PETER ALTENBERG

DI KARL KRAUS

Spesso promesso, spesso rinviato, questo cinquantesimo compleanno ora lo festeggia davvero. Ma se anche la data oscillasse come il giudizio sull’uomo, o addirittura come il giudizio dell’uomo, non vorrà certo lasciarsi sfuggire l’occasione di salutarlo con rispetto chi ha seguìto in tutte le sue fasi come egli abbia perso le piume per guadagnarsi una testa. E, nella nostra vita spirituale, nulla è oggi più saldo di questa oscillazione, nulla è più nitido e chiaro di questa grinzosa fisionomia, e non c’è punto fermo migliore di questa inattendibilità. Tra i molti che rappresentano qualcosa, ecco qui uno che ha un senso suo; tra i pochi che possono qualcosa, ecco qui uno che è. Nella schiera incalcolabile di coloro che hanno tratto il loro materiale dalla letteratura e gli è venuto mal di testa quando hanno dovuto metterlo alla prova della vita, ecco qui uno che ha creato letteratura nel buco più sporco della vita, senza preoccuparsi, con equanimità, né delle regole della letteratura né di quelle della vita. Come gli altri hanno passato le loro giornate prima di approdare ai loro libri lo sa il buon Dio: le notti di costui sono sempre state esposte al pubblico controllo, e fra i ladri di cavalli, attaccati al loro champagne, più d’uno potrebbe darci informazioni sulla genesi di opere che apparterranno per sempre ai valori della prosa lirica. Questa vita d’artista aveva una caratteristica che le donne da lui frequentate hanno perduto: fedeltà nell’incostanza, autoconservazione spietata nel gettarsi via, invendibilità nella prostituzione. Da quando è passato dal vivere allo scrivere, e ogni volta che ha ripetuto quel passaggio, nell’Angolo dei giochi del lettore filisteo si è presentato il problema di questa primigenia involontarietà, che oggi con noncuranza offre una perla e domani con solennità esibisce una buccia. L’ipotesi che fosse un poseur era la soluzione più comoda: proprio lui che per tutta la vita non ha fatto altro che infrangere gli schemi convenzionali della simulazione. O che fosse un autentico folle: poiché lo stupore delle menti sane, la cui infame superiorità ha trovato qui il modo di dispiegarsi appieno, vede solo la rotella fuori posto e non si accorge della forza motrice che ha fatto il danno perché quel danno l’accresce. Ma i poeti raggiungono il loro scopo anche se riescono soltanto a far sì che i legulei si rendano conto, confrontandosi con loro, di essere perfettamente assennati; e d’altro canto i legulei farebbero meglio ad astenersi dal voler penetrare nella mente dei poeti più in profondità di quanto gli serve per dimostrare la legittimità della propria esistenza. Può darsi che un tal genere di considerazioni meccaniche non abbia origine nella vivente personalità, ma nelle cose serie che P.A. dice. Ma proprio quella serietà fa stridere la rotella e alletta la curiosità di qualche futile intelligenza che sarebbe meglio lasciar andare per i fatti suoi. È assolutamente tipico di questa natura di artista le cose meno appariscenti implorarle dall’alto; e quella sua attenzione di colpo si trasforma in arte, appena i contrasti si conciliano nell’umorismo. P.A. è un lirico quando si dedica alla diretta contemplazione del suo piccolo mondo ed è un umorista quando si erge su di esso per deriderlo. In mezzo alle cose e al di sopra di esse è personale e pieno di fascino, e qua e là gli siamo debitori di opere d’arte che nessuno può copiargli perché lui stesso non ha un modello. Da un atteggiamento che oscilla tra superiorità e lirico fervore, da una saggezza alla rovescia che guarda a un canarino con più serietà che alla propria persona, da una modestia che si fa avanti soltanto per riflettere il mondo nella pelata di un buffone, potrebbe nascere la descrizione di un Viaggio sentimentale al quale egli stesso prende parte nella sala di un cinematografo, dato che ha fantasia e deve risparmiare. In cambio di qualche riga del suo schizzo Il topo o dell’Ascensore o del Bastone da passeggio o del Colloquio col proprietario di una tenuta, sarei disposto a cedere tutti i romanzi di una biblioteca circolante. Ma anche, naturalmente, quel P.A. che vorrebbe colmare con grida e strepiti la distanza che lo separa dal suo mondo. Posso anche capire che a un artista, dilaniato dall’impazienza, capiti una notte di apostrofare la vita al vocativo. In quei momenti è esaltato, ma, appunto, non è creativo. Io vedo che sta in alto, ma quel divario, che esigerebbe umorismo, lo rende automaticamente impossibile quando le sue osservazioni diventano patetiche. Mi sembra che in questo capitolo rientri la gastrologia altenberghiana e, insieme ad essa, la materializzazione dell’anima femminile e la spiritualizzazione dei generi di consumo, nonché l’inesorabilità di quella «formidabile» inversione acrobatica del pensiero evoluzionista che dall’uomo fa discendere la scimmia. P.A., che diventa un poeta di fronte a un pascolo alpino, di fronte a una cantante che ha vinto concorsi di jodel si trasforma in profeta. È un veggente quando guarda, ma quando fa il veggente è soltanto uno strillone. Le sue stramberie, quando si smascherano da sole aiutano la creazione, mentre la ostacolano quando pretendono di imporsi in quanto tali. Al contatto di una mano delicata d’artista esse si placano, mentre un linguaggio ostico, che stravolge la lingua, non fa che esacerbarle. E l’umorismo sfuma per questo. Ma il buon senso dei filistei preferisce P.A. quando vede la sua ricchezza depauperarsi, e ridursi alla bizzarria di un visionario che confeziona con estasi le sue ricette di cucina, fa tant de bruit pour une omelette e prescrive: Ebbene, si prendano finalmente tre uova!?! Certo, questa mania amplificante, che sottolinea pesantemente una cosa quotidiana, costituisce anch’essa una parte di quella forza che riesce a esaltare quella stessa cosa – perciò non vorrei mai rinunciare alle stonature che pure esistono nella musica tzigana di questo spirito. Nell’assoluta sincerità che dice l’indicibile, è di sicuro più amabile lui di chi ostenta un preziosismo che del dicibile ha soltanto la forma; ed è il battito accelerato del suo cuore che innalza il valore umano del predicatore al di sopra della sua dubbia dottrina. Ma lo strepito di quella dottrina a me sembra incoraggiato dalla sordità dei filistei, e ha il senso di una sfida, licenza concessa a un artista che non fa concessioni. E come potrebbe la voce più alta non diventare roca nella patria in cui Nessuno è profeta ma il poeta è Giornalista? La fama di Peter Altenberg, consolidata all’estero, ancora non si è spinta fino a Vienna, e le canaglie intellettuali di questa città ancora non hanno deciso in santa pace di prenderlo sul serio come fanno coi loro poetastri e giornalisti. Tuttavia, la dovizia dei suoi mezzi non dovrebbe dispiegarsi a scapito del contenuto. Bisognerebbe boicottare un giornale che a una simile tempra di uomo affida senza riserve la punteggiatura di tutto quello che stampa, nonché bastonare sulla pubblica piazza i membri di una giuria letteraria che da una parte permettono a una personalità di quello spicco di sbizzarrirsi come crede nella critica del varietà, e dall’altra premiano ogni anno personaggi armoniosamente insulsi. Insomma, bisognerebbe procedere a tutte quelle operazioni che possano attirare su di sé la collera di P.A., l’unica collera che in città tutti conoscono e che ha un valore intrinseco, e si giustifica sempre, anche quando chi se la addossa è persuaso, a torto, che si è presa di mira la sua libertà. Poiché in effetti si è mirato soltanto a portarlo allo stadio in cui egli sia disposto, finalmente, a concedere a P.A. il riconoscimento intellettuale che si merita, per ricevere in cambio l’onore di diventare il bersaglio della sua ubriachezza. O anche il punto di mira di quei commentatori assennatissimi che deridono l’arte di P.A., considerandola una faccenda strettamente privata, e che però davanti alla sua vita notturna fanno la fila come a un chiosco del Prater, ed esultano ogni volta che possono riferire in giro qualche esempio della furia selvaggia dei suoi giudizi. Nessuno si rende conto che qui è all’opera un temperamento esterno, sia che si schieri in favore o contro una causa, sia che faccia l’uno e l’altro insieme. Ma anche la natura divide le sue vedute in questo modo, al bel tempo segue la pioggia, ed è sempre lo stesso terreno che trae vantaggio da una simile contraddizione. Questo poeta aveva dei discepoli che lo rinnegarono perché non riuscivano a tollerare gli umori e i capricci del suo clima. Ebbene, se a qualcuno riesce sgradevole una vita che oscilla tra i due estremi dell’entusiasmo più fervido e del disprezzo più profondo, costui farà meglio a starsene a casa propria, ma almeno esalti l’onnipotenza del Creatore e non storca il naso di fronte alla natura. Giacché la natura è saggia, non prende sul serio le proprie folgori, e anche il sole ride di se stesso e della propria incoerenza. Ma sì, di teste che a cinquant’anni conserveranno lo stesso placido giudizio che avevano a venti ne abbiamo in abbondanza. Che Dio le conservi tali e quali. Di Peter Altenberg ci basta uno schizzo.

 

(1909)

Traduzione di Renata Colorni