevamo trovato soluzioni, progettato procedure di emergenza che poi avevamo provato al simulatore e perfezionato, velocizzando le nostre reazioni. Naturalmente non aveva senso simulare l’esplosione del razzo: per un caso del genere non c’era reazione possibile da parte nostra. Da parte di nessuno. Però stavolta il viso di Sandro era diverso. Stavolta non era una simulazione.
Alcune settimane prima avevo comprato i biglietti per la partita amichevole di calcio tra le nazionali della Germania e del Liechtenstein, a Mannheim, a circa 40 chilometri da Darmstadt. Nel frattempo, la data di lancio di Cluster era stata posticipata in varie occasioni, per finire proprio lo stesso giorno della partita. Così quel mattino avevo dovuto spiegare a mia moglie, e soprattutto al mio bambino di 6 anni, Marco, che alla sera non saremmo potuti andare a vedere la partita. Ora stavo seduto nella sala controllo con un futuro completamente aperto davanti a me: tutti i piani accurati, preparati nei dettagli, minuto per minuto, per le operazioni di volo di Cluster nelle tre settimane successive erano di colpo diventati grottescamente inutili, obsoleti, nel momento in cui Ariane 5 era esploso, distruggendo i nostri quattro satelliti, 37 secondi dopo il lancio. Mentre mi appoggiavo allo schienale della mia poltrona, nella mia mente scorrevano pensieri diversi, molti irrazionali, altri più concentrati sulle cose da fare nei giorni seguenti. Era una situazione totalmente nuova per me, ma anche per la maggior parte delle persone presenti nella sala controllo, e anche per i miei capi.
Fu in quel momento che presi la decisione: lasciai la sala per cercare la mia famiglia, venuta a vedere il lancio insieme alle altre famiglie del personale dell’ESOC, sugli schermi televisivi allestiti nella mensa. Erano già andati a casa, pensando che fosse meglio lasciarmi in pace, che sarei stato impegnato per il resto del giorno. Allora tornai nella sala controllo, dissi al direttore di volo che sarei andato a casa e così feci. Arrivato a casa i bambini mi corsero incontro come ogni sera, forse stavolta in maniera più agitata del solito. Bianca, che avrebbe compiuto 3 anni di lì a un mese, non aveva compreso cosa era successo, ma aveva pianto quando aveva visto l’esplosione sullo schermo della mensa: credeva che io fossi sul razzo! Dissi a Marco, che invece capiva la gravità dell’accaduto e mi guardava serio e preoccupato: «Beh, almeno possiamo andare a vedere la partita». Così chiamai gli amici con cui avevo organizzato la cosa e andammo insieme a Mannheim. Non ricordo molto di quella partita. Ma so che mi diede almeno un appiglio per sopportare le emozioni violente di quel giorno drammatico.
Il giorno dopo Manfred Warhaut, il ground segment manager che aveva condotto la preparazione della missione negli anni precedenti il lancio e mi aveva preso nel suo team solo tre anni prima, voleva affrontare il problema immediatamente, come era solito fare con tutto. In particolare, la sua priorità erano le persone: avevamo alcune decine di colleghi sotto la nostra responsabilità. Soltanto il mio team di controllo missione era composto da 23 ingegneri e tecnici, e molti altri formavano il team del segmento di terra di Cluster sotto Manfred. Ci aspettavamo problemi. Domande. Questioni sul domani. Volevamo rassicurarli subito che ci saremmo occupati del loro futuro immediato, che nessuno sarebbe stato abbandonato senza una prospettiva. Manfred organizzò un meeting nella briefing room, la sala riunioni che si trovava dietro la sala controllo. Mi chiese di parlare per primo, poi si alzò e disse al team che entro una settimana avremmo avuto un piano dettagliato per ognuno di loro. Questo non significava un lavoro garantito per tutti, ma almeno un piano di azione. Poi andammo da Alan Smith, il direttore di volo e capo della divisione di operazioni di missione, e cominciammo ad analizzare la lista di tutte le persone sotto la nostra responsabilità. Pochi giorni e il piano era pronto: la maggior parte dei colleghi, sia personale dell’ESA che contrattisti, sarebbe stata riassegnata ad altri incarichi all’interno o all’esterno dell’ESOC. Solo per pochi rimasti avevamo almeno un piano per identificare delle opportunità nelle settimane successive. L’evento della fine improvvisa della missione dovuta all’esplosione del razzo Ariane fu una grande lezione per tutti noi ma, come già in altre occasioni, mi impressionò la determinazione di Manfred nell’affrontare questo improvviso enorme problema manageriale. Per lui le persone erano la vera ricchezza di un’organizzazione. Come capo devi occupartene con altissima priorità, tutto il resto viene dopo.
Anch’io, ovviamente, fui oggetto del piano: insieme a Manfred, un paio di mesi prima del lancio di Cluster avevo cominciato a occuparmi dei primi passi della preparazione di una nuova missione. Si chiamava Rosetta. Un nome strano ma conosciutissimo, sin dai banchi di scuola: chi non conosce la stele di Rosetta, l’oggetto che aveva permesso la decifrazione dei geroglifici egiziani? Il nome non era stato scelto a caso: come la stele di Rosetta, la missione interplanetaria Rosetta si prefiggeva, tramite lo studio ravvicinato e prolungato del nucleo di una cometa, di decifrare i misteri della nascita e dell’evoluzione del sistema solare.
Per quanto riguardava le operazioni spaziali, Rosetta era una missione fantastica, una vera missione interplanetaria, la prima vera missione di questo tipo per l’ESOC. Ma la missione era eccezionale per molti altri aspetti, non solo per l’ESOC, bensì per la storia del volo spaziale. Si trattava di lanciare un veicolo spaziale, una “sonda”, come si chiamano i satelliti che lasciano l’orbita della Terra e volano nello spazio profondo, che con un viaggio lungo dieci anni doveva raggiungere una cometa, entrare in orbita attorno al suo nucleo, restarci per oltre un anno e addirittura sganciare un modulo di atterraggio sulla sua superficie1. Già a febbraio del 1996 Manfred mi aveva chiesto di mettere insieme un documento sui requisiti operativi per lo sviluppo della sonda Rosetta. Era un compito entusiasmante, che mi aveva portato per la prima volta a pensare ai dettagli delle operazioni di volo per questa missione straordinaria, a come avrei voluto che la sonda fosse progettata per poterla controllare dalla Terra nell’immensità dello spazio profondo. Naturalmente, prima della distruzione del razzo Ariane, non mi aspettavo di lavorare subito nel team di Rosetta. Tanti sarebbero stati gli impegni una volta lanciati e portati i quattro satelliti Cluster alla loro fase di operazioni di routine. Invece quella palla di fuoco nel cielo della Guyana aveva dato un aspetto completamente diverso alla mia situazione. Dopo il meeting con Alan, Manfred mi accompagnò nel mio ufficio e mi disse: «Paolo, qualsiasi cosa succeda a Cluster nei prossimi mesi, tu dovrai spostarti su Rosetta a partire dall’anno prossimo. Se lanceremo nuovi satelliti Cluster, come spero, ti sostituirò con qualcun altro. Non puoi seguire come responsabile delle operazioni entrambe le missioni».
Dopo il lancio fallito, era un nuovo shock. Ovviamente volevo lavorare a Rosetta, era la più importante di tutte le missioni ESA. E dal punto di vista delle operazioni era una grande sfida, completamente nuova, un territorio inesplorato, un’occasione che capita una sola volta nella vita. Però, allo stesso tempo, volevo fortemente tornare al più presto alle operazioni di volo. L’ultima volta che avevo lavorato su una missione in volo era il luglio 1993, quando Eureca, il mio progetto precedente che avevo seguito per nove anni, terminava con il recupero del satellite da parte di uno space shuttle che lo riportava sulla Terra.
Il lancio di Rosetta era previsto per il gennaio 2003. Anni e anni fuori dalle sale controllo, durante i quali avrei guardato con invidia i miei colleghi che operavano altre missioni in volo, magari la stessa Cluster. Anni da passare facendo piani e producendo documenti, invece di vivere le emozioni del volo. Non era quello che volevo, ma Manfred non mi stava dando una scelta: aveva già deciso per me. Così, quando nell’aprile successivo lo Science Programme Committee dell’ESA approvò la costruzione di quattro nuovi satelliti Cluster per un lancio nel 2000, non ebbi nemmeno il tempo di rallegrarmene: ero ormai completamente concentrato sulla preparazione della missione Rosetta.
1 Per la precisione, quando cominciai a lavorare a Rosetta i moduli di atterraggio erano due: uno franco-americano e uno tedesco. Ma proprio in quei mesi la NASA aveva deciso di ridurre la sua partecipazione a Rosetta, limitandosi a contribuire agli strumenti scientifici della sonda madre, e ritirandosi dal progetto di un modulo di atterraggio. Così l’ESA dovette ridefinire la missione: Rosetta avrebbe avuto un unico modulo di atterraggio, per costruire il quale il CNES, l’Agenzia spaziale francese, avrebbe unito le forze con la DLR, l’Agenzia spaziale tedesca, e con quella italiana, l’ASI.