Comete

Ikeya-Seki (1965)

La prospettiva di lavorare su Rosetta, una missione verso una cometa, mi sembrava l’incontro finale con qualcosa che il fato mi aveva riservato e mi aveva fatto intravedere in varie occasioni nel corso della mia vita precedente. Questi strani corpi celesti mi avevano attirato fin da bambino. Mi sembravano misteriosi e particolari, si staccavano da tutti gli altri oggetti e fenomeni astronomici come la Luna, le stelle, i pianeti. Il mio primo ricordo è sepolto nelle poche immagini e sensazioni che mi rimangono dei primi anni Sessanta, quando ero ancora in età prescolare, vivevo a Milano, ed ero affascinato praticamente da tutto quello che mi succedeva attorno. Un giorno mio padre mi raccontò che una cometa sarebbe stata visibile nel cielo, ma solo nelle prime ore del mattino. Così una mattina mi svegliai presto, credo attorno alle cinque – o almeno così ricordo. Dormivo nella stessa stanza dei miei genitori, nel loro piccolo appartamento a Milano. Senza fare rumore, per non svegliarli, aprii la finestra per vedere se la cometa ci fosse davvero. Naturalmente non vidi niente di particolare, sicuramente non la cometa, dato che il cielo era già troppo luminoso, e comunque chissà se la finestra guardava nella direzione giusta. Ma l’immagine di quello che mi aspettavo è ancora molto chiara nella mia mente: una grande sfera bianca e luminosa che sfreccia nel cielo notturno. Sono andato a vedere negli annali astronomici per cercare di identificare se davvero questo ricordo coincidesse con l’evento reale di una cometa visibile dalla Terra, e ho trovato in effetti C/1965 S1 Ikeya-Seki. Questa cometa fu effettivamente osservabile a occhio nudo dai primi di ottobre a metà novembre del 1965.

Chiaramente non avevo idea di cosa aspettarmi, e sarebbero passati trent’anni prima che avessi nuovamente occasione di vedere una cometa a occhio nudo, e per rendermi conto finalmente di quale aspetto avessero questi fenomeni misteriosi. Ma questo episodio della mia prima infanzia segnò nella mia mente e nella mia vita qualcosa che sarebbe restato per sempre. Il mio primo incontro cosciente, anche se mancato, con una cometa, con l’astronomia, con il cielo. L’era spaziale era appena cominciata e non avevo ancora idea di cosa stesse succedendo nei cieli sopra di me, né di cosa sarebbe successo pochi anni dopo, con l’incredibile sequenza di missioni spaziali che avrebbe portato alcuni uomini a camminare sulla Luna: l’evento che avrebbe fissato per sempre la mia infatuazione per lo spazio e per qualsiasi cosa riguardi il cielo, specialmente notturno. Negli anni successivi avrei continuato a sentire il richiamo dello spazio, anche se le comete sarebbero rimaste per molto tempo in un lontano sfondo. Frequentai il liceo scientifico, cominciai a seguire lezioni di astronomia al planetario di Milano, infine scelsi di studiare Fisica all’Università di Pavia. Quando, alcuni anni dopo, si trattò di scegliere la tesi di laurea, contattai l’unico professore a Pavia che allora si occupava di ricerca spaziale: Bruno Bertotti, un astrofisico che a quel tempo lavorava alla preparazione della missione dell’ESA Ulysses. Ma il professor Bertotti, anche se mi accettò nel suo corso di astrofisica, si rifiutò di farmi da tutore per la tesi: aveva già un altro studente e non aveva tempo di seguire due tesi contemporaneamente. Così scelsi una tesi di fisica teorica dei plasmi, studiando l’assorbimento di radiazioni elettromagnetiche nei plasmi da fusione nucleare. Ma lo spazio rimaneva comunque il mio chiodo fisso, e certo non sarebbe bastato un inconveniente di questo genere per farmelo dimenticare.

Infatti dopo l’università venne il servizio militare, che a quei tempi era obbligatorio in Italia, e verso la fine del mio periodo in uniforme, nella primavera del 1984, mentre cominciavo sistematicamente a guardare gli annunci di lavoro sui giornali, vidi che l’Agenzia spaziale europea cercava giovani scienziati per le operazioni scientifiche del satellite astronomico a raggi-X ExoSat, che era stato lanciato nel maggio del 1983. L’ESA cercava astrofisici, e certo io non potevo dirmi tale, dopo aver fatto solo un esame universitario su questa materia e con nessuna referenza di ricerca in quel campo. Però nell’annuncio non richiedevano esplicitamente esperienza: era la mia occasione per entrare nel mondo dello spazio. Risposi all’annuncio, mi chiamarono per un colloquio, sorprendentemente mi selezionarono e il 15 agosto 1984, poche settimane prima del mio venticinquesimo compleanno, cominciai a lavorare come scienziato in visita, con una borsa di studio di un anno, nel team dell’osservatorio ExoSat al Centro europeo di operazioni spaziali a Darmstadt.

L’ESOC era a quel tempo, per un giovane fisico appassionato di spazio come me, un luogo assolutamente incredibile. Molti dei pionieri europei delle imprese spaziali ci lavoravano ancora. Alcuni di loro avevano partecipato al programma Apollo della NASA, come il leggendario Dave Wilkins, capo della divisione di operazioni dei satelliti e direttore di volo principale per tutte le missioni dell’epoca. Ero circondato da esperti di volo spaziale e di controllo missione, ed erano reali! La minima conversazione con uno di loro, magari al caffè, era per me un’esperienza fantastica. E c’era così tanto da imparare, specie per chi, come me, forse aveva anche buone basi di fisica teorica e matematica superiore, ma di ingegneria dei sistemi spaziali non aveva assolutamente la più pallida idea. Il mio lavoro nel team scientifico dell’osservatorio ExoSat consisteva principalmente nell’aiutare gli scienziati che avevano ottenuto tempo di osservazione con il nostro satellite. Molti di loro venivano di persona all’ESOC per il periodo di tempo che era assegnato alla loro osservazione, per poter analizzare i dati in tempo reale e modificare, se necessario, la configurazione degli strumenti scientifici a bordo del satellite. In pratica io dovevo fare da interfaccia tra questi scienziati, che sapevano cosa volevano ottenere ma non conoscevano i dettagli operativi degli strumenti, e lo spacecraft controller, in gergo SPACON, che era l’unico autorizzato a trasmettere comandi al satellite ma aveva una conoscenza limitata della sua strumentazione scientifica. Dato che il satellite veniva ovviamente utilizzato continuamente, 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, il mio era un lavoro a turni, alternandomi con altri cinque giovani scienziati assunti insieme a me. Questo incarico richiedeva che imparassi moltissimo non solo degli strumenti scientifici, ma anche dei sistemi di bordo del satellite, dei sistemi di terra che utilizzavamo per pianificare ed eseguire le operazioni, e naturalmente che vivessi in prima persona le operazioni del satellite, i continui problemi che da una parte il satellite e dall’altra i sistemi di controllo ci presentavano. Osservavo come gli esperti del team di controllo operativo intervenivano per risolverli. Ogni ora passata in sala controllo aumentava la mia conoscenza e la mia esperienza, ma in particolare faceva crescere in me la passione per un lavoro di cui solo poche settimane prima non conoscevo l’esistenza.

Ricordo la prima volta che entrai nella sala controllo dedicata di ExoSat: luci attenuate, una dozzina di schermi di computer – solo tre dei quali a colori – la parete frontale coperta da un grande pannello che mostrava, in caratteri rossi luminosi, i parametri più importanti della telemetria del satellite, ricevuti in tempo reale. Davanti alla parte destra della fila di schermi sedeva lo SPACON, a sinistra lo scienziato che eseguiva l’osservazione e lo scienziato del team di ExoSat che lo aiutava. Lo SPACON aveva davanti una tastiera piuttosto complicata, con tasti specifici per ogni funzione che doveva eseguire, come mandare comandi o selezionare una delle tante sequenze di dati telemetrici da mostrare sullo schermo. Alcuni tasti erano illuminati, con colori diversi, e quello che autorizzava l’invio dei comandi era protetto da un coperchietto di plastica. Un altro strumento affascinante riservato allo SPACON era una serie di registratori dei dati dei giroscopi di bordo, con aghi che disegnavano oscillando curve misteriose sui rotoli di carta che avanzavano lentamente. I computer di controllo di allora non erano in grado di disegnare facilmente curve sugli schermi, per cui si ovviava con questi strumenti elettromeccanici per dar modo allo SPACON di seguire le curve delle manovre di assetto del satellite in tempo reale. Non dimenticherò mai l’immagine che mi diede lo SPACON di turno quel primo giorno: Peter Vogt, un tedesco alto con i capelli lunghi e grandi baffi neri, lo sguardo serissimo che sembrava non staccarsi mai dagli schermi se non per gettare un’occhiata sul libro delle procedure aperto di fronte a lui sulla console. Mi sembrò un gigante, quasi un sacerdote in quel tempio affascinante e misterioso in cui ero appena entrato.

Il lavoro all’osservatorio ExoSat mi permise di imparare molto sulle operazioni spaziali, di respirare l’atmosfera della sala controllo per più di un anno, nei giorni e nelle notti di lavoro a turno sul satellite e sui suoi strumenti. Quando mi si presentò l’opportunità di far domanda per un posto nel dipartimento operazioni di missione la presi al volo. La scuola di ExoSat, e insieme la mia passione e la volontà fortissima di imparare tutto sulla tecnologia spaziale, furono sufficienti a ovviare alla mia evidente mancanza di esperienza: mi assunsero come ingegnere delle operazioni nel team di controllo della missione Eureca.

Halley (1986)

Il mio primo giorno di lavoro nel team di Eureca fu il 1° febbraio 1986, solo pochi giorni dopo il tragico 28 gennaio, una data che avrebbe cambiato la storia dell’astronautica: il giorno in cui il venticinquesimo volo dello space shuttle della NASA finì tragicamente due minuti dopo il lancio con l’esplosione della navetta Challenger e la morte dei sette membri dell’equipaggio. La mia missione, Eureca, doveva partire con uno space shuttle, e questa tragedia causò ritardi nel nostro lancio, che alla fine si accumularono per più di quattro anni. Non fu un buon inizio per il mio nuovo incarico, ma per me era relativamente poco importante: ormai ero stato ufficialmente accettato nel mondo delle operazioni spaziali. E questo ritardo nel lancio mi avrebbe dato più tempo per familiarizzare con questa nuova missione, con il satellite e i suoi strumenti, e con i sistemi di controllo dell’ESOC, che fino ad allora avevo incontrato solo superficialmente. Era un’occasione importante per un fisico che aveva appena deciso di riciclarsi definitivamente da una carriera scientifica appena abbozzata al mondo nuovo e completamente diverso delle operazioni spaziali.

Solo poche settimane dopo la tragedia del Challenger la storia del volo spaziale stava per aggiungere un’altra pietra miliare: a metà marzo 1986 una flotta internazionale di sonde spaziali, tra cui la sonda Giotto dell’ESA, effettuò per la prima volta un sorvolo ravvicinato del nucleo di una cometa. E non era una cometa qualunque: si trattava della cometa di Halley, la cometa per eccellenza, che solo due secoli prima aveva cambiato la storia dell’astronomia, contribuendo a confermare la legge della gravitazione universale, e segnando definitivamente l’inizio della scienza delle comete. La cometa 1P/Halley ritorna ogni 76 anni in prossimità del Sole e della Terra, per cui era stata osservata ormai varie volte nell’era dei telescopi e della moderna astronomia. Questa era la prima volta, dopo la nascita dell’era spaziale, che Halley sarebbe tornata al suo perielio, il punto più vicino al Sole nella sua lunghissima orbita altamente ellittica. Giotto era la sonda che si sarebbe avvicinata più di tutte al nucleo, fino a una distanza pianificata di circa 500 chilometri. E Giotto veniva controllata dall’ESOC, proprio nella sala a fianco di quella di ExoSat, dai miei nuovi colleghi del dipartimento delle operazioni!

Il 13 marzo 1986 fu un giorno memorabile per noi dell’ESOC. Eravamo tutti invitati ad assistere all’incontro di Giotto con Halley sotto un grande tendone che mi ricordava il circo della mia infanzia, installato per l’occasione nel giardino dietro l’edificio del centro di controllo. Anche le famiglie dei dipendenti erano state invitate, per cui l’atmosfera era un po’ da festa popolare, con bambini vocianti che si rincorrevano tra le panche da birreria dove eravamo seduti e pigiati. E di birreria c’era anche l’odore, tra i fumi delle salsicce e delle bistecche di maiale profumate e pesantissime che venivano grigliate in un angolo del tendone. Poco dopo la mezzanotte le prime immagini non processate riprese dalla fotocamera di bordo della sonda Giotto cominciarono ad arrivare al centro di controllo, per essere subito ritrasmesse in tempo reale su un grande schermo televisivo nel tendone, e allo stesso tempo mandate in onda in diretta nei vari programmi televisivi organizzati in molti paesi europei.

L’attesa delle prime immagini del nucleo era spasmodica, e la delusione quando arrivò la prima foto inviata sulla Terra da Giotto fu talmente grande da zittire tutti. Persino i bambini smisero di vociare. Era un’immagine a falsi colori che mostrava (come venni a sapere dopo) solo i diversi livelli di intensità della luce emanata da una delle fontane di polvere e gas che veniva emessa dalla superficie del nucleo. Poi improvvisamente si perse il contatto radio con la sonda. L’impatto della sonda con la polvere che circondava il nucleo della cometa di Halley, alla velocità relativa spaventosa di 68 chilometri al secondo (circa 245.000 chilometri all’ora), aveva causato un’oscillazione nella rotazione normale della sonda, spostando la direzione di trasmissione dell’antenna parabolica di bordo, così che il suo segnale non veniva più inviato correttamente nella direzione della Terra. Questo effetto era stato previsto, e la sonda era stata equipaggiata con sistemi meccanici che avrebbero smorzato le oscillazioni nel giro di qualche decina di minuti. Ciononostante non è mai una bella sensazione quando si perde il segnale radio da una sonda, l’unico legame che abbiamo con questo piccolo veicolo spaziale sperduto nell’immensità dello spazio profondo, a centinaia di milioni di chilometri da noi. Tutti gli occhi erano puntati sullo schermo, che ora mostrava un’immagine fissa dall’alto della sala controllo principale dell’ESOC, la MCR, dove il responsabile delle operazioni, Andrew Parkes, il direttore di volo, Wolfgang Wimmer, e i loro team fissavano concentrati gli schermi dei computer delle loro stazioni di lavoro. Non sembravano per niente preoccupati, e probabilmente non lo erano davvero. Quante volte questa fase di volo era stata simulata nei mesi che precedevano il lancio, quanti scenari diversi erano stati provati, con guasti anche poco probabili, o combinazioni di situazioni complicate e impreviste, per allenare il team di controllo a prendere le decisioni giuste, a risolvere anche le situazioni più inaspettate e difficili. Quei mesi di simulazioni, dopo gli anni di preparazione, davano al team quella confidenza e quella serenità che adesso traspariva dagli schermi, mentre noi, semplici spettatori ignari, trattenevamo il fiato per l’angoscia di non ritrovare più quel segnale radio perduto, di non ristabilire più il contatto con Giotto. Dopo pochi minuti, invece, il segnale radio ritornò, come previsto, indicando che la sonda era davvero sopravvissuta all’incontro ravvicinato con il nucleo di Halley e stava ormai rapidamente allontanandosi da esso.

Solo un paio d’ore dopo, nel cuore della notte, Gerhard Schwehm, che faceva parte del team scientifico di Giotto e aveva vissuto l’incontro al quarto piano dell’edificio B, totalmente occupato per l’occasione da tutti i team degli strumenti scientifici di Giotto e dai loro sistemi per decodificare i dati telemetrici della sonda, scese nel tendone e ci portò, freschissime, due delle prime foto inviate da Giotto. Stavolta, però, erano foto elaborate e calibrate, non a falsi colori come quelle inutili che avevamo visto sullo schermo gigante e che erano state trasmesse in tempo reale alle televisioni di mezzo mondo. Erano foto in bianco e nero che mostravano chiaramente il nucleo di Halley, immerso nella nebbia di polvere da esso stesso generata, nerissimo, con i getti bianchi e luminosi di gas e polvere che partivano da almeno due punti della sua superficie. Fu un’emozione enorme vedere le prime immagini del nucleo di una cometa. E che sorpresa vedere questo oggetto nerissimo, mentre tutti, gli scienziati per primi, si aspettavano qualcosa di bianco e luminoso, la famosa “palla di neve sporca” prevista dalle teorie di allora sulla natura delle comete. Da quel momento sappiamo che il nucleo di una cometa è sì formato in gran parte da ghiaccio di acqua, ma la sua superficie è ricoperta di materiale nerissimo, composti di carbonio che riflettono solo qualche percento della luce del Sole. La fotocamera di Giotto era stata programmata per seguire automaticamente un oggetto luminoso, così finì per puntare, durante tutto l’incontro, verso uno dei getti di gas brillanti e bianchi emessi dal nucleo. Per fortuna questo non impedì alla fotocamera di catturare il nucleo vero e proprio durante l’avvicinamento: un corpo della lunghezza di circa 15 chilometri, con una forma irregolare, simile a una gigantesca arachide. Il primo nucleo di cometa mai osservato da occhio umano.

Hyakutake (1996) e Hale-Bopp (1997)

La notte di Giotto e di Halley passò velocemente, mentre io mi concentravo sulla preparazione della mia nuova missione, Eureca. Intanto la mia giovane famiglia cresceva, con la nascita dei miei due figli, Marco nel 1990 e Bianca nel 1993. Il mio lavoro mi prendeva totalmente, anche perché Eureca fu lanciata nel luglio del 1992 e si rivelò subito un satellite molto difficile, che richiedeva molta, troppa, tutta la nostra attenzione per poter sopravvivere e compiere la sua missione. Avevo poco tempo per rendermi conto del grande cambiamento nella mia vita, ma anche di quanto velocemente i miei bambini crescessero, insieme alla loro curiosità di capire tutto quello che succedeva attorno a loro – almeno di capire velocemente cosa fosse per loro importante e interessante e cosa no.

Dopo la fine di Eureca passai a preparare la missione Cluster e fu in quel periodo, una sera di marzo del 1996, in piena preparazione per il lancio, che tornai a casa annunciando che avevo letto che la cometa C/1996 B2 Hyakutake stava avvicinandosi al perielio, il punto della sua orbita più vicino al Sole, e quindi nelle settimane successive sarebbe stato possibile osservarla a occhio nudo. Da quel momento attesi che il cielo normalmente nuvoloso della Germania meridionale si schiarisse, e quando finalmente arrivò una sera di cielo sereno attesi il buio e portai i bambini a osservare la notte stellata da una delle finestre nel tetto di casa nostra. Ed ecco, davanti a noi, la cometa Hyakutake! Si presentava come una macchia diffusa biancastra, debole, simile a quando si osserva la galassia di Andromeda con un semplice binocolo. Che emozione, vedere per la prima volta nella mia vita una cometa a occhio nudo! I bambini la osservarono, fecero qualche domanda su quanto tempo sarebbe rimasta in cielo e dove sarebbe andata a finire dopo. Sembravano contenti, anche se non eccessivamente impressionati, di avere qualcosa di inconsueto da raccontare ai compagni di scuola e ai maestri il giorno dopo.

Quasi esattamente un anno dopo, un’altra cometa apparve improvvisamente nel cielo: C/1995 O1 Hale-Bopp. Questa però era davvero una cometa eccezionale. Brillante, violentemente attiva, veloce e vicina al Sole e alla Terra. Quando arrivai a casa con questa notizia per me entusiasmante la prima reazione dei miei figli fu: «Un’altra cometa? Ma ne abbiamo già vista una l’anno scorso!». Così quella sera mi avviai da solo a guardare dalle finestre del tetto la nuova cometa, stavolta visibile verso ovest. La vista mi tolse il fiato. Questa era una vera cometa, come si vede nei libri di testo, come la si rappresenta nei disegni: splendida, con una lunga coda luminosa e persino con la separazione ben visibile a occhio nudo tra la coda di gas, dritta nella direzione opposta al Sole, e quella di polvere, piegata lungo la sua orbita.

Hale-Bopp rimase lì per settimane, nel cielo occidentale dopo il tramonto, sopra la casa del mio vicino, quasi questa fosse la capanna di Betlemme. Che spettacolo meraviglioso, misterioso quanto stupendo. Anche i miei bambini riconobbero che questa era una cometa straordinaria, spettacolare, niente a che vedere con quella pallida macchia chiara dell’anno precedente. Prendemmo l’abitudine, ogni sera dopo il tramonto, di andare insieme a osservarla, prima che fosse ora di andare a letto; diventò la nostra compagna della sera, oggetto di tante discussioni serali a tavola e persino di storie della buonanotte. Hale-Bopp rimase per molte settimane, fino a quando, spostandosi nell’emisfero meridionale, non fu troppo bassa per essere osservata alle nostre latitudini. Pare che l’ultima volta che è passata nelle vicinanze della Terra sia stato circa 4.200 anni fa, ai tempi dei regni dei faraoni in Egitto, ma che a quell’epoca il passaggio ravvicinato al pianeta Giove ne abbia modificato fortemente l’orbita e il periodo, per cui la prossima volta che Hale-Bopp ritornerà verso la Terra dovrebbe essere dopo “soli” 2.533 anni dal passaggio che abbiamo osservato, cioè nel 4385. Questo è anche il fascino delle comete: nella maggior parte dei casi bisogna godersi il privilegio di vederle nel cielo, perché sarà un evento unico e irripetibile nell’arco di una vita umana, così breve rispetto ai lunghissimi periodi orbitali di questi astri apparentemente temporanei.

Wirtanen (1996)

Dopo gli anni drammatici ed eccitantissimi del volo di Eureca ero stato dunque assegnato alla missione Cluster, la mia prima missione come responsabile delle operazioni. Il lancio, originariamente previsto per il dicembre 1995, era stato ritardato di vari mesi, e si era arrivati al 4 giugno 1996. Sappiamo già cosa successe quel giorno, e come l’esplosione del razzo Ariane 5 che distrusse i quattro satelliti Cluster fosse risultato l’evento decisivo per farmi prendere le redini della missione Rosetta già nel novembre 1996.

La cometa che Rosetta doveva raggiungere si chiamava 46P/Wirtanen, dal nome dell’astronomo americano Carl Wirtanen, che l’aveva scoperta nel 1948. Wirtanen è una piccola cometa della famiglia delle comete di Giove, quelle comete che orbitano attorno al Sole a distanze che non superano l’orbita del pianeta gassoso gigante che domina, insieme al nostro astro centrale, il sistema solare. In effetti non è un caso che ci sia una famiglia di comete di questo tipo: queste, nel cadere verso il centro del sistema solare provenienti dalla periferia, vengono “catturate” dalle forze di gravità dei due dominatori, il Sole e Giove, e finiscono in orbite di questo tipo. Percorrono queste orbite velocemente, con periodi di qualche anno al massimo. Infatti Wirtanen ha un periodo di poco meno di cinque anni e mezzo, per cui dal 1948 era stata osservata varie volte e la sua orbita era conosciuta piuttosto bene. In questo periodo Wirtanen era passata due volte vicino al pianeta Giove, che ne aveva ulteriormente modificato l’orbita. La nuova orbita era comunque conosciuta e le previsioni per i decenni successivi erano stabili, senza ulteriori cambiamenti significativi. Però non si sapeva molto altro di questa cometa, come di tutte le altre, al momento della scelta dell’obiettivo di Rosetta. Il nucleo era naturalmente invisibile alle osservazioni dalla Terra. Solo dalle misure della sua luminosità variabile gli astronomi avevano stimato che fosse un piccolo oggetto di circa uno o due chilometri di diametro. Rosetta era decisamente una missione verso l’ignoto.

Alla fine di aprile del 1997 lasciai definitivamente la missione Cluster, che era rinata dalle ceneri dei quattro satelliti distrutti sull’Ariane 5 e si preparava a un nuovo lancio per l’anno 2000, e mi dedicai completamente alla preparazione di Rosetta. Così fu proprio nel periodo dell’apparizione della fantastica Hale-Bopp che alla fine la mia carriera professionale si ricongiunse alle comete. Era come se questi corpi celesti esercitassero un’attrazione misteriosa su di me, indipendente dalla mia volontà. Ormai non ero più parte della schiera degli appassionati osservatori delle comete. Adesso ero responsabile delle operazioni di un veicolo spaziale che avrebbe dovuto raggiungere il nucleo di una cometa e non lasciarlo mai più. Era tempo di smettere di sognare e rimboccarsi le maniche.