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Un nubifragio di quella portata è capace di mettere a repentaglio la vita di chiunque sia in cammino dentro un’inestricabile foresta. Ruiz, che invece è scampato alla furia della natura, si appresta a portare a termine il suo piano.
Poco più a monte, nel punto in cui il torrente incontrava una strettoia di rocce, le piogge dei giorni precedenti avevano causato l’accumulo di una voluminosa massa di detriti, tronchi e vegetazione che impedivano il deflusso. Si era così creato un lago, che aumentava sempre più la sua portata.
All’improvviso la diga di tronchi cedette e una gigantesca massa d’acqua precipitò a valle a una velocità furibonda.
Nel campo, tutti dormivano. In pochi istanti l’onda di piena spazzò via tende e poliziotti.
Il capitano Da Naiara venne travolto insieme ai suoi uomini. Annaspò, cercò di guadagnare la superficie, ma una forza spaventosa lo respinse verso il fondo. In balia della corrente, fu trascinato in un vortice, poi batté il capo contro una roccia e perse i sensi.
Anche Leticia e Mateus dormivano profondamente quando il carro prese a dondolare come se la mano di un ciclope si divertisse a scuoterlo. Quindi iniziò una corsa inarrestabile, trascinato dall’impeto della corrente.
«Dio mio, che sta succedendo?» urlò la ragazza, con il carro che sembrava una nave sballottata dalla tempesta.
«Siamo stati travolti da un’onda di piena», rispose Mateus che, alzatosi in piedi, guardava attraverso l’inferriata del finestrino.
«Non si ferma!» gridò ancora Leticia. La velocità aumentava, al pari degli scossoni subiti dal carro.
«Sdraiati sul pavimento e puntellati con mani e piedi!» le ordinò Mateus.
Lungo la sua folle corsa, il carro urtò con violenza contro le rocce. Poi si mise di traverso, mentre sul fianco la pressione dell’acqua e del fango si faceva sempre più forte.
«Resisti!» incitò Mateus.
Il carro si capovolse, e un potente liquido melmoso cominciò a penetrare tra le assi e dall’apertura.
«Rischiamo di annegare!» gridò il ragazzo annaspando. L’acqua aveva ormai invaso l’interno.
«È finita!» mormorò Leticia, boccheggiando.
«Stiamo prendendo velocità», le rispose Mateus. «Dio Ogun, aiutaci!»
Il carro percorse alcune decine di metri senza incontrare ostacoli, prima di schiantarsi contro un macigno. Le assi gemettero e quindi esplosero per l’impatto.
Mateus e Leticia furono catapultati all’esterno e atterrarono in un acquitrino prospiciente una piccola spiaggia. Nell’impatto il cavallotto stretto attorno al polso destro del ragazzo, forse chiuso male nella fretta, si allentò.
Le prime luci dell’alba andavano rischiarando una scena apocalittica. I due giovani si trascinarono fuori dall’acqua esausti. Ma non fecero in tempo neppure a riprendere fiato.
La fortuna del capitano Da Naiara era stata quella di aver perduto subito i sensi. Se così non fosse stato, si sarebbe ferito ovunque nell’inutile tentativo di ripararsi dagli urti contro le rocce. Invece, era scivolato a corpo morto, trasportato dall’onda di piena.
«Guarda laggiù!» disse Mateus indicando un punto, poco prima di una serie di rapide.
Da Naiara giaceva con la testa fuori dall’acqua, impigliato tra i rami di un tronco che affiorava appena.
«Forse è solo svenuto», disse Mateus e si calò di nuovo nella corrente, tra i mulinelli, cercando di raggiungere il poliziotto.
«Fermo! Lui non lo farebbe per te!» gli urlò dietro Leticia. Ma ormai Mateus era a poche bracciate dal capitano.
Quando si sentì toccare, Da Naiara ebbe un sussulto. Aprì gli occhi e guardò incredulo il ragazzo che cercava di liberarlo dai rami per portarlo in salvo. Farfugliò qualche parola confusa e poi ripiombò nell’incoscienza.
Il giovane riuscì a trascinarlo, non senza difficoltà, fino alla spiaggia, quindi lui e Leticia si adoperarono per rianimarlo.
«Tu hai rischiato la vita per salvare la mia. E io ti sto conducendo alla forca», furono le prime parole di Da Naiara.
«Era mio dovere. Non potevo lasciarvi morire senza tentare di salvarvi.»
Il capitano mise una mano in tasca, ne estrasse una chiave, fece cenno a Leticia di avvicinarsi e gliela consegnò.
«Apre i manicotti», disse Da Naiara, il petto scosso dall’affanno. Quindi proseguì con un filo di voce. «Adesso andate, prima che ci ripensi. Dirò a tutti che siete morti annegati.»
A diverse miglia di distanza la violenta tempesta della notte si era placata, veloce come era sopraggiunta.
La canoa scivolava sulla superficie del Jiquiriçá. La corrente, forte in alcuni tratti, era d’ausilio ai rematori nella discesa verso la foce. Da lì Ruiz avrebbe potuto scegliere se proseguire lungo la fascia costiera o imbarcarsi su uno dei battelli che effettuavano cabotaggio lungo la costa.
Le due comparse della messinscena reclamavano il compenso pattuito e anche i rematori sembravano mal sopportare l’attesa nel ricevere quanto loro promesso. La verità era che Ruiz aveva speso quasi ogni sua risorsa per organizzare la truffa e non avrebbe avuto modo di saldare i suoi complici prima di aver incassato il pagherò imperiale. D’altra parte quegli uomini gli erano necessari per navigare sui fiumi e districarsi lungo sentieri per lui del tutto impraticabili. Una volta in vista del mondo civile avrebbe pensato a liquidare adeguatamente ogni loro pretesa.
La canoa aveva navigato con qualche difficoltà nel fiume ingombro di tronchi e rami trasportati dalla corrente. Poi, poco prima dell’imbrunire, Ruiz e i suoi avevano raggiunto la foce del Rio Jiquiriçá. Il messicano aveva chiesto ai rematori di approntare un riparo per la notte. Il mattino seguente sarebbe stata sua cura – così aveva detto – congedarsi da loro dopo averli pagati, come promesso.
I rematori indigeni avevano impiegato poco tempo per allestire il campo: avevano disboscato una piccola area e costruito tre capanne di frasche per proteggere il sonno del drappello. All’indomani ognuno sarebbe andato per la propria strada con le tasche piene.
Il fuoco ardeva a pochi passi dal ricovero sotto il quale si erano riparati i rematori. Nell’altra capanna riposavano le due guardie. La fiamma avrebbe tenuto lontani gli insetti, i serpenti, le bestie feroci. Ma nulla poteva la brace ardente contro la malvagità assassina di un uomo.
Carlos Ruiz scivolò accanto al fuoco. La lama affilata che stringeva in mano rifletté dei bagliori sinistri. Entrò nella capanna senza far rumore, leggero e micidiale come un animale da preda. Non ebbe esitazione a recidere la gola del primo dei suoi complici. L’uomo passò dal sonno alla morte con un rantolo, mentre Ruiz conficcava la lama nel cuore dell’altro. Quindi il messicano si diresse verso il luogo in cui dormivano i rematori.
Questa volta non si sporcò neppure le mani, affidando alle sue due pistole, che mai abbandonava, l’eliminazione di quegli scomodi testimoni.
Lavorò fino al sorgere del sole per appesantire i cadaveri con delle pietre, poi li caricò sulla canoa che abbandonò alla corrente del fiume, dopo averne squarciato la carena a colpi d’ascia. Alle prime luci dell’alba rimase a osservare da riva l’imbarcazione che colava a picco, con il suo carico di morte, al centro del Jiquiriçá.
Era tarda mattinata quando s’imbarcò su un piccolo mercantile che discendeva il fiume diretto alla volta di Salvador de Bahia.
Da qualunque affaccio sulla cala di Todos os Santos, era impossibile non scorgere il piroscafo. Il Kaiserin Elisabeth dondolava placido nelle acque del golfo con le sue mille tonnellate di stazza e i suoi ottanta metri di lunghezza. Il bianco della tuga rifletteva un sole accecante, mentre il nero dell’opera morta sembrava catturarne i raggi incandescenti per immagazzinarne l’intenso calore nel ventre della nave.
L’ammiraglio Tegetthoff si godeva la brezza fresca che spirava dal mare. Appena tornati a Trieste si sarebbe lamentato con lo Stato Maggiore della Kriegsmarine: quelle divise piene di fronzoli e pennacchi non si addicevano affatto al caldo clima brasiliano. Ma quel supplizio ancora non era finito: secondo i programmi concordati con Sua Altezza, Tegetthoff avrebbe dovuto muovere da Salvador de Bahia entro un paio di settimane e attendere i componenti della spedizione naturalistica a Ilhòs. Lì Massimiliano e gli altri avrebbero trascorso a bordo alcune giornate di riposo, per poi inoltrarsi nuovamente nel Mato Virgem. Ripartiti gli esploratori, l’ammiraglio avrebbe fatto rotta su Puerto Seguro. A quel punto, finalmente, l’Arciduca e il suo seguito si sarebbero reimbarcati per il rientro in patria.
Salvador de Bahia era una bella città, piena di quel genere di vita che i suoi uomini apprezzavano. L’ammiraglio si sfilò il copricapo, un’ingombrante feluca con fregio d’oro a indicare il grado, si asciugò la fronte e osservò il profilo della costa dominata dalla mole della chiesa di Nostro Signore di Bonfim. Chinò la testa e si ritrovò a recitare una preghiera. Stava ancora segnandosi il petto con la croce quando vide sopraggiungere un piccolo battello a vapore. Un uomo in abiti civili stava in piedi a proravia del fumaiolo. Tegetthoff fu preso da un’inspiegabile sensazione di disagio quando scorse il passeggero che i suoi stavano conducendo a bordo.
Carlos Ruiz avanzò a passo deciso verso i marinai austriaci che, all’imbarcadero, facevano la spola tra la terra e la nave in rada con una veloce scialuppa a vapore.
«Buongiorno, signore», disse al guardiamarina. «Ho bisogno di conferire con l’ammiraglio Tegetthoff.»
L’ufficiale squadrò quel giovanotto elegante che gli si rivolgeva con tono autoritario.
«Siete atteso, signor...?» domandò, mentre scorreva il libro delle consegne.
«Nossignore. Ma credo che questo», Ruiz mostrò la busta che recava il sigillo di Sua Altezza Imperiale Massimiliano, «sarà sufficiente per essere ricevuto. Mi chiamo Danielito Ortega.»
«Permettete?» chiese l’ufficiale allungando una mano verso il plico.
«Sua Altezza», disse Ruiz, riponendolo prontamente nella tasca interna della giacca, «si è raccomandato affinché l’ammiraglio – e lui solo – possa verificarne il contenuto. Quindi, se volete condurmi a bordo... Con una certa urgenza, grazie.»