Capitolo diciannove
Appena fuori città, mi immisi nel traffico e mi diressi verso sud; la rabbia mi faceva venir voglia di andare a cento all’ora invece che a trenta, velocità effettiva segnalata dal tachimetro. Centinaia di persone partivano per Cape Cod quel venerdì pomeriggio, e benché non fossi esattamente in vena di una riunione di famiglia con mio padre appena conosciuto, volevo stare il più lontano possibile da Blake.
In qualche modo avevo trovato la forza per lasciare Blake in sala conferenze. Avevo chiesto velocemente scusa a Max, ma gli avevo risparmiato i dettagli, consapevole del fatto che avrebbe avuto a breve un resoconto da Blake. Finalmente mi ero liberata di entrambi. Sarebbero potuti andare avanti con la loro rivalità insensata fino a distruggersi in un maledetto tripudio di gloria, per quanto mi importasse.
Blake non mi aveva dato altra scelta dal punto di vista professionale, ma di sicuro non lo avrei ricompensato con la nostra relazione. Lo amavo, alla follia e con una passione che con ogni probabilità non avrei più ritrovato, ma non avevo intenzione di fare la mantenuta. L’appartamento, e poi anche il lavoro. Avrebbe continuato a intromettersi, finché non avrebbe esercitato il controllo totale su di me, sottomessa ai suoi capricci e desideri. In camera da letto mi stava anche bene, lo desideravo più che mai. Ma nella vita reale c’era bisogno di confini, e per quanto ci provassi non riuscivo a farglieli rispettare. La mia rabbia salì in superficie e si riversò sul volante.
Un paio di ore dopo, il traffico finalmente svanì. Iniziai la mia gincana, attraversando le corsie come un pilota di Formula 1, finché il GPS non mi indicò l’uscita.
Guidai per le strade tortuose con un po’ più di prudenza. La riva era costellata di ville e costruzioni faraoniche, tutte con un panorama spettacolare sull’oceano. A parte qualche viaggio da studenti con Alli, avevo frequentato ben poco la costa durante gli otto anni di permanenza nel New England.
Imboccai un viale che portava a una villa di tre piani con un SUV della Lexus parcheggiato nel cortile. Ero arrivata. Feci qualche respiro profondo e mollai la presa sul volante, cercando di scacciare la rabbia che provavo nei confronti di Blake. Doveva essere una bella giornata. Forse non era troppo tardi.
Uscii dall’auto e sbirciai oltre il recinto che separava la strada dal piccolo viale verso la spiaggia sottostante. La casa era costruita su uno sperone di roccia, più in alto rispetto agli edifici vicini, offrendo così un panorama suggestivo sul mare su tre lati.
«Erica!». La voce di Daniel risuonò dalla porta sul retro.
Aveva un aspetto diverso; indossava pantaloni sportivi e camicia di lino. Appena mi avvicinai mi sorrise.
«Sono felice che sia venuta». Mi abbracciò con cordialità.
Quel gesto mi colse di sorpresa, ma non mi lamentai. «Anch’io», risposi. Soffocata dalla sua spalla, lo abbracciai forte. Desiderai non sentirmi così nuda in quel momento; se non avessi fatto attenzione, sarei scoppiata a piangere di colpo. Di certo non avrebbe più sospettato che fossi lì per i suoi soldi, ma avrebbe pensato che ero un caso disperato.
«Entra, voglio presentarti Margo».
Annuii, lui prese il mio borsone e lo appoggiò all’ingresso. Entrammo in un soggiorno grande e luminoso con mobili di un bianco splendente. Grandi divani di lino bianco erano decorati con cuscini blu: la quintessenza dell’arredamento da casa al mare.
Mi portò in cucina, dove una donna alta con capelli ramati scuri stava preparando un’insalata. «Erica, lei è Margo».
Margo si tolse il grembiule e venne verso di me a braccia aperte. Aveva un fisico agile e il viso abbronzato cosparso di lentiggini. Portava dei grandi orecchini di perla, abbinati a un filo di perle intorno al collo. Nonostante l’altezza, sembrava fragile tra le mie braccia. Quando si fece indietro, mi sentii sollevata per aver scelto l’abbigliamento giusto.
«Sarai mica un miraggio? È meraviglioso conoscerti, cara. Hai fame?».
Non mi ero preoccupata di mangiare per tutto il giorno. Ero stata sopraffatta dal nervosismo la mattina, e dopo l’incontro mangiare era stata l’ultima delle mie preoccupazioni. «Sono affamata, in realtà».
«Dammi soltanto qualche minuto e sarà pronto. Tesoro, puoi mettere a cuocere il pesce». Indicò a Daniel il frigo.
Lui annuì e si allontanò da me per prendere un vassoio. «Ti va una birra?»
«Ehm, certo», dissi, anche se mi sarei ubriacata in un lampo se non avessi messo subito qualcosa nello stomaco. Se mi fossi scolata una birra intera, probabilmente avrebbero saputo di me molto più di quanto avessi voluto raccontargli. Daniel prese due bottiglie con la mano libera e mi fece cenno di seguirlo.
Uscimmo in veranda, e mentre lui era concentrato sulla griglia, io mi godevo il panorama. Per tutto il viaggio avevo pensato con rabbia a Blake, invece di fantasticare su tutte le cose di cui io e Daniel avremmo potuto parlare per conoscerci meglio. Volevo che mi conoscesse davvero, che mi volesse conoscere.
Guardai all’orizzonte, verso l’oceano calmo davanti a noi. In lontananza, una spolverata di macchie nere si muoveva tra gli scogli ai piedi della costa.
«Cosa sono?», domandai.
Daniel guardò il punto che gli stavo indicando. «Foche. Trascorrono lì tutto il giorno. Bestie rumorose, sono. Sono la prima cosa che sentiamo al mattino».
Mi venne da ridere al pensiero delle foche nei panni dei galli, da quelle parti. «Avete una casa bellissima».
«Grazie. Amiamo stare qui. È un bel posto per staccare la spina».
Chiuse il coperchio della griglia e venne vicino a me davanti alla ringhiera che ci separava dallo sprofondo a soli pochi centimetri di distanza. Una piccola scala pieghevole ai confini della proprietà portava giù verso la spiaggia. Le scogliere erano belle ma pericolose, soprattutto se si rimaneva bloccati sulla spiaggia durante l’alta marea.
Daniel interruppe i miei pensieri oziosi. «Ti ho cercata su Google, ma devo ammettere che non ho capito molto bene cosa fai; cos’è Clozpin?».
Sorrisi, emozionata dal fatto che fosse interessato a conoscermi.
La debole speranza che avevo nutrito fino a quel momento stava prendendo vita. «È una start up per un social network sulla moda. Aiuta le persone a trovare l’abbigliamento giusto e a contattare firme e stilisti, in poche parole».
«E l’hai messo su quando eri ancora all’università?»
«Insieme a un paio di amici. Da quando mi sono laureata, ho cercato di reperire fondi da qualche investitore informale che…». Mi bloccai, pentendomi di quello che avevo appena detto. «Abbiamo ottenuto i fondi oggi, per cui spero che accadranno grandi cose in futuro».
«È fantastico, Erica». Sorrise e fece un brindisi con le nostre bottiglie di birra.
«Cosa mi racconti di te? Sei sempre stato interessato alla politica?», domandai.
Arricciò il naso e si mise a fissare l’orizzonte che imbruniva sull’oceano. «In un certo senso, sì. La mia famiglia è impegnata in politica da qualche generazione, per cui credo che dedicarmici sia stata una logica conseguenza della mia carriera».
«Sei fiducioso per quanto riguarda la corsa alla carica di governatore?»
«Decisamente. Abbiamo il sostegno di personaggi influenti, e stiamo facendo un’ottima campagna elettorale. I livelli di approvazione dei social media, sebbene non sappia praticamente nulla dei dettagli, sembrano garantire ottimi risultati. Magari potresti spiegarmi tu un paio di cose su questo argomento».
Annuii e scoppiai a ridere. Era fuori discussione il fatto che parlassimo due lingue completamente diverse dal punto di vista professionale.
«Riguardo alla campagna…». Esitò, come se stesse riflettendo su come proseguire. «Può sembrare sconveniente da dire, ma ho una preghiera da farti». Si strofinò il velo di barba che gli ricopriva il mento. «Come ti ho detto, lo sai, non mi aspettavo di incontrarti. Una bellissima sorpresa, ovviamente».
«Ovviamente», dissi anch’io.
«Mi sto giocando tutto in questa campagna elettorale, Erica, e non so come dirti questa cosa senza apparire, in un certo senso, una brutta persona, credo».
«Sarebbe meglio non spifferare la notizia della mia esistenza come figlia illegittima», dissi di getto. Conoscendo i politici, avrebbe potuto continuare a girarci intorno per diverso tempo prima di arrivare al punto.
Il suo viso si addolcì e assunse un’espressione colpevole, ma io avevo già capito dove volesse arrivare. L’ultima cosa che desideravo era essere un peso o una fonte di stress per lui.
«Non è un problema, davvero», dissi. «Volevo soltanto conoscerti, e spero che sia ancora possibile. Ma ho la mia attività e le mie pubbliche relazioni da mandare avanti. L’ultima cosa che desidero è metterti i bastoni tra le ruote. Onestamente, non ho niente da guadagnare con il tuo coinvolgimento in politica».
Annuì e bevve un lungo sorso di birra. «Credo veramente che sia giusto così. Noi sappiamo quello che dobbiamo sapere, e credo che sia questo ciò che conta di più, giusto?».
Feci cenno di sì con la testa e lasciai scivolare la mano sulla ringhiera, pensando alla domanda che volevo fargli.
«Forse è stato perché quando è morta ero troppo piccola per affrontare l’argomento. Ma mi sono sempre chiesta perché mia madre non mi abbia mai parlato di te».
Si tirò su e aggrottò le sopracciglia. «La nostra relazione era complicata. O almeno lo era diventata quando lei aveva scoperto di essere incinta. Le nostre famiglie non sarebbero state felici della notizia».
«Lo so». La famiglia di mia madre era sempre stata molto distaccata. Considerando quanto mi aveva raccontato Daniel, la sua situazione non doveva essere stata molto diversa; una famiglia in vista come la sua non avrebbe reagito bene a una ragazza rimasta incinta fuori dal matrimonio, a prescindere dal lignaggio di lei.
«Una volta che era tornata a Chicago, ero convinto che se ne sarebbe occupata lei. Non ne ho più sentito parlare, e io non volevo farmi vivo e portare il sospetto nella sua famiglia».
«Quindi non vi siete più parlati dopo l’università?».
Scosse il capo e rimase a fissare l’oceano, come se le risposte su come fosse cambiata la vita per lui fossero là fuori, da qualche parte, appena oltre il suo campo visivo.
Sentii sbattere la portiera di un’auto e, quando mi girai, intravidi una testa di capelli castani ricci che oltrepassava il recinto ed entrava in casa.
«Dovrebbe essere mio figlio adottivo. Penso che abbia più o meno la tua stessa età».
Daniel fece segno con la mano di tornare dentro e io mi armai di coraggio per affrontare un’altra presentazione.
Margo stava portando a tavola l’insalata e una zuppiera di riso fumante. Il profumo si diffondeva nell’aria, e io non vedevo l’ora di smetterla di parlare e iniziare a mangiare. Il giovane varcò la porta e si avvicinò a lei, ma si bloccò appena mi vide.
Tutto si fermò. La stanza divenne fredda e silenziosa. Sentivo il cuore che mi batteva, un tonfo assordante e irregolare, un dolore ghiacciato che scorreva nelle vene, che mi congelava fino alle ossa.
Ero sola, in una stanza piena di persone. Sola, con i miei ricordi e la vergogna che mi avevano fatto riaffiorare. Provai un senso di repulsione nauseante mentre cercavo di capire l’incubo orribile che si palesava davanti a me.
Afferrai il braccio di Daniel, temendo che le mie gambe non mi avrebbero sorretta. Lo guardai, come se avessi la speranza che in qualche modo potesse capire. Lui si limitò a ricambiare lo sguardo e a indicare il loro nuovo ospite.
«Erica, lui è mio figlio adottivo, Mark».
Mark.
Dopo quattro anni, finalmente sapevo il suo nome.
Mi scusai per andare nel bagno più vicino. Chiusi la porta a chiave dietro di me, lottando contro l’agitazione mentre le mie mani si muovevano in maniera inconsulta. Mi spruzzai l’acqua sul viso e guardai lo specchio alla ricerca di aiuto. Ero pallida come un fantasma. Avevo implacabili ondate di nausea, e tentai con tutte le forze di vomitare, per purgare via quel ricordo velenoso dal mio corpo.
Dovevo riprendere il controllo. E mi serviva un piano. Avevo il telefono nella borsa. E la borsa era in soggiorno.
Ma chi avrei potuto chiamare? E poi, per dire cosa? L’uomo che mi ha violentata al college è il mio maledetto fratellastro. Diamine, come potevo affrontare tutto ciò? Riuscivo a malapena a guardare quell’uomo senza accusare i sintomi di un esaurimento nervoso. Avrei dovuto sedermi a tavola per mangiare insieme a lui, come se quella faccenda non esistesse, un intero capitolo della mia vita spazzato via.
Era un’emergenza personale, ma non un’emergenza nel senso letterale del termine, mi dissi. Avremmo cenato e avrei inventato una scusa per andare via.
Avrei trovato un modo per avere a che fare con Daniel in futuro, anche se l’idea di costruire un rapporto con lui sembrava impossibile ormai. Mi asciugai il viso e cercai di ricompormi prima di percorrere il corridoio. Ce la potevo fare.
Uscii e appena chiusi la porta dietro di me, Mark era lì.
«Tutto bene?», mormorò.
Aveva gli occhi scuri, quasi neri mentre si avvicinava. Io mi feci indietro, appoggiando i palmi delle mani contro il muro. Venni colta dal panico. Avevo i nervi a fior di pelle, pronta a reagire male.
«Stai lontano da me». La mia voce era debole, tradiva la paura che stava per prendere il sopravvento. Ero un groviglio di ansia, non quella donna feroce e intimidatrice che avrebbe dovuto spaventarlo.
«Oppure cosa?». Si avvicinò così tanto che riuscivo a sentire il suo respiro. «È perfetto, davvero. Ho sempre desiderato una sorella».
Fece scorrere un dito dal mio ginocchio fino all’orlo del vestito, sollevandolo leggermente. Ogni cellula del mio corpo prese vita e sentii una scarica di adrenalina. Dio mi era testimone, non sarei stata la sua vittima ancora una volta. Lo spinsi via con tutte le forze, facendolo finire contro la parete opposta del corridoio.
«Non ti azzardare a toccarmi di nuovo. Mi hai sentito?».
Un ghigno divertito gli comparve sul viso. Mi diressi di corsa in soggiorno, non meno sconvolta di quando ero andata in bagno. Ecco il momento in cui Daniel inizierà a pensare che sono pazza.
«Erica, sei sicura di stare bene?», chiese Daniel appena mi sedetti vicino a lui.
«Chiedo scusa, non ho mangiato per tutto il giorno. Non mi sento molto bene».
«Oh, no, tesoro, mangia ti prego!». Margo mi servì un piatto con tutte le prelibatezze di cui avevo sentito il profumo poco prima.
Mark si unì a noi e sedette di fronte a me con lo stesso sorriso compiaciuto di prima, come se l’intera faccenda non lo avesse neanche scalfito. Infilzai qualche foglia di lattuga con la forchetta e iniziai a mangiare controvoglia. Ero in preda al panico, l’appetito ormai era svanito.
«Mark, Erica gestisce una sua impresa su internet. Non è sorprendente?», chiese Daniel.
Riferì i dettagli della nostra precedente conversazione per aggiornare Margo e Mark, mentre io rabbrividivo all’idea che stesse rivelando informazioni potenzialmente pericolose che il mio fratellastro avrebbe potuto usare per avvicinarsi di nuovo a me. Ormai conoscevo la sua identità, ma anche il mio anonimato – probabilmente l’unica cosa che mi aveva tenuta al sicuro da lui – non esisteva più.
«E tu cosa fai, Mark?», domandai. Si poteva giocare a quel gioco in due, anche se non riuscivo a immaginare di volerlo cercare se non per piantargli una pallottola in corpo.
«Lavoro nella società con Daniel».
«Certo», commentai sorridendo con educazione.
Che fortuna per lui, stuprare e fare scorrerie durante gli anni dell’università per poi entrare dalla porta principale in una delle più grandi società della città. In qualche modo iniziavo a odiarlo ancora di più.
«In che zona della città vivi?», mi domandò.
Fissai il piatto e portai alla bocca un pezzetto di eglefino leggermente speziato, mentre cercavo di pensare alle possibili false informazioni con cui rispondere. In quel momento suonò il campanello, il trillo rimbombò in tutta la casa. Colta di sorpresa, quasi saltai dalla sedia.
«Vado io, caro», disse Margo appena Daniel stava per alzarsi. Si sollevò con grazia e sparì verso l’ingresso; la porta era nascosta alla mia vista.
«Dovreste vedervi qualche volta», suggerì Daniel.
Feci il possibile per non alzare lo sguardo al soffitto. Cerca sempre di portare la mia attenzione su Mark, pensai.
Continuavo a riempirmi la bocca per trattenere le parole, mentre cercavo di escogitare un piano di fuga. Sospettavo che volevano che mi trattenessi di più, ma io dovevo tornare a casa. Al sicuro.
Casa. Sì, finalmente avevo una casa, e non sarei voluta essere da nessun’altra parte.
Chiusi gli occhi e comparve l’immagine di Blake. Avrei dato qualunque cosa per essere con Blake in quel momento, ma non potevo correre da lui ogni volta che mi sentivo in pericolo. Forse potevo restare con Marie.
«Erica», risuonò la voce melodica di Margo. «C’è qualcuno per te. Ti aspetta davanti alla porta».
Alzai di scatto la testa. Soltanto una persona mi avrebbe potuto trovare lì.
Blake era sulla soglia, con un abbigliamento casual e perfetto, come al solito.
Tentai di riportare a galla la rabbia che avevo provato prima nei suoi confronti, ma tutto quello che sentivo era sollievo, gratitudine, amore. Cercai di trattenermi dal correre tra le sue braccia e farmi portare via da quell’orribile situazione. «Blake…».
Entrò in casa e mi tirò a sé per abbracciarmi, stringendomi così forte da farmi quasi male. Gli nascosi il viso contro il collo, respirando il suo profumo. Il mio corpo si rilassò. Sarebbe andato tutto bene, con lui lì con me. Ero al sicuro.
«Lui è qui?». Mi prese il viso tra le mani e mi guardò negli occhi.
«Chi?»
«Mark».
«Sì. Aspetta, come lo sapevi?»
«Non ti preoccupare, ti porto via di qui». Mi prese per mano e fece per uscire.
«No, non posso». Lo trascinai di nuovo dentro, tenendogli la mano ben stretta nella mia.
«Erica, io ti porto via di qui. Andiamo».
«Aspetta, voglio soltanto salutare. Salutare Daniel».
Si accigliò.
«È mio padre, Blake. Stiamo cercando di conoscerci. Non voglio mandare tutto all’aria». Non c’era ancora stato niente che somigliasse a un rapporto padre-figlia, ma lo avevo appena ritrovato. Non potevo perderlo ancora una volta, così presto.
«Va bene». Mi lasciò la mano. «Presentaci e poi ce ne andiamo».
«Sii gentile», dissi con delicatezza prima di portarlo in soggiorno dove l’intera famiglia ci stava aspettando.
Appena entrammo, lo sguardo di Blake sfrecciò su Mark. Si irrigidì, il suo corpo sembrava irradiare tensione. Gli strinsi la mano un po’ più forte per ricordargli di non infuriarsi.
«Daniel, Margo, Mark… lui è Blake». Mi feci scorrere nervosamente una mano tra i capelli. Per ironia della sorte stavo presentando il mio amante al mio unico genitore vivente alcuni giorni dopo il nostro primo incontro. E tra tutte le emozioni che mi attraversavano la mente in quel momento, c’era anche la speranza che Daniel approvasse la nostra relazione.
Fino a pochi istanti prima sembrava essere orgoglioso di me. Sicuramente avrebbe approvato anche il mio rapporto con Blake.
«Blake Landon. Lavori presso la Angelcom, vero?». Daniel si alzò e gli strinse la mano.
«Esatto. Credo che lei abbia negoziato diversi nostri accordi», disse Blake.
«Vero. È piccolo il mondo, non trova?». Restò in silenzio per un istante, il suo sguardo si posò su di noi per poi scendere verso le nostre dita intrecciate. Si rabbuiò. Tornò a guardare me, come se fosse stato colto da un terribile pensiero in quel momento.
Sapeva che Blake sapeva. Per quanto l’atteggiamento di Daniel apparisse impassibile, riuscivo a leggergli dentro come un libro aperto. Il nostro piccolo segreto imbarazzante si stava diffondendo in modi che non si aspettava.
Margo si alzò di scatto e diede un bacio sulla guancia a Blake. «Blake, permettimi di preparare un piatto anche per te. Prego, siediti e unisciti a noi».
«In realtà, è sorto un problema con un piano sul quale stiamo lavorando. Purtroppo devo assolutamente andare per risolvere questa faccenda. Ma molte grazie per l’ospitalità».
«Oh». Margo si imbronciò quasi impercettibilmente. Avrei potuto scommettere che non vedeva l’ora di conoscere meglio Blake.
Diedi a Daniel, poi a Margo, un bacio veloce sulla guancia e salutai con la mano. Blake prese il mio borsone che era rimasto in corridoio.
Mi porse la mano e indicò la Tesla con un cenno del capo. «Andiamo».
Rimasi a fissarlo mentre ricordavo il nostro diverbio della giornata appena trascorsa. «Blake, non vengo a casa con te».
«No, non ti porto a casa. Andremo in un posto dove potremo parlare, e se poi vorrai andare a casa, o da qualunque altra parte, avrai piena libertà».
«Dove andiamo?».
Non rispose.