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L’impero messicano vive i suoi ultimi bagliori. L’animo eroico di Massimiliano non perde però le speranze di riuscire a ristabilire le sorti di quel paese così travagliato. I tre carri guidati da Hekert sono partiti per il lungo viaggio verso la salvezza. A New York, Amy e i ragazzi si danno da fare per cercare un lavoro.

Messico, maggio 1867

La sera del 14 maggio, nella città assediata di Querétaro, l’imperatore Massimiliano chiamò il colonnello Lopez presso di sé.

«Desidero decorarvi con la Legion d’Onore, colonnello. E ringraziarvi per tutti i servigi resi alla Nazione e alla mia persona.» Massimiliano appuntò la decorazione sul petto del militare. Quindi proseguì: «Se domani notte, durante la sortita, dovessi restare ferito, non lasciatemi nelle mani del nemico. Meglio la morte».

Ma l’auspicato tentativo di forzare il blocco dell’assedio non ebbe mai luogo: la sera stessa il colonnello Lopez ebbe modo di ripagare, con la sola moneta che conoscesse, la fiducia e la stima in lui riposte dall’imperatore. E la moneta di scambio di Lopez era il tradimento.

Il piano di Lopez partiva da lontano: verso il finire del mese di aprile alcuni soldati nemici, appartenenti al reggimento di militari scelti Supremos Poderes, avevano disertato e si erano consegnati al colonnello Lopez. Nelle ristrettezze dell’assedio i disertori non erano riusciti a trovare divise imperiali ed erano quindi rimasti con le uniformi del reggimento d’appartenenza. A Querétaro, dunque, non destava allarme vedere circolare soldati con la divisa dei nemici.

La notte del 14 maggio il colonnello Lopez, alla guida di un manipolo di uomini appartenenti a Supremos Poderes, aveva varcato gli accessi alla cittadella, dicendo alle sentinelle che rientrava da un’ispezione accompagnato dagli ex disertori. In realtà si trattava, invece, di soldati repubblicani veri e propri che, dopo aver aperto altri accessi, erano dilagati all’interno di Querétaro e penetrati nel convento ove alloggiavano l’imperatore e il suo Stato Maggiore.

Tra i primi a essere fatto prigioniero il dottor Basch, medico personale di Massimiliano, che fu disarmato del suo revolver e rinchiuso nella torre campanaria.

Caso aveva voluto che quella notte l’imperatore, colpito da una colica, non riuscisse a prendere sonno. Per questo motivo si accorse per tempo del trambusto e, raccolti attorno a sé alcuni fedelissimi, si allontanò rifugiandosi al Cerro de las Campanas, una collina poco lontana dal convento.

Lì si asserragliarono, in verità con poche speranze di resistere al fuoco nemico. I repubblicani, infatti, impadronitisi dei pezzi degli assediati, avevano rivolto le bocche in direzione del Cerro, prendendo a bombardarlo con tiri ininterrotti. Massimiliano si comportò come si confaceva a un imperatore: non perse mai la calma e, infine, acconsentì che venisse issata sul Cerro la bandiera bianca della resa.

Il generale repubblicano Mirafuentes lo trovò con le armi in pugno e, con il rispetto dovuto a chi cade con onore, chiese all’ex imperatore del Messico di deporle.

Si spegneva così il sogno di un uomo illuminato, capace di rincorrere i propri desideri di modernità e dotato altresì di coraggio e di ardimento.

Ma la pagina più oscura della vita di Massimiliano d’Asburgo e Lorena doveva ancora essere scritta.

 

Hekert apprese della cattura dell’imperatore mentre si apprestava a raggiungere la cittadina di Parral. La notizia non mutò per nulla il suo atteggiamento, anzi, se mai fosse stato possibile, rappresentò un ulteriore sprone per condurre la sua missione a compimento.

Gli incontri con militari repubblicani erano stati quasi quotidiani lungo tutto l’interminabile cammino verso nord. Almeno sino a metà maggio. Oltre quella data erano rimasti vivi solo pochi sporadici focolai di guerra, concentrati nei dintorni di Veracruz e di Città del Messico, unici baluardi ancora nelle mani imperiali.

Con i nemici Jacob non era mai incappato in alcun intoppo: la vista delle divise repubblicane che i suoi indossavano era sufficiente a concedere loro il libero transito. Neppure gli era mai stato necessario esibire i documenti falsi che si era premunito di far preparare: nessuno glieli aveva mai chiesti. Almeno sino a quel giorno di giugno.

 

L’accordo era che, in ogni città, il mattino successivo al loro arrivo, Hekert o qualcuno dei suoi si sarebbe recato nella chiesa principale e lì avrebbe incontrato un uomo della scorta per scambiare delle informazioni.

Quel mattino, domenica 9 giugno, Jacob entrò nella cattedrale di Parral, dedicata alla Madonna di Guadalupe, mentre era in corso una funzione. Fu avvicinato dal caporale Dalisse. Si dissero poche parole, dandosi appuntamento nella città di Chihuahua, la tappa seguente, l’ultima prima di raggiungere El Paso del Norte. Nessuno dei due si accorse che, tra i fedeli riuniti in preghiera, un ufficiale li osservava con sospetto.

 

Il capitano Salvado comandava una compagnia di una dozzina di uomini posti a garantire l’ordine nella città di Parral. Si trattava di riserve tra le file dei repubblicani: i contingenti più validi erano scesi verso sud sospinti dal vento di conquista. Ma il giovane ufficiale, roso dall’umiliazione per essere a capo di un manipolo di sfaccendati, desiderava da sempre mettersi in luce con un’azione degna d’elogio. In città non era amato. E meno di lui lo era stato suo padre, un maniaco dell’ordine militare che, alla fine, era rimasto vittima della sua stessa mania: nel pulire l’arma d’ordinanza, era partito accidentalmente un colpo, facendogli esplodere il cranio. Per questo motivo il capitano Salvado lasciava sempre vuota la prima camera di scoppio nel tamburo del suo revolver.

Quei due stranieri che confabulavano in un angolo della cattedrale non gli erano andati a genio. Salvado lasciò la moglie in chiesa e seguì Hekert fino ai tre carri posteggiati poco distanti. Vide il convoglio dirigere a nord e, mentre camminava di gran passo verso la caserma, incrociò l’altro uomo che usciva dall’ufficio telegrafico. Da lì – apprese il capitano – colui che si firmava Dalisse aveva inoltrato un messaggio a un certo Lee, presso un nodo telegrafico nei paraggi della frontiera. Il testo del telegramma recitava: Mi appresto a sistemare ogni pendenza entro la prossima tappa. Mi farò vivo da Chihuahua.

Convinto di trovarsi di fronte a trafficanti d’armi, Salvado riunì i pochi uomini disponibili e si mise al galoppo sulle tracce dei misteriosi carri e degli altrettanto singolari occupanti che, nel frattempo, avevano abbandonato la città.

 

«Euuuu!» esclamò Hekert tirando a sé le briglie.

I cavalli si fermarono, mentre Salvado e i suoi superavano il carro di testa avvolti in una nuvola di polvere.

«Dove siete diretti, stranieri?» chiese il capitano.

«Trasportiamo finimenti e cibo per cavalli per la guarnigione di El Paso», rispose Hekert.

«A El Paso non ci sono più reparti di cavalleria, sergente. Consegnatemi i vostri documenti di viaggio», disse perentorio Salvado.

Hekert non si scompose, ma neppure l’altro parve lasciarsi impressionare dai timbri e dalle firme apposti sui lasciapassare falsi che consentivano il libero transito al convoglio.

«Salite a bordo ed esaminate il carico!» ordinò il repubblicano a tre dei suoi.

«Qui ci sono solo ferri da cavallo», disse il primo dopo un po’.

«Qui sacchi d’avena», gli fece eco il secondo.

«Qui briglie e finimenti... Ma un momento... c’è... c’è un doppiofondo», gridò il terzo.

Hekert non fece in tempo a reagire che si trovò il revolver di Salvado puntato in pieno viso. Uno dei conduttori messicani, invece, messa mano alla pistola, esplose un paio di colpi a casaccio sotto il telone del suo carro. Uno di questi raggiunse di striscio il militare intento all’ispezione, che rispose fulminando lui e l’uomo seduto a cassetta. Ci fu un attimo di tensione, i repubblicani fremevano con le armi in pugno e le dita sui grilletti. Jacob e Augustus pensarono che fosse finita. Poi gli animi si quietarono e Salvado ordinò ai suoi di ammanettare Hekert e i tre rimasti.

«Adesso vediamo che cosa trasportate davvero...» disse Salvado. «Chissà che in quei doppifondi io non trovi, che so... un carico di armi per gli imperiali.»

Così dicendo il capitano salì a bordo del carro di Hekert con uno dei suoi, mentre gli altri si prendevano cura del ferito e tenevano a bada i prigionieri.

Trascorse qualche minuto, poi dall’interno del carro provenne uno schiocco come di legna spezzata, seguito da un’esclamazione: il capitano Salvado aveva scoperto il tesoro di Massimiliano d’Asburgo.

Fu allora che il caporale Dalisse sbucò dai cespugli alle spalle dei militari repubblicani come un serpente che esce dalla tana. Impugnava un machete lungo poco meno di mezzo metro, la lama affilata come un rasoio. Si trattava di un’arma che i legionari francesi avevano imparato ad apprezzare nel corso delle loro leggendarie campagne. La corta sciabola, saldamente impugnata, calò ferale sul collo del militare impegnato a fasciare il braccio del suo commilitone, quindi affondò nel petto dell’altro. Infine scese ad aprire il capo del soldato ferito.

«Venite a vedere!» gridò incredula la voce di Salvado da sotto il telone. «C’è persino una corona tempestata di rubini!»

Dalisse sfoderò la pistola e si avviò verso il retro del carro.

Hekert udì due spari in rapida successione e un istante dopo vide riapparire l’ex legionario, che in tutta calma riponeva il suo revolver nella fondina. Della pattuglia di repubblicani non restavano che i cavalli.

Hekert osservò i corpi dei soldati a terra e quello del loro comandante poco distante. Il quinto ancora giaceva sotto al telone.

«Grazie, caporale Dalisse», disse. «Adesso liberateci e togliamoci da qui.»

«Aspettate a ringraziarmi, Hekert. Devo ancora portare a termine il mio lavoro», disse Dalisse sfoderando il revolver di Salvado e ponendosi alle spalle dei quattro ancora ammanettati. «Quando vi troveranno, penseranno che il capitano repubblicano abbia giustiziato sul posto dei traditori della causa, prima di essere a sua volta sopraffatto. Naturalmente ai carri penserò io», disse Dalisse puntando la pistola alla nuca di Jacob.

«Non la farete franca, Dalisse. Tra poco arriveranno gli altri della scorta», disse Hekert nell’ultimo barlume di speranza.

«Sarà difficile, olandese», disse il legionario indicando il suo machete. «Questa lama non perdona.»

Dalisse caricò il cane del revolver e premette il grilletto.

L’arma fece cilecca.

L’usanza scaramantica del defunto capitano Salvado di non caricare mai il primo colpo, concesse ad Augustus il tempo per scattare come una molla. La testa del creolo colpì con violenza Dalisse sotto al mento, frantumandogli la mandibola. Il complice del Demone cadde a terra mentre Augustus gli menava un poderoso calcio, spezzandogli l’osso del collo.

Recuperate le chiavi, Hekert e gli altri si liberarono dei cavallotti e nascosero i morti in una macchia di boscaglia: avevano ancora della strada da fare e non potevano correre il rischio di trovarsi le truppe repubblicane alle calcagna.

L’olandese impiegò qualche tempo per rimettere tutto a posto e inchiodare nuovamente le assi del doppiofondo. Mentre inseriva nelle casse i gioielli che il capitano Salvado aveva estratto, gli capitò in mano il piccolo scrigno d’avorio. Hekert lo aprì e i bagliori gialli della Luce dell’Impero si riflessero sin sul telone del carro. Jacob sorrise, come se quei lampi fossero presagio di buona sorte, dopo tutte le peripezie patite. Estrasse il diamante dalla custodia e lo infilò nella tasca segreta della cintura, decidendo che era il più prezioso tra i talismani.

 

Samuelson Gold and Stones era una delle gioiellerie più eleganti di New York. L’anziano signor Samuelson, un ebreo scapolo e gioviale, vantava tra i suoi clienti alcuni degli uomini più ricchi del pianeta. Attribuiva il proprio successo alla dedizione al lavoro e alla perfetta conoscenza di «tutto ciò che è capace di luccicare», come soleva definire i preziosi monili e le pietre in vendita nel suo negozio sulla Quinta Strada. Samuelson era un astuto commerciante, ma sapeva anche circondarsi di collaboratori validi. Quando Gad Hekert gli aveva chiesto di poter lavorare presso di lui, l’anziano gioielliere non aveva avuto esitazioni. Quel ragazzo, lo aveva capito subito, aveva talento.

La gioielleria occupava un palazzetto di quattro piani all’angolo tra la Quinta e la Cinquantottesima Est. Vi lavoravano una ventina di persone, tra commessi, impiegati e direttori di piano. Gad Hekert si era presentato per coprire un posto di fattorino e durante il periodo di prova era stato attentamente osservato dallo stesso Samuelson. Il ragazzo si muoveva agilmente tra i preziosi in vendita, era gentile e affabile con i clienti, scrupolosamente puntuale e, soprattutto, possedeva una conoscenza delle pietre rara, forse unica, per un giovane di quella età.

Un giorno Samuelson lo convocò nel suo ufficio e gli disse: «Sono nel settore da abbastanza tempo per ricordarmi la Casa di Pietre Preziose Hekert ad Amsterdam, ragazzo. Da tuo padre ho acquistato i migliori tagli che abbia mai avuto modo di vedere. Non ho mai conosciuto Jacob Hekert di persona, ma se lui ti è stato maestro, deve essere fiero dell’ottimo risultato ottenuto. A proposito: dove si trova adesso tuo padre?»

«In viaggio, signore. Deve portare a termine un impegno che ha assunto.»

«Sempre nel nostro campo...»

«Direi di sì, signor Samuelson.»

Il gioielliere capì che l’argomento imbarazzava il ragazzo e non volle insistere. Si avvicinò a una delle finestre del suo ufficio, all’ultimo piano, e indicò un edificio distante un solo isolato.

«Sai che cosa è quella?» chiese Samuelson.

«La sede di Tiffany, signore», rispose pronto Gad.

«Sono i soli concorrenti alla nostra altezza. Fanne una questione di orgoglio personale: non possiamo perdere la sfida con Charles Lewis Tiffany. Sai come ci hanno soprannominato, vero?»

«Con il dovuto rispetto, signore: il Re dei diamanti è il signor Tiffany, mentre voi... siete la Volpe dei diamanti.»

Samuelson si fece una grassa risata: «Bravo ragazzo. E adesso, vai. Dovrebbe arrivare un cliente importante e vorrei fossi tu a seguirlo».

«Ma io sono un fattorino, signore.»

«Ti promuovo sul campo. Vai a fare il tuo lavoro, giovanotto: mai fare aspettare un milionario che vuole fare colpo sulla sua bella regalandole un gioiello.»

 

Ruiz non ricordava di aver visto il Demone così agitato: il fatto di aver perso i contatti con la sua fonte d’informazioni sembrava averlo reso ancora più folle.

«Tu non capisci, Ruiz», diceva Lee camminando nervosamente avanti e indietro nel salone di Santa Isabel. «Il caporale Dalisse, il mio infiltrato, avrebbe dovuto liberarsi della scorta, di Hekert e tutti i suoi e consegnarci i carri contenenti il tesoro. Mi ha telegrafato da Parral che avrebbe sistemato tutto e mi avrebbe contattato appena arrivato a Chihuahua. Sono ormai trascorsi cinque giorni e non ho sue notizie. La distanza tra le due città richiede al massimo tre giorni di marcia. Deve essere successo qualcosa.»

«Non sarà che il tuo informatore», obiettò Ruiz, «liquidati gli ostacoli, abbia pensato bene di prendere il largo, lui e il tesoro?»

«Non lo farebbe mai», rispose con convinzione Lee.

«Perché è un uomo d’onore?» chiese Ruiz ironico.

«Perché mi conosce», rispose il Demone e il lampo nei suoi occhi bastò a placare lo spirito sarcastico del suo socio.

«Speriamo almeno che il tuo uomo non si sia fatto scoprire», disse allora Ruiz.

«Se così fosse, Hekert e i carri dovrebbero arrivare in questi giorni all’accampamento del generale Shelby. Penso sia meglio che io rientri.»

«Se tu non avessi insistito per rimpatriare Domodo, adesso potremmo sapere qualcosa dai famigliari di Hekert», argomentò Ruiz.

«Il tuo tirapiedi non mi piace, Ruiz. Spero di poter tornare qui con buone nuove.» Così dicendo Lee abbandonò il Rancho de Santa Isabel.

 

Leticia si svegliò di soprassalto, madida di sudore. Istintivamente il suo braccio si allungò nel letto e la mano cercò il corpo di Mateus. Poi le nebbie del torpore si diradarono e la donna ricordò che lui era partito già da qualche giorno.

Matilde, nella culla accanto a lei, si mosse nel sonno e sospirò, uno di quei respiri profondi dei bambini quando dormono e, forse, sognano. La donna prese a dondolarla lentamente e rivolse la sua preghiera al dio Ogun.

«L’uomo che amo rincorre la tua Luce da lungo tempo. E da lungo tempo cerca di fare giustizia degli assassini che hanno massacrato i tuoi fedeli. Fa’ che ritorni da me. Fa’ che sua figlia lo possa abbracciare ancora.»

 

Mateus scavalcò il muro di cinta che delimitava la proprietà di Santa Isabel e avanzò nel buio come un felino in caccia, il suo passo leggero produceva solo un lieve fruscio che un orecchio umano non avrebbe potuto udire. Raggiunta la villa, il giovane si appostò vicino all’unica finestra illuminata a quell’ora della notte: quella dello studio di Ruiz.

Il criminale sedeva su una poltrona di cuoio, il sigaro in una mano e un bicchiere di tequila nell’altra. Davanti a lui un ragazzino giocava con una sciabola di legno.

«È ora che tu vada a dormire, Esteban», disse Ruiz.

«Non ho sonno, padre», rispose secco Esteban.

«Quando chiedo una cosa voglio che tu obbedisca senza discutere!» La tequila aveva reso l’uomo ancora più aggressivo.

«Domodo dice che gli ordini sbagliati non devono essere eseguiti», gli rispose il figlio, senza mostrare timore.

Ruiz lasciò partire un manrovescio. Il ragazzino si portò una mano alla guancia che andava arrossandosi, quindi alzò sul padre uno sguardo carico di rancore. «Ti odio!» gridò e si scagliò contro di lui.

Ruiz, cieco d’ira, colpì ancora il figlio con un pugno. La testa del bambino scattò all’indietro ed Esteban crollò a terra.

Paride Domodo, sentito il trambusto, accorse nella stanza e si chinò sul ragazzo.

«Portati via quel figlio di puttana», urlò Ruiz, «e non farmelo più vedere. Rimarrà chiuso nella sua stanza in punizione per una settimana.»

La camera di Esteban, così aveva voluto Ruiz perché nessun rumore lo disturbasse, si trovava nell’ala opposta della villa.

Quando Domodo, il ragazzo in braccio, uscì dalla stanza, Mateus decise di entrare in azione.

Ruiz sbolliva l’ira attaccato alla bottiglia, biascicando improperi contro quel figlio che non aveva mai amato.

La figura gli si parò davanti all’improvviso. Ruiz cercò di metterne a fuoco il volto, tra i fumi dell’alcol che gli annebbiavano la vista.

«Tu?» chiese con voce impastata. «L’ultima volta che ti ho visto, brasiliano, eri a un passo dalla fossa.»

Cercò di afferrare la pistola che teneva su un tavolino accanto alla poltrona, ma Mateus fu rapido come un lampo nel colpire il braccio con il taglio del piede. Nel silenzio della stanza si percepì il rumore delle ossa che si spezzavano.

«Come vedi, non sono morto», disse Mateus indicando il braccio che pendeva ora in posizione innaturale. «Anche se sono qui per fare i conti con i morti del tuo passato.»

«Che cosa vuoi da me, bastardo?» disse Ruiz stringendo l’arto fratturato, mentre Mateus, con un altro calcio, allontanava la pistola. «Soldi?»

«Voglio la tua vita.»

Ruiz riacquistò improvvisamente lucidità, gli effetti della tequila svanirono mentre la paura gli dilagava nelle vene.

«E per quale motivo vorresti ammazzarmi? In fondo ti ho salvato...» La mano sinistra dell’uomo abbandonò la presa sul braccio e si insinuò sotto il cuscino della poltrona.

«Mi ha salvato il presidente Juárez. Tu volevi soltanto il tuo rancho. Se fosse stato per te, mi avresti sotterrato volentieri. Ma non è questa la storia», disse Mateus.

«Allora perché sei qui?» chiese Ruiz alleggerendo il peso dalla natica sinistra.

«Il Terreiro, ricordi?»

«Terreiro? Non so di che cosa parli.»

«Allora ti rinfrescherò la memoria, dato che a me è finalmente ritornata: tu e i tuoi compari siete penetrati in un tempio dove si stava officiando un rito religioso. È accaduto molti anni fa, in Brasile. La sacerdotessa del culto era mia madre. Le avete sbriciolato il cranio come a un animale e avete ammazzato tutti gli altri per un pugno di pietre preziose. Siete rimasti tu e Lee. E ve la farò pagare.»

«Ti stai sbagliando, ragazzo. Non ho mai fatto una cosa del genere. Vai a cercare Lee, piuttosto. Si è unito a un contingente di sudisti rinnegati agli ordini del generale Shelby. Si fa chiamare Donier, sergente Donier. Lo troverai sulle rive del Rio Bravo, alla ricerca di un guado nei pressi di El Paso del Norte. Da lì dovrebbe transitare con un convoglio di carri. Quanto a tua madre... forse Lee ne sa qualcosa, ma con quella storia io non c’entro nulla.»

Dinanzi alla forza con cui Ruiz perorava la sua menzogna, anche la certezza che Mateus aveva maturato vacillò per un istante. Quell’indecisione fu sufficiente perché la mano di Ruiz afferrasse il calcio della pistola tascabile che teneva sotto il cuscino della poltrona.

La canna della Philadelphia Derringer monocolpo era adesso puntata al viso di Mateus. Ruiz cambiò espressione, negli occhi gli scintillava l’odio che aveva covato mentre la sua vita era minacciata.

«E invece mi ricordo bene, bastardo! Ricordo il culo di tua madre che si muoveva al ritmo dei tamburi. Ricordo le teste di quegli imbecilli invasati che esplodevano come zucche mature. Sai come ho costruito il mio impero? Grazie alle pietre che ornavano il simulacro del vostro dio. Solo degli idioti possono credere a simili stronzate, e gli idioti non meritano la ricchezza! Quella puttana di tua madre non voleva morire e Lee è stato costretto a farle saltare la testa. Spero che con te sia più facile.» Così dicendo Ruiz caricò il cane. Mateus scartò di lato proprio mentre l’altro premeva il grilletto. Il proiettile gli sibilò a pochi centimetri dalla testa e si andò a conficcare nella parete alle sue spalle.

Fu allora che il giovane scatenò tutta la sua rabbia e si scagliò contro Ruiz, che nel frattempo era balzato in piedi. La gamba destra di Mateus scattò e colpì il messicano sotto il mento. Ruiz roteò il braccio sano, brandendo il calcio della pistola come un’ascia. L’arma calò con violenza sul capo di Mateus che, carico di un odio antico, non provò dolore, né si fermò. Le mani del brasiliano, strette a pugno, si mossero invece letali e velocissime sferrando una gragnola di colpi sul volto dell’assassino di sua madre.

Ruiz indietreggiò barcollando, accecato dal sangue che gli colava dalle sopracciglia spaccate, mentre dall’interno della casa giungevano le voci concitate dei domestici e delle guardie, allertate dallo sparo.

Mateus respirò allora profondamente, prese una piccola rincorsa e si librò in aria. Entrambi i piedi, perfettamente allineati, ricaddero sul costato dell’altro, sfondandolo. Un rantolo e un rivolo di sangue uscirono dalle labbra del messicano, mentre i suoi occhi cercavano un ultimo appiglio e i polmoni, perforati dalle costole spezzate, si contraevano alla spasmodica ricerca d’aria.

Poi Ruiz si accasciò a terra. Morto, finalmente.

 

Mateus fece appena in tempo a fuggire, uscendo dalla porta finestra da cui era entrato. Udì alcuni colpi d’arma esplosi alle sue spalle, ma il buio gli fu complice e riuscì a dileguarsi prima che gli uomini di Ruiz si lanciassero al suo inseguimento. Una volta raggiunto il suo cavallo, nascosto poco lontano dal rancho, Mateus si portò al sicuro lungo una via di fuga studiata minuziosamente nei giorni precedenti. Stranamente non si sentiva sollevato: il suo compito non poteva considerarsi concluso. La sete di vendetta si era anzi ancor più inasprita. Un altro assassino, un demone, non aveva ancora raggiunto il posto a lui riservato all’inferno.

La luce dell'impero
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