Capitolo undici

Mi svegliai il mattino seguente, avvolta nel soffice piumone di Blake e nei ricordi della notte trascorsa. Mi stiracchiai sul letto, dal lato, vuoto, di Blake. Il sole illuminava la stanza e sentivo odore di caffè. Mi alzai e presi una maglietta bianca da uno dei suoi armadi. In bagno, Blake aveva lasciato degli articoli da toletta per me. Sorrisi. La maggior parte delle ragazze ci mette molto tempo prima di guadagnarsi una cosa del genere.

Appena finito di lavarmi e rimettere in ordine, mi feci strada per l’appartamento seguendo i rumori che provenivano dalla cucina. Trovai Blake che rompeva delle uova in una terrina. Era senza maglietta, indossava soltanto un paio di pantaloni del pigiama che si stringeva sui fianchi. Aveva ancora i capelli spettinati e aveva messo un paio di occhiali con una montatura scura che esaltavano la sua sensualità del suo look mattutino; lo facevano sembrare più grande e in qualche maniera più umano, un po’ come Clark Kent.

Mi appoggiai all’isola della cucina di granito mentre studiavo con piacere i suoi progressi: aveva tagliato un po’ di frutta e messo la pancetta in una padella, e nel frattempo cercava di preparare le uova. Sentii le farfalle nello stomaco al pensiero che stesse facendo tutto quello per me.

Smise di armeggiare con le stoviglie per lavarsi le mani e voltarsi verso di me. Sorrise e fece scorrere le dita lungo l’orlo della maglietta.

«Mi piace».

«Non era mia intenzione inventare un nuovo look, ma sono contenta che ti piaccia». Mi appoggiai al ripiano della cucina e girai la testa da un lato. «Non sapevo che portassi gli occhiali».

«Di solito non li metto, ma stanotte mi hai tenuto impegnato, quindi ho dimenticato di preparare le lenti».

«Mi dispiace».

«Non dispiacerti. A me non dispiace».

Mi sollevò per farmi sedere sul ripiano e si mise tra le mie gambe. Con le mani si fece strada su per le cosce fin sotto la maglietta, lungo la schiena, e iniziò ad accarezzarmi, lasciando una scia calda sulla mia pelle ovunque mi avesse toccata. Mugugnai appena raggiunse i miei seni e i pollici si posarono sui capezzoli, che si sollevarono sotto le sue dita. Mentre mi baciava, le spinte delicate della sua lingua mi ricordavano il dolore dolce e sordo tra le gambe durante la maratona della notte appena trascorsa.

«Mi stai trasformando in una sgualdrina sfrenata», dissi, sentendo il mio corpo che prendeva vita per risvegliarsi in una maniera a me nuova.

«Mmh, mi piace l’idea».

Ringhiò contro il punto del collo che aveva baciato e succhiato, e quelle vibrazioni risuonarono dentro di me. Con una mano mi prese una caviglia e si portò la mia gamba intorno alla vita, e con l’altra mano iniziò a massaggiare la carne morbida tra le mie gambe.

«Dio, sei già così bagnata».

«Non riesco a fermarmi, Blake. Mi fai quest’effetto». Mi spinsi contro le carezze della sua mano.

«Ho appena cominciato, piccola».

Mi baciò con passione sulla bocca, mentre spingeva due dita dentro di me e ne imitava i movimenti con la lingua, riducendomi a un ammasso tremolante. Mi aggrappai a lui disperatamente, con le unghie che gli scavavano le spalle. Il mio respiro divenne affannoso e il cuore iniziò a battermi all’impazzata, mentre trattenevo l’orgasmo che si faceva strada attraverso di me. Le sue dita scivolarono fuori, quindi premette contro di me l’erezione che spingeva sui suoi pantaloni. «Devo andare a prendere un preservativo. Non avevo programmato di scoparti a colazione».

Ridacchiai alla sua esternazione, frustrata e vogliosa di averlo in quell’istante, completamente. «Non sei obbligato, se non vuoi».

«Fidati, voglio scoparti a colazione».

«No, il preservativo, intendevo. Prendo la pillola».

Il suo silenzio raffreddò l’atmosfera all’istante. Cercai di aggiustare il tiro. «Scusami, va bene, ho appena iniziato a prenderla». Merda, il modo migliore di rovinare tutto.

Scosse il capo. «No, non è per quello. Mi fido di te. È soltanto che non l’ho mai fatto senza».

«Non ci pensare, scusa».

A molti ragazzi non piace farlo con il preservativo, ma mi sentii meglio al pensiero che lui l’avesse sempre usato.

«Smettila di chiedermi scusa, Erica», disse con tono brusco.

Mi morsi il labbro, ansiosa di vedere a cosa avrebbe portato tutto quello.

«Brava ragazza», sussurrò con un tono di voce basso, da predatore.

Mi sfilò la maglietta, lasciandomi a petto nudo. I suoi occhi si fecero più scuri. Prima che me ne rendessi conto, mi portò in soggiorno e mi fece sedere sulle sue gambe in modo che lo cavalcassi sul grande divano color crema. Gli diedi un bacio lento e pigro, e gli tosi gli occhiali per metterli al sicuro sul tavolino dietro di noi.

Si abbassò i pantaloni sotto i fianchi, liberando la sua erezione che, con la luce che inondava il soggiorno, sembrava più imponente che mai, grossa e virile; aspettava soltanto me.

Desiderosa di assaggiarlo, mi misi in ginocchio e strinsi le labbra intorno alla sua estremità. Iniziai a leccargli delicatamente la punta prima di prenderlo in bocca più in profondità. Lo succhiavo con avidità, dimenticandomi di me mentre lo veneravo, finché la presa di Blake sui miei capelli si fece più aggressiva e mi fece fermare.

«Mettiti su di me», mi ordinò.

Rabbrividii e la mia pelle divenne bollente. La reazione fisica al suo comando era inequivocabile. Già bagnata, obbedii e mi misi su di lui.

«Ora fammi scivolare dentro. Piano e delicatamente».

Già in fiamme, mi abbassai su di lui con dolorosa lentezza, pronta a godere della nuova situazione. Senza nessuna barriera tra i nostri corpi, si fece strada un centimetro alla volta dentro di me, fino in fondo.

Chiusi gli occhi mentre un gemito delicato mi uscì dalle labbra.

«Guardami», mi sussurrò.

Aprii gli occhi per vedere la fame primordiale nei suoi. Mi prese il viso tra le mani e mi baciò forte. Gemetti, sostenendomi con le mani sulle sue spalle. Si lasciò andare e il suo respiro si fece affannoso. Il suo dito scivolò sulla guancia e giù sulle clavicole, per poi sfiorarmi un capezzolo supersensibile e infine riposare sul fianco per tenermi con possessività. Alzò lo sguardo e mi fissò.

«Sei bellissima».

L’intensità dei suoi occhi mi atterriva. Mi si strinse il petto. Mi sentivo pericolosamente presa da Blake, ma non mi importava, non quando era dentro di me, non quando mi toccava e mi guardava in quel modo. Non potevo fuggire da ciò che provavo per lui.

Risposi con un movimento leggero dei fianchi. Mi teneva con un braccio intorno alla vita, abbracciandomi stretta mentre spingeva in su, muovendosi con forza e dandomi tutto quello che poteva. Trattenni l’aria quando sentii un dolore acuto provocato da una spinta troppo profonda.

La sensazione di fastidio lasciò subito spazio al piacere non appena iniziò a massaggiarmi con movimenti circolari il clitoride.

Un velo di sudore mi imperlava la pelle mentre spingeva dentro di me – spinte costanti e decise che per un attimo mi fecero scordare di quanto potessi dominarlo in quella posizione. Mi accordai con i suoi movimenti, e iniziai a oscillare finché Blake non mollò la presa, cedendomi poco a poco il controllo. Le sue mani si piegarono ansiosamente sui miei fianchi.

«Fidati di me», sussurrai. Stringendomi intorno a lui, feci scorrere le unghie lungo il suo petto e lo baciai con passione, condividendo ogni respiro che ci avrebbe portato al culmine del piacere, per poi crollare, insieme, senza mai distogliere lo sguardo l’uno dall’altra.

 

Caddi addormentata sul divano appena dopo aver fatto colazione. Tra la ginnastica della notte passata e quella della mattina ero esausta. Quando mi svegliai, diverse ore dopo, Blake era seduto sull’altro divano, con il laptop dalla superficie lucida sulle cosce. Era un Blake diverso da quello di prima, completamente vestito e concentrato sullo schermo, mentre digitava con dita abili e veloci.

«Credevo non lavorassi a casa», dissi, stiracchiandomi.

«Sto soltanto facendo qualche ricerca». Non sollevò lo sguardo dallo schermo.

«Che tipo di ricerca?».

Chiuse il laptop e lo mise accanto a lui. La sua espressione si fece più dolce quando incrociammo gli sguardi. «Credo di averlo trovato», rispose con voce pacata.

«Chi?».

Si mise le mani lungo i fianchi.

Oddio. Mi si rivoltò lo stomaco, facendomi risalire la colazione. Avevo ancora la mente annebbiata dal sonno e ci misi un po’ per rendermi conto di quello che Blake mi aveva appena detto. «Come?». Mi alzai a sedere e cercai di schiarirmi le idee.

«Ho tracciato le transazioni del ristorante. In particolare quelle del bar. Ho selezionato quella giusta basandomi sulla fascia d’età e sull’università frequentata».

«Non voglio neanche sapere come hai fatto». Era troppo. Si era spinto troppo oltre.

«Be’, non avevo intenzione di dirtelo comunque. In che modo ho trovato l’informazione è davvero poco rilevante rispetto alla vera informazione, non credi?»

«Perché l’hai fatto? Non me ne importa nulla».

«Credi che identificare l’uomo che ti ha stuprata non sia importante?». Sgranò gli occhi.

«In questo momento della mia vita, no. Perché dovrei aver bisogno di collegare un nome a un volto che preferirei dimenticare?»

«Puoi ancora sporgere denuncia contro di lui. Sei ancora entro i termini di prescrizione».

«E cosa dovrei dire? “Salve, agente, avevo diciotto anni ed ero ubriaca, mi trovavo in una confraternita quando questo stronzo si è approfittato di me”. Scommetto che non avranno mai sentito una cosa del genere prima d’ora».

«E se lo rifacesse?».

Mi venne un groppo in gola al solo pensiero. E se non fossi stata l’unica? Per quanto mi fossi rimproverata per essermi cacciata in una situazione tanto rischiosa, sapevo bene che nessuna si sarebbe mai meritata di vivere un’esperienza così orribile.

Non c’era nulla che potessi fare per cancellare quel ricordo doloroso del mio passato.

Eppure, non ero pronta per affrontarlo. Né quei ricordi, né lui. L’uomo che mi aveva fatto soffrire. E Blake mi costringeva a ricordare, stava puntando un riflettore su dettagli che avevo smesso perfino di sperare di conoscere. In quel momento non volevo sapere. Non volevo più avere niente a che fare con tutto quello.

Mi alzai di colpo, ma il movimento brusco mi fece girare la testa, e persi quasi l’equilibrio mentre mi dirigevo verso la camera da letto.

«Dove stai andando?».

Lo ignorai, mi eclissai in camera. Sul letto era appoggiato un prendisole verde che Blake aveva preso nel mio appartamento mentre dormivo. Sopra c’erano le mutandine di pizzo bianco che avevo perso nella suite di Blake a Las Vegas.

Maledizione. Chiusi gli occhi sopraffatta da tutto. Le giornate trascorse con Blake erano state fantastiche e intense. Stare con lui significava evocare sensazioni delle quali ancora non sapevo cosa farmene. Non volevo ferirlo, ma in quel momento non riuscivo a pensare.

Mi vestii in fretta e presi tutte le mie cose. Lo trovai davanti alla porta d’ingresso che mi bloccava l’uscita.

«Erica, non andartene».

«Non avevi il diritto».

Si accigliò, togliendo le mani dalla porta. «Mi stai dicendo che non avevo il diritto di trovare l’uomo che ti ha fatto del male?»

«Non voglio sapere chi è. Non capisci?». Serrai le mascelle, cercando di ricacciare le lacrime che mi bruciavano ai lati degli occhi. Speravo di essere capace di arrabbiarmi con lui. Quando lo guardai negli occhi, tutto quello che vedevo era smarrimento, ma non mi aspettavo che capisse.

Con mani tremanti, lo scansai. Mi precipitai fuori e scesi le scale. Mi fermai davanti alla porta sperando di sentire i suoi passi, ma non fu così. Entrai nel mio appartamento e chiusi con la catenella. Serrai gli occhi e deglutii, ma niente riusciva a placare le lacrime e i ricordi che affioravano. Scivolai sul pavimento e cominciai a singhiozzare, finché tutto non iniziò a farmi male, maledettamente male.

 

Arrivai a New York alcuni giorni dopo, quella stessa settimana. In qualche maniera ero riuscita a evitare Blake, e gli ero grata per non avermi cercata. A casa, soltanto saperlo così vicino mi distraeva abbastanza, e io avevo bisogno di tempo per pensare. I giorni passati erano stati intensi. Decisi che era giunta l’ora di andare a trovare Alli e fare chiarezza nella mia mente.

Dall’aeroporto JKF presi un taxi che mi portò all’indirizzo sulle colline di Brooklyn che mi aveva dato Alli. Il conducente mi lasciò davanti a un edificio in pietra riccamente ornato. Entrai nell’ingresso enorme e salutai il portiere che mi sorrise educatamente.

«Mi chiamo Erica Hathaway. Sono qui per fare visita a Alli Malloy».

«Certo, la sta aspettando. Si trova nella suite del signor Landon, al numero quarantadue».

«Grazie», risposi cercando di nascondere lo stupore. Alla faccia dei miei tentativi di rimanere fuori dai radar per qualche giorno andando a New York.

Bussai una volta e aspettai qualche secondo. Bussai di nuovo, più forte – ancora niente. Provai a tirare la maniglia della porta. Proprio mentre appoggiavo la mano, Alli venne ad aprire, con gli occhi che le brillavano e la pelle arrossata, come se… Be’, conoscevo quello sguardo. Si avvicinò e mi abbracciò forte.

«Sei arrivata!».

La abbracciai anch’io. Mi era mancata davvero molto. La sentivo piccola e calda tra le mie braccia. Era dimagrita? Prima che potessi dire qualcosa, si tirò indietro e mi guardò. A New York faceva davvero caldo quel giorno, quindi avevo indossato degli shorts di jeans e un top, il tutto arricchito da un cappello di feltro bianco, così per divertimento.

«Stai benissimo», mi disse.

«Sì, ehm, anche tu». Speravo tanto di credere a quello che avevo detto.

«Oddio, no, io mi sento un macello. Mi sono appena svegliata da un pisolino».

«Sì, un pisolino», dissi, notando come cercava di sistemare la ciocca di capelli mentre camminavamo nell’enorme salone con ampie vetrate sul panorama di Manhattan.

Scoppiò a ridere e arrossì. Mi guardai intorno, aspettando di veder spuntare Heath da dietro l’angolo, ma non sembrava essere nei paraggi.

«Bel posto», dissi.

«Vero?».

L’appartamento era a dir poco imponente, proprio come mi aspettavo che fosse quello di qualunque membro della famiglia Landon. I soffitti erano alti, con travi di un legno scuro uguale al pavimento. I mobili e gli accessori erano vivacizzati con punte di colore qua e là. L’arredamento mi ricordava la casa di Blake a Boston.

«Posso offrirti qualcosa da bere?», chiese Alli.

«Sicuro, qualcosa con un bel po’ di ghiaccio».

Entrò in cucina con aria indaffarata mentre io mi accomodavo su uno degli sgabelli dell’isola.

«Allora, quando avevi intenzione di dirmi che saresti andata a vivere da Heath?».

Si affacciò dalla cucina. «Scusami, Erica. Ho soltanto pensato che sarebbe stato più facile parlartene di persona».

«Puoi vivere dove vuoi, Alli. Ma mi avrebbe fatto piacere saperlo. Blake non sa che sono qui».

Si accigliò, poi sentii una porta che si apriva. Arrivò Heath, fresco di doccia e vestito, con un sorriso soddisfatto sul viso. Somigliava molto più a Blake di quanto mi ricordassi. Eppure non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione che nascondesse qualcosa dietro il suo fascino. Certo, Blake aveva diverse sfaccettature. Molte, in realtà, ma non sembrava mascherarle quanto lui.

«Erica, da quanto tempo». Mi abbracciò velocemente prima di raggiungere Alli in cucina. La baciò e distolse lo sguardo.

Heath e Alli erano davvero una bella coppia, e l’energia che irradiavano sapeva di complicità. Ero lì soltanto da pochi minuti e già mi sentivo di troppo.

Mi si strinse il cuore pensando a Blake. Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che lui mi baciasse in quel modo? Eppure, una cosa era certa. Che fosse stato d’accordo o no, avevo bisogno di tempo per elaborare quello che era successo. Il modo in cui Blake aveva curiosato nella mia vita era del tutto inaccettabile, e illegale. Quella violazione mi aveva lasciata nuda e vulnerabile.

Mi rigirai sullo sgabello, mi alzai e camminai verso le grandi vetrate che davano sul parco sottostante. Mi domandavo quanto di tutto quello fosse scaturito dall’aiuto di Blake, oppure se Heath avesse davvero contribuito in qualche modo al suo tenore di vita. Magari ero troppo dura con lui. Aveva fatto innamorare pazzamente Alli, e non l’avevo mai vista così negli ultimi tre anni, vale a dire da quando l’avevo conosciuta. Speravo tanto che non fosse troppo bello per essere vero, per il suo bene.

«Hai fame? Stavo pensando che potremmo pranzare insieme», disse Alli.

«Sarebbe fantastico».

«Ma prima ti faccio vedere la tua stanza». Alli prese la mia valigia.

Heath si prodigò subito a toglierla dalle mani di Alli e ci accompagnò verso un’altra porta, opposta a quella da cui era comparso lui.

Entrammo in una stanza da letto di discrete dimensioni, con gli stessi toni tenui e biancastri e un copriletto rosso. Mi dispiaceva non poter condividere quella camera con Blake. La visione di lui disteso sotto di me, o viceversa, era più che allettante. Il ricordo dell’ultima volta che eravamo stati insieme si riversò su di me, mi salirono le lacrime agli occhi. Scossi il capo. Dovevo scacciare Blake dai miei pensieri.