FORZA DELLA PERSONALITÀ

DI ALFRED POLGAR

Entrava nel caffè Griensteidl frusciante di manoscritti, avvolto in un’ondosa pellegrina, e teneva discorsi sul cristianesimo. Il caposala Heinrich dondolava la testa da avvinazzato. Il suo potere non poteva nulla contro i ritmi di quell’ospite.

La letteratura, radunatasi con amichevole zelo intorno al suo tavolino, sorrideva all’essere selvaggio. Che però già allora la allarmava. Tutta la sua natura era così profondamente anticartacea, così sdegnosa delle fatiche dello scrittoio, così sprezzante delle etichette professionali. La nitida tripartizione dell’esistenza dei letterati – vivere, conversare, scrivere – in quest’uomo, ch’era un poeta della lingua parlata, appariva sovvertita e sospesa. I saggi li buttava giù con furia, i drammi li improvvisava, la lirica la viveva. Il suo inchiostro: succo di nervi.

Non aveva un tavolo per scrivere, ma solo un tavolo itinerante per urlare. Dovunque arrivava, suscitava inquietudine, imbarazzo, arresto nel normale decorso dei più rassicuranti processi di causa ed effetto. La veemenza con cui il suo cervello sprizzava ardore e freddezza, profondità e bizzarria confondeva gli animi intorno a lui. La spumeggiante marea di trovate, immagini, battute di spirito e paradossi, che a dispetto di qualsiasi opposizione alimentavano il suo discorso, sibilava con insistenza negli orecchi dei presenti.

Gli arrivati, i grandi, si allontanavano ben presto da lui, che con la sua improduttiva pienezza svergognava la loro produttiva miseria.

I principianti, i piccoli, tenevano il vasino da notte sotto il profluvio zampillante delle sue parole.

 

 

Al tavolo dove prendeva posto non c’era che lui. E gli altri? Pubblico, figure di contorno, qualcuno che suggeriva la battuta. Ma a guadagnarci erano sempre loro.

Era una personalità di una forza e di una tensione immense, sicché bastava stargli vicino per sentirsi esaltati nel sentimento del proprio Io. Non a caso il riverbero del suo fuoco già conferiva ai volti protesi ad ascoltarlo un chiarore che mai essi avrebbero potuto trarre dalla luce interiore di cui erano in possesso. Egli si discostava talmente dal consueto che anche chi gli stava accanto si rendeva partecipe dell’illusione di essere un individuo fuori del comune, e si cullava nella dolce speranza che il destino avesse decretato anche per lui un totale distacco dalla mediocrità del mondo. Già solo per il vento che egli faceva entrando, tutti gli altri sentivano intorno a sé un’aura di ristoro e di freschezza che sgombrava ogni nebbia dalle loro menti. Travolti dalle rapide della sua ira e dei suoi entusiasmi, i compagni dell’ora avevano l’impressione di sentirsi a casa propria nei campi deserti delle grandi passioni e, seguendo gli impervi sentieri della sua eloquenza meravigliosamente stravagante, si consideravano come minimo dei turisti di lusso nel regno dello spirito.

A guadagnarci erano sempre loro, anche se gli pagavano il conto della trattoria.

 

 

Tutto in lui era speciale e sorprendente: aveva un’ottica che ingrandiva e rendeva «somme» le cose che al momento stimolavano la sua retina, mentre quelle che la lasciavano indifferente le rimpiccioliva fino a renderle «infime». Ciò che gli importava lo chiamava «sacro», ciò che non gli importava «bestiale».

Coloro che lo circondavano, docili, esprimevano giudizi altrettanto incondizionati. Da fiacche labbra spuntarono i suoi superlativi, e spiriti senza voce intonarono in falsetto il do enfatico dell’assenso e della negazione. Non era un semplice fenomeno di imitazione, ma l’inconscio tentativo degli altri di proteggersi, dietro le forme espressive del suo spirito estremo, dalla consapevolezza della propria mediocrità che lui suscitava. Le sue appassionate risposte, anche di fronte agli stimoli più insignificanti, facevano sì che gli altri si sentissero a disagio per la meschinità delle proprie reazioni: così tiepide, dimidiate, confuse e tremebonde. A questo senso di angoscia essi cercavano di sfuggire rifugiandosi nelle sue parole e nei suoi atteggiamenti. Com’era buffo vedere quegli impacciati giovanotti che allungavano i pugni al cielo e roteavano nell’estasi i loro slavati occhi da bravi ragazzi!

I suoi gesti, la sua mimica, il suo discorso, catapultati fuori senza alcuna inibizione dal suo animo commosso, recavano l’impronta di questa loro origine. Non per la loro bellezza o per la loro espressività, ma proprio in virtù di questa impronta (che sembrava avere il dono di renderli significativi dinanzi a Dio e agli uomini) essi venivano fatti propri dai suoi allievi. Il grande spettacolo della sua eccitazione era al servizio di una straordinaria vita interiore, e chi subito assumeva quel servitore e la sua livrea necessariamente era rinviato a quella vita interiore così straordinaria. Si diffuse dunque su larga scala una schiera di discepoli, clandestini sotto ogni aspetto, i quali, incapaci di un linguaggio proprio, si misero a balbettare il gergo della sua personalità. Lui dava il «tono», nel vero senso della parola. Così, per esempio, divenne una moda, guardando negli occhi la donna amata con uno sguardo rapito, sfiorarle l’abito e i capelli con un gesto da cui trapelava devozione profonda e passione selvaggia; poi far scivolare sulla sua mano una mano dolcissima, il cui tremito tradiva il pungolo potente della spinta interiore, e bisbigliare fra sé, ma in modo che lei sentisse, parole che salivano alle labbra come il soffio di un’anima traboccante di tenerezza.

Gli amici non sapevano fino a che punto egli fosse nel giusto quando, ingiustamente, reclamava come un suo possesso i loro trofei erotici.

 

 

Era un vero spettacolo quando scrittori e artisti di indiscussa autorità si sedevano al suo tavolo e sorridevano bonari all’outsider. Che misera figura ci facevano, nell’intreccio della conversazione, le loro insipide aggiunte accanto alle sue essenze! Come venivano ricacciati in un attimo, loro, i solisti, nel mucchio delle comparse!

Tutto ciò che era fisso, sicuro, confermato nel suo valore, proprio per queste caratteristiche diventava in qualche modo ridicolo accanto a lui, che era il principio del movimento fatto persona, in perpetuo conflitto con la legge della gravità spirituale, mentre la sua vita di ogni giorno, infedele a ogni patto di tranquillità, era continuamente impelagata in cocenti avventure del sentimento e del pensiero, che spesso, com’è ovvio, si rivelavano donchisciottesche.

Ogni contestazione appariva scialba accanto al violento rossore, sinistramente apoplettico negli ultimi anni, con cui egli esprimeva il suo pensiero. La sua turbinosa irrazionalità scacciava le obiezioni «ragionevoli» prima ancora che potessero raggiungerlo. Era perpetuamente in uno stato di «fervore», sempre «fuori di sé». Tutto ciò che aveva accesso nel paradiso terrestre delle sue illusioni – vivande, arte, puttane, amici – era da lui dotato di ali, e la spada fiammeggiante colpiva senza pietà.

L’appetito del suo cuore insaziabile era davvero inaudito. Mai che dicesse di no, mai che ne avesse abbastanza.

Messa accanto alla sua natura, la restante umanità assomigliava vagamente alle quinte di un teatro: colorate, ritagliate a dovere, inamidate, diligentemente fissate. A contatto col suo calore il cartone si raggrinziva tutto.

I discepoli ormai bruciati si difendevano dal pericolo impregnandosi d’amore o di sarcasmo.

 

 

Era un agitatore. Sempre in favore di altri o di altro, e dunque più che mai in favore di se stesso. In ciò gli allievi non lo imitano. Si agitano, ma evitano la via indiretta.

Lui non si risparmiava, e non era né modesto né riservato.

In un completo a quadri coi calzoni troppo corti, la cintura di pelle sportivamente allacciata intorno alla vita, senza cappello, coi sandali che sbatacchiavano sul selciato, il cordino del pince-nez largo come un metro a nastro, il bastone nodoso a forma di clava sotto il braccio, si stuzzicava i denti schiumando soliloqui lungo il Graben. «Lei si mette troppo in mostra» diceva il vigile.

«Troppo poco!» gridava il povero Peter. «Troppo poco!».

Volare era il grande anelito del suo corpo e del suo spirito.

E una cosa soprattutto offendeva profondamente il mondo intorno a lui: che non era possibile in alcun modo addomesticarlo, rabbonirlo, fissarlo a un’idea, a un amore, a un odio. Neppure al suo tavolo riservato.

C’era in lui qualcosa di Loki, creatura errabonda e indomabile che si tramuta in fiamma.

Solo che la sua instabilità e infedeltà non era un fenomeno intellettuale, bensì squisitamente erotico: esso nasceva da uno sfrenato amore sensuale per il mondo, da una sconfinata ospitalità verso la vita. Il suo cuore doveva far posto di continuo a nuovi alloggiamenti. E l’operazione non poteva finire senza sfratti e offese.

Era sempre e comunque un tiranno, un tiranno delle parole e delle verità, così come l’umore gli dettava esse entravano nelle sue grazie o venivano ricacciate nel fango, non lesinava le glorificazioni ma neppure le condanne a morte, gli attimi fuggenti li investiva di eternità, accettava imposte e tributi feudali, e irrompendo nell’harem comminava i castighi più atroci con crudeltà orientale.

Nessuno riusciva a scansarlo. Bisognava amarlo o ucciderlo a tradimento. I più prudenti fecero entrambe le cose.

 

 

Fortunatamente, nella sua impareggiabile genialità, era anche un pazzo furioso, pieno di ghiribizzi, carabattole ed eccentrico ciarpame. Per questo, nonostante tutto, si potevano trovare i punti archimedici sui quali far leva per togliersi di dosso quel senso di angoscia che suscitava la sua personalità.

Dinanzi all’eccezionale gli dèi hanno posto il patologico. A tutela del normale.

 

(1922)

Traduzione di Renata Colorni