Capitolo sedici
Quando mi svegliai splendeva già il sole. Blake se n’era andato, ma aveva lasciato un biglietto.
Buongiorno, capo,
ti ho preparato una macedonia per colazione, è in frigo. Ci vediamo stasera.
Con amore, B
Il mio stomaco sobbalzò, come in una di quelle discese ripide sulle montagne russe. Andai in cucina e trovai una coppetta di macedonia in frigo. Sorrisi e me la portai al piano di sotto, nel mio appartamento, insieme al biglietto che attaccai sulla tavoletta di sughero in camera mia. Feci una doccia e mi vestii, cercando di concentrarmi sul mucchio di lavoro che avevo da fare.
Dopo alcune ore, ero riuscita finalmente a fare qualche progresso, quando Sid rincasò in maniera inaspettata. Appena mi vide si fermò.
«Sei tornata».
«Sì. Tu dove sei stato?». Sollevai lo sguardo dallo schermo del laptop.
Aveva i capelli spettinati e gli occhi stanchi. «C’è quella ragazza, Cady. Abita al piano di sotto».
«Non mi dire!».
«Ah, okay», rispose accigliato.
«Perdonami, è la mia maniera per dire “per favore, continua”».
«Ha comprato la nuova versione di Call of Duty, e siamo rimasti a giocarci fino a tardi. Mi sono addormentato lì».
«Lei ti piace?», domandai incurante della possibilità che mi stessi spingendo troppo oltre. Era un bel passo avanti, e Cady era una ragazza abbastanza insolita e nerd per poter stare con lui.
«È carina, sì», rispose muovendo le mani nelle tasche con fare agitato.
«Bene». Cercai di contenere la mia emozione. «Ehi, grazie per aver montato i mobili».
«Di nulla. In realtà mi sono divertito».
Sorrisi. «Soltanto tu potevi dire una cosa del genere».
Fece spallucce. «Forse. Come è andato il viaggio?».
Esitai per un istante. Come potevo censurare la sequenza di eventi che avevano caratterizzato il mio breve soggiorno fuori? L’ex ragazza di Blake mi aveva minacciata, l’incontro inaspettato con Blake e il crescendo di scoperte sui problemi di Heath con la droga, che potevano avere conseguenze su Alli. Ancora non aveva risposto alle mie telefonate o ai miei messaggi.
«Ho trovato alcuni contatti», risposi troncando la conversazione. Alli e Sid non avevano mai avuto un rapporto molto ravvicinato, e lui spendeva più volentieri le proprie energie sul lavoro piuttosto che a rimuginare o ascoltare i drammi personali di lei.
«Mi pare una buona notizia». Poi mi fece capire che si stava ritirando in camera con un cenno del capo.
Lo bloccai. «Ehi, potrei aver bisogno del tuo aiuto con una faccenda».
Si girò verso di me. «Di cosa si tratta?»
«Aspetta qui».
Andai in camera da letto e recuperai la foto dalla scatola delle scarpe. Quando tornai, la posai sul ripiano della cucina, davanti a lui.
«Chi sono?»
«Lei è mia madre. E quello», dissi, puntando il dito sull’uomo vicino a lei, «potrebbe essere mio padre».
Spalancò gli occhi, spostando lo sguardo dalla foto a me più di una volta. «Cosa ha a che fare questo con me?»
«Ho bisogno che mi aiuti a scoprire chi sia».
«Da questa foto?»
«Frequentava l’università di Harvard con mia madre e si è laureato nel 1991. Questo, più la foto, è tutto quello che so».
Prese l’immagine. Si accigliò e arricciò le labbra, con la solita espressione di quando faceva i suoi calcoli; era un buon segno perché significava che poteva aiutarmi.
«Come hai intenzione di procedere?», chiesi esitante.
«A meno che Harvard non tenga una sorta di database digitale pubblico di ex studenti, e dubito che ce l’abbia, ho bisogno di trovare un modo per accedere a quello privato. Quindi cercherò di creare un software per il riconoscimento facciale e partirò da quello».
«Puoi farlo?». Ciò che gli stavo chiedendo richiedeva probabilmente di effettuare un accesso illegale. Il senso di colpa mi stava già consumando. Avrei potuto sempre andare a cercare negli annuari in biblioteca, ma il metodo di Sid era senza dubbio più veloce e accurato.
Annuì. «Quest’uomo è veramente tuo padre?»
«Mi piacerebbe saperlo».
«Va bene, ti farò sapere cosa avrò scoperto», mi disse. Tornò nella sua stanza portando la foto con sé.
Tornai a guardare lo schermo. Avevo ancora un centinaio di cose da fare, tra cui leggere i curriculum che avevo lasciato accumulare dai tempi dell’annuncio per il sostituto di Alli prima del viaggio. Ormai non riuscivo più a concentrarmi. Quanto avrebbe impiegato Sid per quella ricerca? E se fosse riuscito a scoprire qualcosa nel giro di qualche ora? E se invece non riuscisse a trovarlo? Mi mordicchiai un’unghia.
Il telefono squillò, facendomi sobbalzare dalla sedia. Era un numero che avevo memorizzato tra i contatti, quindi seppi subito chi era.
Feci un respiro profondo e risposi con un tono cortese: «Salve, Isaac». Ero davvero felice che qualcuno mi avesse distratta in quel momento.
«Cosa fai stasera a cena?», mi domandò con una voce suadente che mi ricordò quanto fosse affascinante.
Esitai. «Ancora non lo so. Perché?»
«Sono in aereo verso Boston questo pomeriggio. Ho pensato che potremmo vederci, dato che sono in città».
«Oh, certo». Mi sentivo ancora in colpa per aver cancellato il nostro incontro all’ultimo momento senza una scusa veramente credibile. Per quanto ne sapesse, era successo qualcosa al lavoro che mi aveva costretta a partire domenica di prima mattina.
«Grandioso, che ne dici se ci vediamo a Park Plaza, verso le sei?»
«Perfetto, ci vediamo lì allora».
Attaccai. Qualunque possibile entusiasmo per l’incontro con Isaac svanì al pensiero che avrei perso l’opportunità di trascorrere una serata tranquilla a cena da Blake. Già mi mancava troppo. Mi stavo innamorando perdutamente di Blake. E allora? Stavo finalmente mettendo fine ai rimproveri che mi rivolgevo ogni volta che la nostra relazione faceva un passo avanti. Se mi stavo innamorando perdutamente, lo avrei fatto con tutto il cuore e senza rimpianti.
Guardai l’orologio, pensandoci soltanto un istante prima di inviare un messaggio a Blake.
E: Posso venire da te in ufficio?
B: Sì, ti prego.
Indossai una gonna a tubo beige e una camicia bianca abbottonata, lasciai i capelli sciolti e lisci. Mi guardai allo specchio, soddisfatta del mio aspetto professionale per andare a cena con Isaac, ma anche alquanto sexy per lasciare a Blake un ricordo eccitante una volta che me ne fossi andata.
Non vidi Blake quando arrivai, e dal momento che nessuno sembrò notarmi, andai nel suo ufficio. Era davanti al triplo monitor. Dall’altra parte della stanza, i televisori trasmettevano, senza audio, le tabelle azionarie e i telegiornali, ricordandomi perché si fosse imposto la regola di non avere apparecchi digitali in casa.
Chiusi la porta dietro di me.
Si girò sulla sedia con le rotelle. «A cosa devo questo enorme piacere?». Si appoggiò allo schienale con un sorriso affascinante sul viso.
«Ho una cena di lavoro stasera». Mi avvicinai alla scrivania dove lavorava con umili carta e penna, e mi ci sedetti. «E allora volevo venire a trovarti per stare un po’ insieme prima di andare».
«Con chi è l’incontro?»
«Perry».
Fece una smorfia. «Quel maledetto ragazzo non trova pace».
«Lo conosci?»
«Lo conosco abbastanza bene per sapere che è attratto da te».
Scoppiai a ridere davanti alla sua affermazione clamorosa. Sebbene i suoi sospetti non fossero del tutto infondati, non poteva esserne certo. «Ti rendi conto di quanto sembri fuori di testa in questo momento?».
Mi ignorò e si agganciò con le mani dietro alle mie ginocchia, avvicinandosi a me sulla sedia con le rotelle. «Perché non mi fai venire con te? Potremmo dire che sono il tuo socio».
Il mio sorriso svanì. «Non credo sia una buona idea, Blake».
«Perché? Così potrà concentrarsi sul lavoro, e io non dovrò preoccuparmi».
«Prima di tutto, non sei un mio socio, e poi non credo proprio che tu abbia qualcosa di cui preoccuparti. Ha un’aria alquanto professionale, e io avrei modo di parlare più liberamente. Voglio dire, a quattrocchi».
Restò a fissarmi determinato. «Hai deciso così?».
Mi tolsi le scarpe coi tacchi e saltai giù dalla scrivania per atterrare a cavalcioni su Blake. «Stai esagerando», sussurrai. Gli baciai il collo, già inebriata dal suo profumo. Odorava di pulito e di Blake. Gli presi un lobo tra i denti e lo mordicchiai delicatamente.
Lui reagì con un respiro affannoso.
Lo presi per la cintura e lo tirai più vicino a me, facendogli scivolare una mano sotto la camicia. I suoi muscoli erano tesi e spietati, proprio come il suo umore in quel momento.
«Cosa possiamo fare per metterci d’accordo, Blake?», domandai armeggiando con il bottone dei pantaloni.
Mi prese la mano prima che potessi andare oltre.
«Niente di tutto questo».
Incrociai il suo sguardo. Aveva un’espressione seria, ma avevo come la sensazione che sarei riuscita a vincere quella battaglia.
«Oh, dimenticavo, hai una reputazione da mantenere. Niente scappatelle in ufficio, altrimenti i tuoi servitori si ammutineranno, giusto?». Cercai di prenderlo in giro per migliorare il suo stato d’animo attraverso la mia allegria.
Sul viso gli comparve l’ombra di un sorriso. «Cosa farò con la tua bocca intelligente?».
Gli percorsi la mascella con baci delicati. «Avrei qualche idea in mente».
Strofinai le mie labbra sulle sue mentre mi sollevava la gonna sulle cosce. Iniziai ad ansimare, il mio desiderio di lui era già alle stelle. Mi fece scivolare una mano tra le gambe e iniziò a giocherellare nelle mutandine.
Gemetti, spingendo contro la sua mano, il mio clitoride era già turgido al tocco delle sue dita. Spostò il tessuto da un lato, aprendomi e scivolando tra le mie pieghe.
«Sei pronta per me», mormorò.
«Sempre». Iniziai a roteare lentamente il bacino, accompagnando i suoi movimenti.
La sua mano trovò il mio centro e due dita strinsero il clitoride, per poi scivolare dentro in profondità e stimolare di nuovo il clitoride con il pollice. Percorse quel tratto più e più volte, finché tutto il mio corpo non diventò teso per la pressione accumulata, barcollando pericolosamente verso il precipizio della liberazione.
«Vieni, Erica. Adesso. Voglio sentire la tua figa avida godere e stringersi forte».
Affondai il viso contro le sue spalle. Soffocai un grido e mi contorsi contro il suo corpo, il mio sesso si strinse quasi dolorosamente senza averlo dentro di me. Con mani tremanti, armeggiai con la patta dei suoi pantaloni, decisa a porre rimedio. La sua erezione spingeva contro la stoffa dei jeans, unica barriera tra noi. Mi prese ancora una volta per i polsi, girandomi i palmi delle mani per appoggiare un bacio in ognuno di loro.
«Blake», dissi piagnucolando.
«Devi andare all’incontro di lavoro». Aveva una voce neutrale mentre mi lasciava le mani. Mi guardò negli occhi e si mise le dita in bocca, succhiando i polpastrelli bagnati che io avevo cavalcato alcuni istanti prima.
Scopami. Il mio cuore saltò un battito.
«Abbiamo tempo», dissi tornando ad armeggiare con la patta dei pantaloni. Dopotutto, avevo calcolato la mia visita tenendo conto di quello che sarebbe potuto succedere.
«Alzati», mi ordinò dandomi una sculacciata delicata.
A malincuore mi alzai e mi appoggiai contro la scrivania, mentre lui andò nel bagno comunicante con l’ufficio. Tornò con un asciugamano bagnato e mi pulì, un gesto tenero ed eccitante.
«Verrò punita?», domandai, confusa dalla sua espressione risoluta, soprattutto considerando il fatto che mi desiderava anche lui.
«No».
«Tu mi vuoi». Gli massaggiai l’erezione nei pantaloni.
Lui si allontanò. «Ti voglio. Dovrai soltanto sbrigarti a tornare dall’incontro per scoprire quanto». Se ne andò e tornò in bagno.
Rassegnata al fatto che era arrivata la fine del nostro rendez-vous, mi ricomposi. Cercai di stirare via le grinze che si erano formate sulla gonna per tornare a essere presentabile, fisicamente ed emotivamente. Uscii dalla maledetta modalità “Blake” per riprendere quella “lavoro” – non era una transizione facile quando tutto quello a cui riuscivo a pensare era quanto mi sarei sentita alla grande se mi avesse sbattuta sulla sua scrivania. Feci scorrere le dita sulla superficie con i ciondoli dei braccialetti che tintinnarono contro di essa.
Blake tornò da me e spinse il suo corpo caldo contro il mio. Mi baciò una spalla.
«Devo andare», dissi. La mia affermazione aveva un tono a metà tra la frustrazione e la disperazione.
«Sbrigati a tornare». La profondità della sua voce riverberava attraverso di me. «Più tempo mi farai aspettare, più forte ti scoperò».
Ansimai. Sentivo i seni gonfi e pesanti, desideravano essere toccati da lui. Schiacciai il mio corpo contro il suo e lui si lasciò sfuggire un lamento roco. Mi afferrò per i fianchi per poi lasciarmi andare velocemente. Poi se ne andò. Mi girai e lo vidi al minibar. Si versò uno scotch e guardò fuori dalla finestra.
Ero troppo orgogliosa per pregarlo, e non mi andava di psicoanalizzare il suo bisogno di torturarci. Avremmo finito più tardi ciò che avevamo iniziato, ma ormai mi sentivo come se stessi per prendere fuoco. Avrei passato il tempo a contare i minuti che mancavano alla fine dell’incontro. Ovviamente era proprio quello che desiderava Blake. Cos’altro potevo aspettarmi da un hacker maniaco del controllo? Giocava sporco.
Tra le antichità restaurate dell’hotel, i lampadari, le corone d’oro in basso rilievo e la musica di Frank Sinatra che si diffondeva all’ingresso, mi sembrava di essere finita in un film con Humphrey Bogart. Isaac si alzò da una poltrona nell’altra parte della sala. Gli andai incontro, le scarpe con i tacchi ticchettavano sul pavimento di marmo. Indossava un completo di sartoria, ma portava la camicia con il primo bottone aperto. Quel particolare, insieme al sorriso affascinante, gli conferiva un aspetto informale e accessibile.
Quando fummo vicini, si chinò per baciarmi una guancia, senza sfiorarmi, un gesto che mi ricordava molto Sophia.
«Dove andiamo?», domandai con ansia affinché potessimo arrivare subito al dunque.
«Andiamo da Maggiano. È proprio qui di fronte».
Attraversammo la strada ed entrammo nel tentacolare ristorante italiano. Ci accomodammo a un tavolo con separé, l’uno di fronte all’altra, e Isaac ordinò una bottiglia di vino alla cameriera che ci accolse.
«Com’è andata la giornata?», domandai prima che la cameriera se ne andasse.
«Bene, niente di eccezionale. A essere onesti, non avrei affrontato neanche il viaggio, se non avessi dovuto incontrare te».
«Oh. Immagino che il viaggio sia andato bene, comunque». Distesi il tovagliolo sulle gambe, passando ancora una volta le dita sulla gonna spiegazzata con atteggiamento neutrale.
«Allora, raccontami. Perché gestisci la tua attività qui a Boston?».
Sgranai gli occhi e cercai di dare la risposta giusta. «Da qualche anno questa è diventata la mia casa. Non voglio andarmene, a meno che non sia proprio necessario».
«Ci sono molte più opportunità per te a New York».
«Ma non abbastanza per andarmene via di qui, credo».
Inclinò la testa e fece un sorrisetto. «Allora deve esserci qualcuno che ti trattiene qui».
Mi misi dritta sulla sedia e iniziai a tamburellare con le dita sulla tovaglia a scacchi. Cercai di mostrare un’espressione impassibile. Perché insisteva tanto nel mantenere la conversazione sul piano personale? Le mie abilità di parlare del più e del meno non erano mai state buone. Forse avevo bisogno di fare una panoramica sulla logistica del nostro eventuale rapporto lavorativo.
«C’è qualcuno che mi trattiene qui, sì». Appena pronunciai quelle parole lo vidi rimuginare su qualcosa.
«E ti ha regalato questi». Allungò le dita verso l’avambraccio per sfiorare i braccialetti di diamanti che brillavano alla luce soffusa del ristorante. «Bellissimi».
Il contatto mi provocò un brivido, per nulla piacevole. Ritrassi il braccio e sistemai i capelli dietro le orecchie con fare nervoso. Iniziavo a sentire freddo e a desiderare di aver indossato un maglione, qualcosa che mi tenesse calda e che mi nascondesse dal suo atteggiamento provocante. Mi stavo pentendo di aver indossato la camicetta. Avevo slacciato un bottone per Blake, e la cosa mi imbarazzava.
«Grazie». Tenni gli occhi bassi e mi concentrai sul cibo appena arrivato.
«Chi è il fortunato?»
«Blake Landon. Credo che tu lo conosca». Blake era molto conosciuto nel suo ambiente, quindi quel nome lo avrebbe probabilmente scoraggiato.
Accennò una smorfia. «Non scherziamo. Suppongo che Sophia ti abbia avvertita riguardo a lui. È famoso per avere l’abitudine di sbarazzarsi dei suoi passatempi».
Mi lasciai scivolare addosso quel commento. La versione di Blake degli eventi con Sophia era in linea con quello che ci si poteva aspettare da quel tipo di relazione e situazione. Non sempre mi diceva tutta la verità, ma ancora non avevo mai scoperto che mi avesse raccontato una bugia. Inoltre, facevo fatica a immaginare che una tanto fredda e calcolatrice come Sophia potesse far innamorare qualcuno di lei.
«Come hai conosciuto Sophia?», domandai pensando di cogliere l’occasione di sapere qualcos’altro su di lei.
«Usiamo le sue modelle in diversi servizi fotografici per le pubblicazioni, e ovviamente è un’ottima donna d’affari, come te. Prenderai una decisione saggia se ti terrai in contatto con lei».
Strizzai gli occhi e per un attimo i colori della stanza divennero più vividi mentre nella mia mente si delineava la figura di Sophia. Se le fosse mai capitato di toccare in qualche modo Blake, dovevo tenermi assolutamente in contatto con lei.
Isaac mi stava facendo spazientire con tutte le sue domande personali. Dovevo tornare all’argomento principale.
Forse Blake aveva ragione. Se fosse venuto anche lui, Isaac non avrebbe iniziato a divagare, anche se la conversazione sarebbe potuta diventare incredibilmente imbarazzante.
Feci un respiro profondo e cercai di riportare il discorso sull’argomento lavoro. «Hai detto che avremmo potuto trovare una maniera per collaborare. Mi chiedevo cosa avessi in mente».
Sorrise. «Be’, sei tu l’esperta in pubbliche relazioni. Cosa avevi in mente tu?».
La tensione si affievolì appena riuscimmo a concentrarci sul lavoro.
Gli feci qualche domanda sui meccanismi della sua strategia di marketing, dettagli di cui era poco a conoscenza, ma soprattutto mi feci un’idea più chiara di come le diverse sezioni della sua azienda fossero strutturate per ogni pubblicazione. Mi erano venute in mente già un paio di possibilità per collaborare.
Passammo l’ora successiva, più o meno, a discutere dei problemi logistici della promozione incrociata tra le sue pubblicazioni attraverso gli strumenti di Clozpin. Il piano sembrava promettere buoni risultati, e Isaac pareva ascoltare con interesse. Ci accordammo a stendere un progetto generale delle opzioni di cui avevamo discusso.
Dopo che la mia vita personale non fu più argomento di discussione, la conversazione fu produttiva, anche piacevole. Bevemmo tutta la bottiglia di Pinot grigio e gli consigliai altri locali a Boston in cui avremmo potuto incontrarci la prossima volta che sarebbe venuto in città. Durante l’attesa per l’arrivo del conto, piombò il silenzio. Controllai l’ora sul telefonino. Erano trascorse quasi tre ore. Blake con ogni probabilità era su tutte le furie.
Quando uscimmo dal ristorante il sole era già tramontato e io mi sentivo più rilassata per merito del vino. L’aria era mite mentre camminavamo per strada. Mi girai verso Isaac per domandargli da che parte fosse diretto, ma persi l’equilibrio e barcollai. Isaac mi prese e mi strinse forte al petto.
«Sono stato davvero bene con te stasera, Erica». Aveva una voce calda e suadente.
Quella voce avrebbe fatto sciogliere un’altra donna, ma a me faceva lo stesso effetto delle unghie sulla lavagna. Niente sembrava appropriato nel suo atteggiamento, nemmeno dopo aver concluso la cena con risultati assolutamente positivi.
«Grazie, Isaac, ma io…».
Smorzò le mie proteste dandomi un bacio sulle labbra. Appena mi fece scivolare la lingua in bocca e mi strizzò il sedere mi sentii congelare, mentre lui agitava i fianchi contro di me. Urlai nella sua bocca e cercai di dargli un calcio per allontanarlo, ma mi teneva troppo stretta a sé.
Tentai di divincolarmi, ma ogni segnale d’allarme del mio corpo sembrava essersi disattivato. Nel mio corpo salì di colpo l’adrenalina. Fremevo per ribellarmi, per allontanarlo più velocemente possibile. La mia mente mi dava degli ordini ma, contro ogni istinto, esitai, con l’unica speranza che mi lasciasse stare.
«Perché non torniamo in hotel?»
«Lasciami andare, Isaac». Per favore, non può succedere un’altra volta. Per favore.
Scoppiò a ridere, un suono malvagio che mi trafisse. «Credi davvero che a Blake importi qualcosa di te, eh?».
Ribollivo dalla rabbia e mi preparai a dargli un calcio nelle palle, ma poi si irrigidì.
«Perry».
Una voce profonda tuonò dietro di me. Isaac mi lasciò andare mettendosi immediatamente a debita distanza. Si appoggiò al muro di pietra dell’edificio accanto a noi. In un lampo, Blake fu su di lui e lo prese per la gola sbattendolo indietro.
Isaac farfugliò una serie di scuse. «Stava cadendo, io l’ho soltanto tenuta su. Non è successo niente, giuro».
«Non mi sembrava fosse niente».
Io mi guardai intorno per la strada. Era calata la notte ed eravamo soli.
Respiravo a fatica mentre i postumi del panico si facevano largo dentro di me, ma continuai a ripetermi che eravamo al sicuro. Blake era lì e, a giudicare dalla situazione, Isaac non aveva alcuna possibilità. Nel giro di pochi secondi, era ridotto a una patetica pozzanghera di scuse, mentre Blake lo teneva ben stretto, minacciandolo se avesse fatto una mossa sbagliata.
«Lei è mia, Perry. E se poserai ancora una volta un dito su di lei, ti ritroverai senza mani. È chiaro?»
«Sì, sì, assolutamente».
Blake mollò la presa quanto bastava per dargli una pacca violenta sullo sterno facendolo tossire, con la mano ancora attanagliata sulla sua gola.
Non lo avevo mai visto tanto arrabbiato, non fino a quel punto.
Finalmente lo lasciò. «Vattene», gli ordinò.
Isaac si dileguò per la strada verso il Plaza.
Blake si voltò verso di me con un’espressione fredda come la roccia.