RICORDI
Devo scrivere le mie «Memorie» per un grande giornale. Ma non possono esser definite Memorie tutte le migliaia di impressioni contenute nei miei nove libri? Ah, Lei intende ad esempio così:
C’erano una volta due fratelli belli e benestanti, che avevano un commercio all’ingrosso dove si rifornivano i contadini croati. Correva l’anno 1857. Accadde che i due eleganti fratelli partecipassero a Vienna a un ballo «esclusivo», dove due sorelle, a causa della loro bellezza, furono presentate all’arciduca Karl Ludwig. Il mattino dopo il più giovane dei fratelli chiese la mano della sorella più giovane. «Certo, mio caro signore, sarebbe una cosa splendida, poiché Lei è benestante e le nostre figlie posseggono solo la loro bellezza. Ma prima di Hermine si deve fidanzare la maggiore, la diciottenne Pauline!». Allora il fratello più giovane si recò dal fratello maggiore e gli raccontò la cosa. Il fratello maggiore disse: «Non posso essere di ostacolo alla tua felicità, Pauline oltretutto è bella quanto Hermine, oggi stesso mi fidanzerò con lei!». Devo a questo cavalleresco amor fraterno la mia presenza su questa terra! La mia mamma si chiamava Pauline.
ESAME DI MATURITÀ
Le interessa sapere che agli esami di «maturità» presso l’«Akademisches Gymnasium» di Vienna, per il mio tema: «In che senso l’Ifigenia di Goethe è un dramma tedesco?!», ottenni la valutazione: «del tutto insufficiente»? Spero proprio che non creda che oggi, a distanza di quarant’anni, non sarei bocciato sullo stesso tema! Gli altri, i miei degni, in realtà indegni colleghi, avevano semplicemente preso nota di tutto ciò che sull’argomento era stato loro letto durante la terza liceo! Io invece non stavo mai a sentire. Poiché l’Ifigenia mi piaceva veramente, ma non mi interessava affatto «in che senso». Sei mesi dopo dovetti ripetere l’esame presso il «Theresianisches Gymnasium».
Il tema del «Compito di tedesco» suonava questa volta: «Influsso della scoperta dell’America sulla cultura europea». Dopo aver riflettuto a lungo scrissi la seguente importante parola: Patate!
Una cosa è strana: perché mai si pretendono da cervelli diciotto-diciannovenni, fra l’altro emozionati per via dell’esame, delle prestazioni che neanche i tranquilli cervelli dei quarantenni sarebbero in grado di realizzare con facilità?!? Perché meravigliarsi se in queste circostanze si diventa poeti per disperazione?! Così, almeno, nessuno ci domanda di sapere qualcosa di «concreto».
LA FANCIULLEZZA
Quando avevo otto anni e ricevevo un’«istruzione privata», fu detto ai miei genitori che per la mia «formazione» era necessario che fossi istruito in una scuola pubblica! Mi mandarono perciò alla «Hermanns-Schule», Schulerstrasse. Non capivo neanche una parola di quel che si diceva in classe. Otto giorni dopo prendevo di nuovo lezioni «private». D’altra parte, in tutta la mia vita non ho mai capito una parola di quel che mi è stato insegnato nelle scuole pubbliche. Era un fatto per me «patologico». Ne ebbi la prova al liceo, dove tutto mi sembrava incomprensibile. Lo stesso all’Università. Soprattutto, ogni cosa mi appariva inutilmente complicata. Volevo «la vita direttamente, non per erudite vie traverse»! A Stoccarda, nella Hofbuchhandlung,95 mi ero messo in testa di imparare teoricamente in tre mesi ciò che «i commessi» non imparano neanche in cinque anni! Mi si diceva: «La pratica verrà!». Non appresi né la teoria né la pratica. Era un lavoro noioso e deleterio per lo spirito, benché quanto meno avessimo a che fare coi «valori spirituali». Scappai da Stoccarda con del denaro preso a prestito e ritenni più stimolante fermarmi a «Reichenau presso Payerbach, Hotel Thalhof». Lì c’era un bosco autunnale, muschio umido, nebbia di montagna e di notte il gorgogliare della fontanina. Non rimpiangevo affatto «il lavoro», mio padre disse di non sapere a cosa mirassi, ma che non erano affari suoi. Io miravo alle malghe dello Schneeberg. A cosa mirano gli altri? Puah!
IL PRECETTORE
Avevo un precettore che ammiravo fanaticamente, l’attuale professore di oculistica L.K. Mia sorella Marie, più giovane di me di due anni, dunque decenne, aveva una governante svizzera, Amelie Leutzinger. Vivemmo dunque per tre anni in un vero paradiso spirituale; non invidiavamo nessuno, poiché ci sentivamo pienamente soddisfatti dei rapporti che si erano instaurati nella nostra famiglia. A un tratto la mamma credette di capire che il precettore e la governante non si fossero reciprocamente indifferenti. Sebbene mia sorella ed io avessimo già da tempo constatato la cosa e ce ne rallegrassimo, considerandola un legame che avrebbe rafforzato la compagine familiare, la mamma, che era di una generazione più anziana e più piena di pregiudizi, manifestò un parere diverso, più scettico, e un giorno, prendendo un pretesto qualsiasi, disse con ostentazione al mio amato precettore: «Lei deve dedicarsi esclusivamente, dico esclusivamente, all’amicizia con mio figlio, ha capito?».
Egli capì e si licenziò.
Di conseguenza mia sorella ed io rifiutammo il cibo per tre giorni. Il quarto giorno il precettore ritirò le ‘dimissioni’ e Amelie Leutzinger ritornò volontariamente in Svizzera. Mio padre disse allora alla mamma: «Pauline, ti prego, non immischiarti più in faccende così delicate che riguardano i nostri figli!».
MIO PADRE
Mio padre era, senza confronti, l’uomo più buono del mondo. Risultava addirittura incomprensibile ai più, paragonato al resto dei comuni mortali si può dire che il suo amore per la giustizia avesse un che di patologico e decisamente provocatorio. Per esempio difendeva sempre il suo personale, i suoi domestici e anche gente che gli era del tutto estranea da qualsiasi attacco, anche solo verbale. Diceva: «Per favore, lasciamo stare. Lei non sa con precisione come stanno le cose; perché discuterne, dunque?!». La mamma diceva spesso: «Papà, sappiamo bene che Victor Hugo è il tuo idolo, ma tu sei monotono e noioso col tuo eterno amore per la giustizia; quando si sparla di qualcuno, mica si fa sul serio, è solo un modo di rompere la monotonia!».
Di fronte a simili opinioni mio padre si imbarazzava moltissimo e si limitava a rispondere risoluto: «Va bene, fatelo pure, ma non in mia presenza!». D’estate viveva travestito da «taglialegna» nella capanna di caccia sul «Lakaboden», una malga sotto lo Schneeberg. Si alzava alle quattro, preparava le frittelle di patate e se ne andava a osservare i fagiani di montagna impegnati nelle loro danze amorose. Mai che l’accompagnasse un cacciatore. «Sparare su di loro, puah, non sono così aristocratico, godo della loro bella vita!».
Una volta gli diedero venti corone perché portasse un bagaglio su al «Baumgartnerhaus». Lo avevano scambiato per un «vero» taglialegna, furono i soldi più belli di tutta la sua vita! Mi amava in modo particolare, ma come molti, moltissimi altri purtroppo non capiva neanche un parola dei miei Schizzi! Diceva: che uomo quel Victor Hugo! Les Travailleurs de la mer, che fantasia. Les misérables, che tensione ed emozione, 1813, che storia, Han d’Islande, che catastrofe! Tu invece, appena cominci già sei alla fine! Di che si tratta?! Non si capisce. Mi dispiace, con queste cose non riuscirò mai a familiarizzarmi! Ci guadagni almeno qualcosa?!».
Era l’uomo migliore, più ingenuo, più semplice, più tenero, più giusto, più inconsapevolmente filosofo di un mondo che non capì mai. Perciò si ritirava nella sua comoda poltrona di velluto rosso, regolabile da ogni parte con geniali viti, concentrava la sua felicità su «sigari scelti Trabuco» e non infastidiva nessuno con i suoi problemi personali. Era un «saggio» e un «santo». Dal canto mio non ho mai avuto sentimenti filiali convenzionali nei suoi confronti, ma ho sempre saputo che era un uomo di grandissima «saggezza», addirittura un «santo» in questo mondo corrotto. Morì dolcemente, senza malattie, all’età di ottantasei anni.
PRIMO AMORE
Il mio «primo amore» fu Rosie Mischischek, dodici anni, mia coetanea. Giocavamo ogni giorno a «nascondino» sulle scale del tempio di Teseo nel Volksgarten. La domenica lei portava un abito di seta verde ornato di sottili nastri di velluto nero, aveva spalle nude dritte e tondeggianti, riccioli sciolti, insomma era perfetta. Quando lei credeva di aver trovato un buon nascondiglio dietro le colonne, io facevo finta di non vederla e le passavo davanti, rischiando così di passare per uno stupido!
Per me, allora, la sua felicità era tutto.
Una sera la mia meravigliosa mamma mi udì piangere e singhiozzare nel letto.
«Cosa succede?!».
«Rosie Mischischek non mi ha dato la mano quando è andata via!». Se ne parlò in giro. La signora Mischischek rimproverò dolcemente la figlioletta: «C’è qualcuno che s’interessa seriamente a te e tu non gli dai neanche la manina quando vai via dal tempio di Teseo?!».
Il giorno dopo, nonostante fosse un qualsiasi giorno feriale, Rosie aveva l’abito di seta verde coi sottili nastri di velluto nero, spalle dritte e tondeggianti, riccioli sciolti e il suo solito dolce visino di gatto selvatico.
«Ti sei lamentato con mia madre perché ieri, andando via, non ti ho dato la mano?! Eccotela oggi due volte, che valga anche per domani se per caso me ne dimenticassi, sei proprio uno stupido!».
Aveva un aspetto meravigliosamente eccitato, una piccola furia, ancora più graziosa e attraente del solito. Disse: «Con te non giocherò mai più a nascondino, lo fai apposta a passarmi davanti, anche se sono sicura che mi hai vista benissimo! Credi che questo mi diverta? Sei proprio un ragazzino stupido! Vattene, e spettegola pure con chi ti pare!».
Così finì il mio «primo, tenerissimo, delicatissimo amore» a dodici anni. Tutti quelli che vennero dopo furono simili a questo! No, più brutti, più mortificanti.
IL CONCERTO IN CASA
Al compleanno di mio padre suonai per lui alcuni «pezzi classici» di Gluck, Haydn, Bach, Händel o che so io (mi accompagnava al pianoforte il mio maestro amatissimo Rudolf Zöllner, all’epoca secondo violino nell’orchestra dell’opera di Corte, più tardi popolarissimo borgomastro di Baden presso Vienna). Avevo un dolce e meraviglioso tocco, un’espressione nobilmente musicale, ma tecnica zero, no, tecnica non ne avevo affatto. Il mio amato maestro diceva di me: «Un genio senza capacità! Gli manca proprio ciò che ci vuole nella vita, peccato, nessuno lo apprezzerà mai! Sebbene sia migliore di tanti altri!». In seguito a questo concerto casalingo il mio ideale padre, il mio commovente ideale padre, mi comprò per seicento corone un «Peter Guarnerius» originale, che cantava per così dire da sé, esultava, piangeva, anche a suonarvi su soltanto la scala di do maggiore!
Un giorno Georg, il mio fratello minore, tornò a casa dal liceo proprio mentre cercavo di superare le difficoltà di alcuni esercizi di Kreutzen. Mi disse in tono rilassato: «Per le tue grattate sarebbe bastato anche un violino comprato al mercato per quaranta corone!».
Dopo questa dichiarazione offensiva e immotivata io sbattei il «Peter Guarnerius», 600 corone, sul suo nudo cranio da liceale. Purtroppo non fu quest’ultimo ad andare in frantumi, ma il violino. A tavola mio padre disse: «Bah, se preferisce continuare a suonare su un violino comprato al mercato! In fondo l’avevo fatto nel suo interesse. Ma tu, Georg, perché vai a stuzzicare un tipo così esaltato? Lascia che vada per la sua strada, vedrai che la troverà, almeno lo spero! È vero che è mio figlio, ma non per questo mi sento responsabile».
COME DIVENNI «SCRITTORE»
Nell’estate del 1894 a Gmunden mi seguivano adoranti due graziose fanciulle, di nove e undici anni. Alla fine di settembre la famiglia ripartì per Vienna. Nella notte del lacrimoso distacco da Alice e Auguste, scrissi, a 35 anni, il primo schizzo della mia vita, intitolato «Nove e undici», primo schizzo del mio primo libro Il mio modo di vedere. A diciassette anni Alice, la maggiore, fu colpita nella Kärntnerstrasse da un’emorragia cerebrale. Morì di lì a poco senza soffrire. Mentre tornavamo a casa dopo il suo funerale la madre disse: «Forse abbiamo preso troppo poco sul serio la sua infatuazione per il nostro caro poeta!».
«Non essere la solita eccentrica, Betty!» disse il padre. «Quante volte devo dirti che queste cose non bisogna neanche prenderle in considerazione!».
UN GIORNALE «DI
PRIM’ORDINE»
RIFIUTA UNA DOMANDA DI ASSUNZIONE
Come me l’immagino io:
«Mio caro Peter Altenberg, sono molto lieto di conoscerla finalmente anche di persona! Come si chiamava il suo ultimo libro che mi ha fatto divertire un mondo?! Semmering?!?».
«No, signor redattore capo, si chiamava Spigolatura, del 1916, Semmering è del 1912».
«Spigolatura?! Che strano nome è mai questo?! Ah già, il suo ultimo libro, è vero, delizioso! Lei resta sempre il filosofo del quotidiano, capace di ridere e piangere al tempo stesso!».
«Di sorridere e sospirare al tempo stesso, signor redattore capo!».
«Dunque, come immagina un suo eventuale rapporto di lavoro col nostro giornale?! Danton, Marat, Robespierre improvvisamente con la camicia di forza?!?».
«Potrei avere una piccola rubrica neutrale!?».
«In che tipo di rubrica si inserirebbe?! Il nostro giornale non è letto solo dai Peter Altenberg! D’altra parte, pretendere da lei delle concessioni sarebbe addirittura un delitto contro l’arte. Mi ritiene davvero capace di un simile delitto?!?».
«Certamente no, signor redattore capo!».
«Dunque! Lei è un Diogene con pretese moderne! Una botte, che sia al contempo una chaiselongue, oggidì detta, “sedia a dondolo”! Quella proprio non esiste. Eppure, mi creda, non pochi di noi le invidiano in segreto la sua botte, sebbene, com’è ovvio, nessuno vorrebbe viverci dentro!».
*
Morale di questa favola:
Non c’è nulla di peggio a questo mondo, che essere invidiati per qualcosa che persino chi ci invidia non vorrebbe possedere a nessun costo!
I CONCIATETTI
Pur non essendosi mai «arruolati», in realtà sono «arruolati» a vita, anche quando regna la pace più stabile e duratura riparano tetti pericolanti e grondaie in cattivo stato, si esibiscono dalla mattina alla sera in straordinarie acrobazie, che fanno venire il capogiro allo spettatore della finestra di fronte che non paga nulla, e però si produce in stupide sentenze a buon mercato: «Come si fa a scegliersi un mestiere così pericoloso? Terribile!». Mi chiederete come mai non lavorano con le «cinture di sicurezza»?! Perché uomini che dai quindici ai sessant’anni vanno a passeggio sulle grondaie rotte per guadagnar denaro, diventano dei fatalisti e da tempo si sono familiarizzati con la semplice idea che la vita intera è sempre e comunque legata a un filo sottile! Quale sia questo filo gli è del tutto indifferente. Ci sono scrittori che in una simile circostanza descriverebbero la poesia di un vecchio tetto, la splendida varietà dei suoi colori. Lungi da me quest’idea, è una poesia che non vedo. Poiché avevo intenzione di invidiarli anziché far sfoggio di sentimentalismo e commiserazione, urlai ai conciatetti di fronte alla mia finestra: «Quanto guadagnate?!».
«Una corona all’ora, vale a dire nove corone al giorno! Ma lei, signor curioso, ci paghi piuttosto cinque litri di birra: lei che si aggira comodamente nel suo studio e certo non rinuncia al bere!».
«Guadagno forse una corona all’ora, io? Io faccio lo scrittore!?».
«Ma perché si è andato a scegliere un mestiere così insulso?! E già, non si rischia nulla!».
L’UROGALLO
La passione per la caccia è la più grande, la più orribile, la più inesplicabile delle innumerevoli follie umane! Ti piacerebbe, o cacciatore, se il giorno delle tue nozze una «forza superiore» si appostasse in un angolino, e proprio nell’attimo in cui hai «fortuna» con la tua «gallina», pardon, con la tua sposa, ti abbattesse a fucilate?! A che ti giova che i filosofi, che capiscono tutto, e dunque nulla, dicano che quella è la morte «più bella»?! È sperabile che tu non sottoscriva quel giudizio, ma preferisca, proprio in quell’attimo, vivere ancora un po’.
Anch’io a Reichenau, nei boschi dello Schneeberg, ho spesso spiato e ammirato l’accoppiarsi di urogalli e fagiani di monte. Ero invero stupito che si potesse essere così appassionatamente «in amore» per delle donne, pardon, galline, ma non mi è mai venuto in mente di abbattere a fucilate il gallo, probabilmente già impazzito, proprio l’attimo prima che avesse raggiunto il suo intento (altro che intento!). Come si può eliminare dal mondo qualcuno proprio nel bel mezzo della sua occupazione preferita?! Si aspetti almeno che abbia «finito»! Dopo, secondo la sua errata opinione, la vita non avrà più nulla di desiderabile da offrirgli! E potrà morire tranquillo!
GIORNO DI MAGGIO
27 maggio 1916. Guerra mondiale. Annientiamo i perfidi italiani coi nostri mortai da 35 centimetri. A Vienna una giornata calda, bollente, afosa. Persino le ascelle delle più curate e graziose viennesi sudano e bagnano le bluse delicate. Niente male! Ah, se restasse sempre estate! Le piante nelle stanze devono essere innaffiate abbondantemente e di continuo, i monelli dormono seminudi sul selciato agli angoli delle case. Ciò che resta sempre uguale, incurante delle temperature, è la gelosia. «Perché ieri hai sorriso al Signor G., perché, perché, perché?!». Basta coi «perché». Eppure è una cosa che si dice in inverno, in primavera, in estate, in autunno!
Le differenze di temperatura non contano!
I fiori languono, i cani sono in cerca di acqua, ma l’amante dice: «Anna, Anna, Anna, perché mi hai fatto questo, come hai potuto farmi una cosa simile?!».
27 maggio 1916, guerra mondiale, 24 gradi della scala Reaumur, annientiamo gli italiani in Val Sugana. Ma l’amante non sente la calura e dice: «Anna, Anna, come hai potuto sorridere così al signor W.v.G. al momento del commiato?!».
SECONDO GIORNO DI VISITA
Viene – – non viene – – viene – – non viene – – viene.
È mezzogiorno. Deve venire verso mezzogiorno.
Illuminazione festosa dello spiazzo esterno: un grigio giorno di ottobre balugina attraverso le tendine brune à jour.
Sento il fruscio dell’ascensore (il nostro fa un leggero fruscio, come vento di tempesta lontano sulle cime degli alberi) –
Viene. È un fattorino per la signora della porta accanto.
Non viene.
Aggiusto i cardi marrone nei vasi blu. La mia cameretta è infatti marrone e blu.
Durante la prima visita lei disse: «Probabilmente i suoi colori preferiti?! I miei sono verde pisello e grigio tortora!».
Io risposi: «Se i miei non fossero blu e marrone, sceglierei grigio tortora e verde pisello!».
L’ascensore sale frusciando. Si ferma al terzo piano.
È l’una.
Viene – – non viene – – non viene – – non – – viene.
RELIGIONE
«Umiltà cristiana e dedizione» non si possono assolutamente ottenere con la forza a questo mondo; è una questione che riguarda le geniali forze nervose ricevute fortuitamente in eredità dai genitori e dagli avi! In queste cose non c’è «filosofia» né «decoro» che tenga! Se lascio il mio pane imburrato a uno ancora più affamato di me è «destino della mia forza nervosa», cioè una cosa semplicissima, se mi sazia di più che lo mangi lui anziché io! Di questa specie di «autentico cristianesimo» non si può né parlare né scrivere in pubblico in maniera naturale; poiché un uomo su tre e tutte le donne si sentirebbero sensibilmente colpiti, e soprattutto feriti, offesi! «Autentico cristianesimo» significa fare un affare, l’unico giusto su questa terra. L’affare per cui si dimostra che rendere un servizio vitale a un altro è cosa più felice, più preziosa che renderlo a se stessi! Io non invidio nessuno per il suo «egoismo apparentemente ben calcolato». Per me l’egoismo è sempre «mal calcolato».
Contabilità sui destini altrui: Peter Altenberg, Wien I, Grabenhotel.
Chi sbaglia i calcoli nelle «cose dell’anima», in qualche modo, una volta o l’altra, finirà tragicamente! Il Salvatore non è morto invano per l’umanità gemendo sulla croce, Egli sapeva per cosa moriva! Guai agli uomini che considerano il proprio benessere più importante di quello di milioni di uomini diseredati ed esclusi! Essetai Hémar, giorno verrà, spunterà il giorno in cui noi «diseredati» diventeremo l’unica guida!!! Possa al più presto «sorgere il giorno» nella notte buia della odierna cosiddetta umanità!
L’ANIMA
Anima dell’uomo,
puoi crescere solo attraverso il dolore,
approfondirti, rafforzarti, prosperare
addirittura «a tuo modo» profittare!
Perché dunque ti opponi al tuo dolore,
che ti porta solo fortuna e umanità?!
Prova a osservare bene le anime senza dolore!
Sono anime disseccate, senza rugiada di lacrime!
La fame fa male, ma l’«esser sazio» fa forse
più male ancora alla tua interiore umanità!
Dimmi, o fanciulla, siamo mai stati più vicini
del giorno in cui io dovetti partire?!?
Non mi conoscesti ad un tratto per intero solo
per la consapevolezza di quel che perdevi?!?
Sapevi veramente, fino allora, chi io fossi,
cosa fossi per te, o fanciulla?!
Immaginavi la mia indispensabilità?!
E, d’altra parte, non è forse chiarificatore
essere salvati, tirati fuori
col dolore dalle bugie della vita che ci si è fabbricati da sé,
essere liberati, guadagnati a una
nuova e migliore, no, per te più giusta esistenza?!?
Questo eterno, vile desiderio di
non perdere
a tutti i costi il proprio equilibrio interiore ed esteriore,
è il marchio d’infamia del filisteo di quaggiù!
Per la sua quiete egli sacrifica il suo Io.
Poiché solo dalla inquietudine il male può
eventualmente trasformarsi in meglio!
Non ditemi nulla, per favore, della sanità e dell’importanza
di «risparmiare le energie».
No, metabolismo in virtù del quale tu, per grazia del destino,
finalmente mobile, voli dalle tue anguste, grigie,
ammuffite spoglie nella luce della verità!
Diogene può restare com’è, e così pure Socrate.
Ma voi altri, milioni di uomini, affrettatevi a passare
dalle vostre spoglie di stracci e menzogne
al caldo sole della verità!
E se pure in questo tentativo rimarrete senza forze per la strada,
data la vostra inerzia conservatrice e impudica, questa sarà comunque una sorta di vittoria!
BONARIETÀ
Tutti gli uomini sono bonari, e con ciò intendo più bonari di me, poiché è così che si giudica ogni cosa, dal proprio punto di vista. Perciò potrei anche dire: essi sono più stupidi, più limitati di me. Come si può essere bonari quando si è sufficientemente intelligenti?! Come è possibile giustificare, ignorare, considerare ovvie delle idiozie che accadono intorno a noi mentre non dovrebbero affatto accadere?! È questa la bonarietà?! No, è stupidità o pigrizia, o mancanza d’interesse, dunque egoismo! Bonarietà è dunque o stupidità o indifferenza nei riguardi di avvenimenti estranei, dunque sfacciato egoismo. L’uomo sagace non è mai bonario, tutto lo irrita come se si trattasse della sua stessa felicità! Bonario è solo il misantropo, quello che volentieri e pacatamente sta a vedere come tutto intorno a lui va a catafascio e non porta nessun aiuto, per pura bonarietà. Spudorati, vili egoisti sono coloro che assistono con vile e distinta correttezza alla baraonda di questa esistenza senza mai tentare di fare ordine nel caos! Essi sono per così dire troppo ben educati per strillare e ribellarsi! Le loro «buone maniere» derivano da un vile affaruccio stipulato con la ruvida esistenza!
IL VILLAGGIO ALTENBERG
Oggi, a distanza di trent’anni, sono stato nel piccolo, caro villaggio «Altenberg» sul Danubio. Si chiama così da me, o io da lui, fa lo stesso!96 I cespugli di salici e di betulle sono diventati boschi, e non si nuota più nel «libero, grande, ampio Danubio», ma nelle incantevoli «pozze morte». Dov’è Emma, dov’è Bertha, dov’è Hilda, dov’è Elsa?! Già, Emma, memore della sua leggiadra fanciullezza e con l’aiuto del suo celebre marito (il consigliere aulico professor Adolf Lorenz) s’è costruita, ad un passo da quelle amene «pozze» del Danubio, un magnifico castello con un luminoso belvedere che si erge al di sopra dei prati lungo il fiume. La sera un’aria fresca e umida spira dalle colline. Svaniti sono i sogni di una volta. Tutti, tutti hanno trovato un rifugio da qualche parte, solo io non mi sono salvato. Faccio una gita nella campagna dei miei sogni di gioventù, e osservo che i salici e le betulle son diventati col tempo folti boschi!
LA MENDICANTE
Oggi, 3 agosto 1916, alle dieci e mezza di mattina, all’angolo della mia strada ho parlato con una giovane mendicante, che io, in condizioni diverse, per esempio assicurandole aria di campagna e amorevoli cure, potrei trasformare in un mese e mezzo in una donna stupenda. Aveva in braccio una figlioletta addormentata di quattro anni, una bimba meravigliosamente tenera, dalla pelle bianca e splendente. Regalai alla donna venti centesimi. Più tardi lei disse: «In fondo non me la passo male, mio marito è in manicomio e i miei quattro figli sono sistemati al nido d’infanzia, il pranzo se lo portano da casa, ma la sera dormono con me. Io vado a lavare ‘a domicilio’, guadagno cinque corone al giorno più il vitto. Ma il venerdì, giorno d’accattonaggio, mi metto lì e non lavoro, poiché la mia piccola Johanna è talmente bella che il mendicare mi rende di più che le cinque corone più il vitto. Così piccola la mia bella bambina già si ‘guadagna la vita’!».
DON JUAN
C’è un solo tipo di «uomo» che non capisce nulla, non può capire nulla dei dettagli estetici e psicologici di una donna (che sono poi la sola cosa importante in lei)! È il «conquistatore facile», il «conquistatore senza alcun motivo», l’uomo che ha il misterioso potere di attrarre le donne di per sé, come la calamita il ferro. Egli non le osserva, mai le donne lo commuovono, nessun dettaglio ideale e delicato del loro corpo misterioso lo interessa, né dita, né mani, e neppure piedi e dita dei piedi, né capezzoli, ideali e non; per lui fa tutto lo stesso, sono dettagli che non vede! Grazia del camminare, del sedersi, gli sono del tutto indifferenti, egli si pasce della propria forza spontanea, una forza che possiede per disgrazia del destino.
Solo l’uomo che la donna non vuole avere per un qualsiasi motivo, sia esso plausibile o misterioso, può comprenderla nella sofferenza, capirla, apprezzarla, e anche disprezzarla e detestarla. Ma sono proprio tutte queste cose insieme che fanno la donna!
Al conquistatore facile sfugge la poesia, il romanticismo, in una parola il dolore. Egli non può mai e poi mai essere felice o anche solo in qualche modo soddisfatto. Non gli si lascia tempo per questo sviluppo assolutamente lento ed esitante. Vince immediatamente, puah! Dunque non vince affatto.
IL PARCO MUNICIPALE
Lei disse: «Il parco municipale è bello soprattutto di notte: aria fresca, magnifica, e niente gente!».
Lui rispose: «Provi a godere dello splendido parco durante il giorno, goda dei singoli alberi e dei magnifici cespugli, in tutti i dettagli del loro mistero!».
Lei replicò: «Per questo ho troppo poco senso realistico! Io non ho bisogno delle cose chiare, singole, la mia anima ha bisogno del cupo romanticismo, dell’indistinta, enigmatica oscurità!».
«In una parola, lei è un’oca!».
A SESSANT’ANNI
Carpe horam, cogli l’ora che ti è in qualche modo propizia! Frank Wedekind, un uomo assai poco chiaro, uno «stupido ma furbissimo e rivoluzionario pagliaccio da circo» (qualche rotella o rotellina del suo cervello era fuori posto, come nella maggior parte degli uomini, nei giocatori, negli scommettitori, nei bevitori, negli amanti che si presumono infelici, negli scialacquatori, negli asceti, nei calcolatori cauti e fin troppo morigerati, nei vanitosi, nei superbi, negli idioti megalomani eccetera, eccetera, eccetera, oltre che nei presuntuosi). Comunque un cervello lineare, perfettamente dritto, limpido, lui davvero non ce l’aveva. Tuttavia proprio ciò veniva erroneamente indicato come la sua genialità. Come definire allora Emil Zola, Victor Hugo, Knut Hamsun, August Strindberg?! Io sono un istantaneo, brevissimo impressionista, questo è il mio decoroso, ben meritato titolo onorifico. Al quale ho diritto ormai da vent’anni. Ciò nonostante Frank Wedekind è morto a cinquantaquattro anni, Gustav Klimt a cinquantacinque, io avevo dunque innanzitutto quattro lunghi anni più di loro, quattro anni di esperienza, di sofferenze. Ma come ho utilizzato questa proroga di vita concessami per grazia o disgrazia del destino?! Diedi in sposa la mia sacra, bionda amica con meravigliose gambe da adolescente a uno dei miei più grandi ammiratori e conoscitori, il melanconico medico militare dottor D., che era stato prigioniero per un anno in una cella d’isolamento in Siberia. Grazie a un proprietario terriero boemo che acquistò i due manoscritti di Fechsung e Nachfechsung [Raccolto e Spigolatura] per 500 corone l’uno, passai tre mesi, il luglio, l’agosto e il settembre del 1916 in uno stato di beato «stordimento». Imparai moltissime cose, come un gran viaggiatore in miniatura, ma in modo mille volte più utile, più comodo, più conveniente, come chi non perde mai un treno e mai viene strappato al mattino per un motivo qualsiasi al suo sacro sonno per essere immesso nella idiota, molesta, inutile, presumibilmente attraente vita quotidiana; insensibile al massimo, poiché perdura nel cervello paralizzato il «Sonno», morte rigeneratrice, nel 1916 imparai dunque a conoscere perfettamente il Gaflenzbach, l’Enns, il Lepoldsteiner See e Eisenerz, dove una montagna ferrifera viene lentamente e abilmente sfruttata, per sparare col ricavato su milioni di uomini e storpiarli, dato che i morti ormai sono morti. Quando rientrai a Vienna ebbi una delle mie più fatali crisi di nervi, per due mesi non lasciai la mia stanzetta. Sepolto vivo, peggio dunque che Frank Wedekind e Gustav Klimt. Poiché purtroppo avevo ancora il ricordo del «beato stordimento». Nel 1918, davanti alla porta del mio albergo, alle 11,30 di notte, scivolai coi sandali di legno consunti sulla scala di pietra mal ripulita dal sapone e, cadendo all’indietro, mi fratturai tutti e due i polsi. In conseguenza di ciò ricorsi per disperazione al mio amato, sacro sonnifero (è un mezzo assolutamente ristoratore, che garantisce un sonno profondo di dieci ore e non dà alcuna assuefazione a patto che la sera, quando già si è a letto, pronti a dormire, si butti giù in fretta un bicchierino di liquore e subito dopo si chiudano gli occhi). Io però di bicchierini ne buttavo giù venti. Che colpa ha questo sonnifero liberatore, rigeneratore, della mia malinconica follia?!? Vi consiglio con urgenza, o insonni, un bicchierino di liquore! Dopo cinque mesi di tremenda prigionia, ad aprile liberazione completa, anzi, più che completa rigenerazione, una nuova elasticità giovanile, sicché ad ottobre decido di diventare partner di danza di Grethe Wiesenthal da «Ronacher». Il 9 marzo 1919 compirò sessant’anni. Ma se vedo i cosiddetti partner moderni delle ballerine moderne, posso solo, a ragione, sorridere di scherno! Soprattutto c’è in loro una mancanza assoluta di grazia, bisogna infatti sapersi piegare con movenze maschili e femminili ad un tempo!
Frank Wedekind è morto prematuramente a cinquantaquattro anni, Gustav Klimt a cinquantacinque, io ne ho cinquantanove e sono ancora vivo.
Ecco perciò la mia tesi d’ora in avanti: Carpe horam, cogli l’ora che, incomprensibilmente, ti è ancora concessa per grazia del destino!
WERTHER
Che il delicato Werther sia andato in rovina a causa della nobile incantevole Lotte, lo sapete tutti. Ma forse non conoscete un piccolissimo episodio: Una giovane signora che otteneva dal marito troppo poco denaro per il bilancio familiare, si ingegnava a rendergli la vita più confortevole mettendo di tanto in tanto mano alla borsa di lui senza farsene accorgere. Quando fu sul punto di morire, confessò al marito questa mancanza, non certo per scrupolo di coscienza, ma: «Venerato marito, molto probabilmente presto ti prenderai un’altra donna perché si occupi delle faccende domestiche, e non vorrei che tu pensassi di lei che attende al governo della casa in modo più disattento e più dispendioso di me!».
ENERGIE VITALI
Dunque, nel tuo sessantesimo anno di vita, 9 marzo 1918,
sei giunto all’esaurimento di tutte le tue energie vitali. Peccato.
Avresti tante cose importanti da comunicare agli altri,
poiché la tua vita privata è spaventosamente priva di valore.
Questa non è una frase fatta, né una posa,
potrei provarlo, ma a che pro?!?
Ho sempre avuto la sensazione di poter aiutare gli estranei, gli altri, quelli che sono lontani,
e spesso li ho aiutati, con grandissima gioia. È il mio più segreto tesoro dell’anima. Perciò sono un ricco!
Ora però, con mia profondissima tristezza, anzi, con mia disperazione,
il donare comincia a venir meno. Ed io sono io.
Come tutti riprendo a poco a poco il mio lento, squallido tran tran nella massa.
C’è in me una incommensurabile disperazione, perché non posso più aiutare nessuno veramente, seriamente, onestamente, amorevolmente!
Mi trascino barcollando come una persona qualunque, io, il poeta, l’idealista; il sognante soccorritore, colui che è disposto ad aiutare è morto; per un motivo o per l’altro, la vecchiaia mi stringe l’anima, la strangola!
Peter, rinuncia per tempo alla vera forza della tua felicità: illuminare gli altri!
Scendi nelle tombe, le tombe scure e desolate della vecchiaia, che nulla può per gli altri!
e limitati finalmente ad andare per la tua strada,
come fanno tutti, ad eccezione dei geni, che sono capaci di soffrire per gli altri!
La vecchiaia si avvicina a te strisciando,
perfidamente e senza farsi scorgere
ti carpisce ad un tratto la tua nobile capacità
di aiutare gli altri, di servirli.
Ravvediti, Peter, e cedi alla
vecchiaia, che finalmente ti vince secondo natura.
Nessuno immaginerà le tue pene, che hanno momentaneamente de-idealizzato, o meglio evirato il «Senile». Sopporta il tuo destino!
Altri soffrono sicuramente più di te, molto, molto, molto di più, e sopportano senza protestare il proprio destino.
Percorri la strada che tutti devono percorrere, non si può certo restare eternamente giovani e battaglieri, viene il giorno in cui mancano le forze. Rassegnati! È quanto di più ragionevole tu possa fare! Rassegnati al destino inesorabile! Hai vissuto in parte la vita di un saggio,
e la natura ti ha elargito gran parte del suo splendore!
Come mai ti lamenti dunque per la tua fine naturale, che colpisce tutti gli altri più duramente?
Dal momento che gli altri ripensano avviliti, depressi, delusi e vinti alla propria esistenza fallita? E non sanno perché sono esistiti?!
Tu, finché hai potuto,
hai agito con gioia ed efficacia.
IL MALATO
Lasciò spalancate di proposito entrambe le porte, quella tappezzata di verde e quella bianca, nel caso che qualche curioso volesse fargli una visita. Ma naturalmente non venne nessuno. Nella strada si udivano dei rumori spiacevoli e del tutto superflui, ma nella camera del malato regnava il silenzio più assoluto. Persino le finestre spalancate erano come inchiodate alla tappezzeria blu. Ogni tanto passava, affaccendata e apparentemente spensierata, la giovanissima cameriera. Queste strane persone non pensano mai e poi mai alle ore angosciose, noiose, insignificanti che le aspettano e tanto meno all’ultima ora. Quando verrà verrà, un eroismo idiota. Il malato, invece, percepisce tutto con una sensibilità due, tre, mille volte più acuta. Non comprende affatto come, in circostanze certe o incerte, si possa vivere alla giornata. Sente il ridicolo, terribile e inutile peso dell’essere, dell’esistere di per sé, come un animale da soma sovraccarico per il quale ogni passo costituisce un tormento particolare. A che pro ambizione, invidia, amore?! Mentre era immerso in questi pensieri – e quale malato solitario non si scava per così dire la fossa da sé a furia di lambiccarsi il cervello per mancanza di energie vitali – passò la giovanissima e spensierata cameriera, carica dei suoi mille doveri di cui, almeno apparentemente, neanche si rendeva conto, una giovane allodola che lavorava sodo, inconsapevole della sua sorte! Passò agilmente canticchiando, ignara della guerra mondiale e di tutti gli altri spaventosi affanni di questa malinconica esistenza. Il malato giaceva lì, mille miglia lontano dalle tetre preoccupazioni dell’inutile e fastidiosa esistenza, e non capiva come possano esistere degli uomini che, rassegnati al proprio destino, canticchiano allegramente come se questa complicata esistenza fosse priva di difficoltà e complicazioni! Il malato giaceva lì, mille miglia lontano dalle preoccupazioni di tutti gli altri – – –.
IL SANO
E se la sera perde al gioco il suo povero-ricco denaro, non gliene importa niente, neppure se ne accorge. Egli è misteriosamente immune dalle tragedie quotidiane di questa pericolosa vita d’ogni giorno. Nulla lo distrugge, al contrario di quanto accade a noi. Possiede una orribile, patologica caparbietà vitale. Schiacciagli il cranio, che in verità non possiede, e vedrai che lui non se ne accorgerà neanche. La sua salute è un delitto contro la sua umanità. Tutto si allontana da lui in modo assolutamente inumano. Egli vive invero un’esistenza inerte, di pietra.
Sorvola su tutte quelle cose per le quali gli altri vanno naturalmente in rovina o almeno soffrono notte e giorno e, impercettibilmente, si consumano a poco a poco nell’intimo. Il «sano», purtroppo, queste cose non le sente, sorvola su tutto ciò che distrugge con inesorabile lentezza le nature più delicate. Egli è sempre e comunque in grado di affrontare la vita, puah! Lottare contro le spudorate trivialità del quotidiano e vincerle, per lui è un gioco da ragazzi! Per questo «cane dell’esistenza» non esistono difficoltà, è talmente brutale che vince ogni trivialità e grazie a Dio si accorge troppo tardi del suo stesso «perire»! Dunque non se ne accorge affatto. Il sano non immagina neppure quanto soffra il «non sano»! Ha la «pelle dura» lui, ma in un modo o nell’altro finirà pure per andare in malora, dato che prima o poi tutti i nodi vengono al pettine! Purtroppo, per ora, a pagare sono soltanto gli altri.
Il sano vive la sua vita stupida, insignificante, robusta, renitente contro tutto e contro tutti, anziché lasciarsi andare, come che sia, alle umane debolezze, alle umane delicatezze!
Il sano è malato perché desidera contrastare in tutto e per tutto le inesorabili leggi della natura, benché sappia bene che ciò è impossibile! Dunque è un malato sano! Malato di forza brutale, quasi maligna. Oppure di angustia mentale, anche questa una terribile malattia del sano.
LA GUERRA
La guerra non è un fatto naturale, organico, ineluttabile, bensì l’inganno di coloro che, essendo stati intenzionalmente ingannati, «sperano di pescare nel torbido». La forza delle armi non potrà mai decidere, né estorcere con la violenza, solo lo spirito comune della collettività può farlo; e solo a pochi geni è riuscito, in circostanze particolarmente favorevoli o sfavorevoli, di sbarrare apparentemente il passo al naturale cammino dell’umanità. Questa guerra ha genialmente provato che non esistono per nulla i cosiddetti geni dei fatti d’arme, ma solo singolari coincidenze, e che la povera umanità deve cercare ad ogni costo la sua strada per la sua pace! Trastulli coi sottomarini, dirigibili, megalomanie, successi parziali e momentanei sono fenomeni da giardino d’infanzia di una umanità completamente immatura, che non ha neanche approssimativamente capito le proprie necessità organiche! Tatto ciò un giorno si vendicherà sanguinosamente, a meno che un uomo giovane e buono non capisca per tempo la complicata situazione mondiale della languente umanità! Gli uomini vogliono naturalmente la pace, vogliono vivere in pace, e il «potere» è una follia alla quale purtroppo i poveri popoli si sottomettono sempre, una specie di megalomania assoluta. Ognuno vuol vivere alla meglio, ma il «potere» con ciò non ha nulla a che fare! Queste sono follie di individui intenzionalmente ingannati alle quali si conformano milioni di infelici, come greggi di pecore! Perciò verrà la débâcle, il tracollo, è un fatto inarrestabile. Megalomania è la orribile malattia dei cervelli umani, dalla quale è esente, libero, soltanto il semplice minatore! Lasciate quindi che la povera umanità vada per la sua strada pacifica e naturale e impedite che i megalomani, i quali casualmente detengono il potere, si presentino come distruttori! Ciò non ha ancora mai giovato a nessuno, in verità lo spirito tranquillo dell’intera umanità non vuole altro che la pace perpetua! Chi si oppone con la forza al naturale corso degli eventi commette un delitto contro tutta l’umanità. Guai se voi ingannati non vi accorgete di questo per tempo! Tutti vogliono vivere in pace. Qui sta la nostra vittoria! La forza dello spirito filosofico frantuma i velenosi prodotti chimici e la povera umanità, che finora è stata ingannata da individui folli e megalomani, vuole la sua pace. Sia pace in terra, e le genialità dei sommergibili, dei dirigibili, di tutto ciò che è stato creato per opprimere l’umanità sono megalomanie di non-cervelli deviati! Il tempo breve ed esiguo che è concesso sulla terra, ciascuno lo vuol vivere relativamente in pace, e il «potere» è una follia alla quale l’infelice massa si sottomette in eterno! In cosa consisterebbe la pace se non nella pace?! Ognuno vada tranquillo per la strada che il destino gli ha assegnato! In Tyrannos! Il pastore suona il flauto e il gregge pasce ciò che c’è da pascere! I sommergibili non distruggono il corso degli eventi! I poeti sognano in modo sbagliato e a buon mercato, ma il mondo vigila, soffre, e vuol essere salvato da una forza spirituale. Amen. Solo da questa! Sì al cozzo d’armi dei cervelli, no alle fialette puzzolenti in infelici arsenali!
LA SERA
Da sempre la sera precipita all’improvviso sulla tua giornata comunque fallita, mutilata da cento cose innominabili o nominabili appena. Le tue speranze erano altrettanto ridicole e infondate quanto le tue disperazioni che confinano con la follia. Durante il giorno cercasti con abilità, ma più spesso con goffaggine, di nuotare nel mare delle più impudenti e stupide falsità, insieme con gli altri idioti, i quali se la cavano in questa «non-vita» soltanto in virtù di una spiccatissima insolenza che ad essi è conferita da un tragicomico e non invidiabile destino. I pochi che riescono non combinano assolutamente niente, poiché vengono trascinati dalla massa stupidamente frettolosa a dimenticare che, nonostante tutto, forse sono oggetti che sentono, vedono, contemplano, avvertono, pensano, o avrebbero potuto farlo in qualche modo. La sera debolmente silente ti coglie ogni volta con la tua personale Sedan o Waterloo, con i tuoi insignificanti programmi di vita. Il letto, a quanto pare, ti aspetta ancora amorevolmente, dunque è una mezza morte, o magari un quarto. A tanti riesce, ma cosa vuoi che sia! Nessuno si costruisce la propria interiorità, anzi tutti si affannano a distruggerla. È una costruzione che non richiede né speranza né coraggio, ma genialissima forza d’acciaio tratta dal proprio intimo! Chi ha la forza di costruire se stesso, per prima cosa si sbarazza totalmente di tutti quelli che intorno a lui in qualche modo gli sbarrano la strada! Non è vero che la tua finanziera nera è soltanto la tua finanziera nera, e così il tuo cappello o il tuo ombrello; essi sono i naturali accessori della tua futura e miseranda toilette tombale! Sii quello che sei, non essere mai quello che gli altri esigono proditoriamente da te! Poiché essi non esigono altro da te se non la impudica toilette delle loro vanità, soltanto per non sentirsi ridicoli davanti a te! Ti impongono di sottometterti a loro, come a Hugo Wolf è stato imposto di sottomettersi a Franz Lehar! Non fatelo, scendete nelle vostre tombe coi vostri logori vestiti! E ridete delle loro risate! La sera ti spoglia di tutti i cosiddetti onori quotidiani e della vita stessa. Guai a colui che si lascia insolentemente ingannare dalla vergognosa e stupida nullità della sua stessa esistenza, in lui opera ininterrottamente il tarlo del suo stesso nulla che lo rode. Chi vuole ingannare?!? Moglie, figli, amante, genitori?!? Sventurati! Già il suo riso falso lo tradisce di fronte alla impudica, geniale e spietata umanità. E la sua allegria è diabolica, poiché forse è già subdolamente in agguato il tragico cancro della lingua! La sera è la tua «Sedan», la tua «Waterloo», anche se ti sei rasato con tanta eleganza! Ciò che non fosti, non sei, non sarai mai, te lo dicono con orrore le ore della sera!
LA NOTTE
La notte non passa. E tu pensi naturalmente alle tue colpe, migliaia di colpe insensate. Ciononostante, o appunto per questo, la notte non passa. Come hai vissuto stupidamente, o meglio non hai vissuto, in fondo non hai fatto altro che scivolare lentamente verso la morte, non hai avuto un cervello à la Bismarck, non hai saputo darti un indirizzo, unico giusto compito dell’uomo! Mille cose ti hanno allontanato da te stesso, ti hanno privato della peculiare forza vitale insita in te, ti hanno allontanato dalla parte migliore del tuo Io!
Perciò per te la notte non passa.
Perché è troppo grande il numero delle tue stupide colpe infantili.
Era necessaria quella cosa allora?! No, non era affatto necessaria, soprattutto non lo era in quella situazione per te così pericolosa! Perché dunque la facesti ugualmente?! Perché la notte senza fine ti desse l’occasione umana di ricordare per così dire in eterno la tua dura vita di colpe, e ti punisse per il tuo essere stato troppo poco uomo durante questo lungo, prezioso-ansioso periodo della tua vita!
Perciò per te la notte non passa!
IL 13 DICEMBRE
1918
LE CINQUE DEL MATTINO
Dunque, Peter, finalmente, dopo lunghe, folli battaglie con te stesso e con la vita in genere, per quanto si riferisce alla tua misera eppure, ahimè, complicatissima personalità, ti trovi dinanzi ai tuoi stessi insormontabili abissi. Ognuno ha i suoi abissi, ma non li riconosce, perciò si abbandona senza lamentarsi al destino apparentemente ineluttabile della sua vita desolata e confusa. Molti mettono mano alla Browning, e molti invece non lo fanno! In una simile crisi della mia infelice esistenza sono ancora in grado di buttar giù in fretta queste poche righe, per gli altri, per gli altri che sentono in modo simile e hanno bisogno di salvarsi come me, senza purtroppo essere in grado di dirlo come faccio io! Io, almeno per il momento, posso ancora dirlo, ma per quanto tempo ancora?!? Finché la gente continuerà a considerarmi un poeta! Uno che è capace di dire una cosa che tutti, tutti gli altri sentono e sanno, pur restando muti, muti, chiusi nel più tragico mutismo! Il poeta invece può gridare, implorare, maledire, piangere forte, senza pudore né riguardo, afflitto e disperato per le immutabili, banali e pur tremende cose di questa durissima esistenza! Questo è un poeta, nient’altro, altrimenti non c’è nessuno che prenda su di sé con parole altisonanti la muta fatica del vivere di tutti gli altri, allo scopo di salvarli! aiutarli! Solo questo è un poeta! Tutti gli altri uomini sono inutili e vani. Li si legittima per criminosa indulgenza, benché si sappia bene che non si ha in alcun modo bisogno di loro per la propria felicità!
In queste difficili angustie che premono da ogni parte, il poeta al giorno d’oggi deve aiutare l’anima dei singoli molto più di un medico (?!?) e addirittura di un amico (?!?). Egli deve, guardandoli dall’alto in basso, vedere e conoscere il destino di tutti, e far luce sugli smarrimenti di ognuno, uomini e donne, perché solo questa è la sua professione sulla terra! Altri hanno altri doveri, ma il poeta ha solo questo. Altrimenti non è un poeta! Utilizzatelo come tale, solo per questo egli è qui!
Immischiarsi nella vita di un altro organismo per aiutarlo è un misto di idiozia, megalomania e infondata volontà di dominio! Nessuno conosce gli altri o comunque non li conosce abbastanza. Il dilettantismo amichevole è il più profondo pericolo. Abbiate rispetto, lasciate che gli altri vadano per le loro strade misteriose e non prendetevi la responsabilità dei sentieri sbagliati nei quali potreste attirarli con la vostra inopportuna indulgenza! Non avete alcun rispetto per mondi a voi del tutto estranei e purtroppo solo apparentemente uguali ai vostri?!? Potete assumervi la responsabilità dei vostri consigli?! Vi orientate davvero bene in questo labirinto «degli altri»?!? Come fate presto ad orientarvi voi!
Quanto grato, e anzi sollevato, sarebbe l’altro se potesse scorgere nella vostra mite intelligenza, nella vostra anima esente da pregiudizi la fotografia della sua stessa personalità?! E invece no, lo costringete in un’immagine del tutto falsa e arbitraria, l’unica immagine che voi capite e volete avere di lui! Non gli permettete di essere quello che è, ma gli imponete quello che fa più comodo a voi, quello che vi è più utile! Disperato, l’altro vorrebbe difendersi contro questo destino della critica che gli è imposto, ma l’«altro» lavora coi mezzi più abili, anzi più perfidi, nell’intento sempre più inesorabile di affermare se stesso e con ciò le proprie concezioni contro l’avversario ormai disarmato. Così vivono perlopiù gli uni con gli altri, no, gli uni contro gli altri!
14. 12. 1918
Com’è allora questa notte?!? In apparenza la tua ultima. Ma solo in apparenza.
Perdere così rapidamente tante energie?!? È terribile.
Un cane, un piccolo cane randagio lo morde. È malato, è sano. Nessuno lo sa, nessuno sa riconoscerlo. Egli attende il suo destino, nessuno può aiutarlo. Il cane lo ha morso. Il destino incombe sul tuo capo infelice. Perirai in modo orribile oppure no?!? Entrambe le ipotesi sono attendibili. Questo ti rode giorno e notte. Non cessa mai, ti logora contro il tuo volere. Un cagnolino ti ha morso, di notte. Nessuno sa se era sano o malato. Vivi da allora sottoposto a un orribile destino, soprattutto non c’è nessuno in grado di salvarti. Un cagnolino sconosciuto ti ha inaspettatamente morso di notte. È fuggito nell’oscurità, si è lasciato dietro di sé un disperato. Sei dunque abbandonato al destino, benevolo o malevolo, fa lo stesso, comunque tu non puoi mutare nulla, tutto è lasciato alla clemenza o all’inclemenza del destino. Solo chi sa veramente qualcosa che si riferisce a te può aiutarti, nessun altro. Per l’amor di Dio, non lasciarti abbagliare o fuorviare da dolce, apparente o addirittura reale arrendevolezza, dunque da una presunta soccorrevole abnegazione. Tu solo ti puoi salvare, solo tu, nessun altro al mondo, nonostante tutto. Tu hai sessant’anni, lui cinquanta, perciò egli trionfa di dieci anni su di te, ma è perfidamente di trent’anni più privo di comprensione, più sconsiderato, più egoista! Non starlo a sentire! Non curarti di lui, lambiccarti il cervello non può certo aiutarti! Come se uno si lambiccasse il cervello sul proprio diabete! La cosa lo indebolisce, lo fiacca, in nessun caso può essergli utile! Sopporta il tuo destino, questa è la tua unica medicina. Abbi la forza di respingere per il momento con brutalità e sfacciataggine tutti i cosiddetti buoni consigli! Ogni altra persona è un tuo nemico mortale, sotto una maschera di affettuoso altruismo! La paraldeide è un veleno paralizzante, perciò purtroppo provoca il sonno. Nessuno può proibirtelo più di te stesso. Le conseguenze le devi sempre avere davanti agli occhi, no, nel cervello, e le parole degli altri, per quanto affettuose, sono come pula nella tempesta. Tu stesso da solo devi, puoi salvarti, ti salverai dagli abissi che ti sei scavato con le tue mani! Se non lo farai nessuno ti salverà, nessun medico presumibilmente comprensivo, nessun amico bonario! Solo tu, tu, tu soltanto, tu stesso! Il destino della tua vita dipende soltanto dalle tue energie vitali, non certo dai medici, che naturalmente, per le cose che ti riguardano, sono del tutto privi di comprensione e megalomani, e neanche dagli amici, che come pure è naturale, sono altrettanto privi di comprensione seppure benintenzionati, e in perfetta buona fede ti scagliano nei tuoi stessi abissi! Segui l’Io migliore che è in te, solo questo ti potrà salvare un giorno da te stesso e dalle tue malattie dell’anima, dello spirito, del corpo! Non stare ad ascoltare voci benintenzionate che vengono da fuori, ascolta le inesorabili, severe voci del tuo intimo! Solo qui è per te la salute, la salvezza, l’eventuale fortuna! Non ti fidare del mondo esterno, ancora amorevole all’apparenza, ma in realtà spietato; esso non ha, non può avere idea dei misteri della tua vita.
Fidati di te stesso! E se tuttavia dovessi, proprio per ciò, precipitare nel tuo abisso, così sia! È stata la tua fatalità, il tuo destino, basta! Solo il tuo spirito e la tua anima sono le tue grucce, il resto non conta.