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Non è facile dissimulare una scia di morte, specie se si ha un Demone sulle proprie tracce. Chi, invece, come Mateus e Leticia, ha sofferto per il male altrui, subisce l’onta dell’accusa di esserne l’artefice. Almeno sino a che il coraggio non gli viene in aiuto.

Dopo la strage del Terreiro, il Demone Lee Cole si era rintanato in un luogo sicuro. Sapeva che un forestiero avrebbe suscitato curiosità ovunque si fosse recato. Tanto più uno straniero con una faccia spigolosa come la sua.

Si era quindi ritirato in una zona quasi disabitata, a distanza di sicurezza da Salvador de Bahia. Ogni tre giorni un giovane fidato e ben pagato gli recapitava viveri, alcol e un giornale. Il ragazzo non sospettava che fosse coinvolto nel massacro perpetrato al Terreiro e, anche se lo avesse intuito, avrebbe tenuto la bocca chiusa. Soldi e paura comprano il silenzio di chiunque. Il Demone sembrava una belva in gabbia, nell’attesa di qualche notizia che lo mettesse sulle tracce del traditore. Se mai fosse riuscito a ritrovarlo gliel’avrebbe fatta pagare. Ma i giorni passavano e Carlos Ruiz sembrava essersi dissolto nel nulla. Lee conosceva soltanto un paio di ricettatori in tutto il Brasile in grado di gestire una partita di pietre così importanti. Fortunatamente era riuscito a contattarli prima di darsi alla macchia: non appena Ruiz avesse tentato di disfarsi del bottino, lo avrebbero avvertito.

Adesso doveva solo aspettare: la fretta induce ai passi falsi.

La notizia lo fece trasalire: un sedicente ingegnere ferroviario era sospettato di aver assassinato a Rio una facoltosa vedova e suo figlio, impossessandosi di tutto quello che conteneva la cassaforte della loro azienda. La stessa mattina del misfatto, l’omicida si era recato presso il gioielliere di fiducia della donna, chiamato a stimare due smeraldi grezzi di grande valore, perché la vedova li aveva acquistati proprio dal suo sospetto assassino. Il gioielliere aveva riferito alla polizia che la donna gli aveva affidato le pietre affinché fossero tagliate e montate.

«Finalmente una traccia!»

Pochi giorni più tardi Lee si imbarcò per Rio de Janeiro: non s’illudeva che Ruiz fosse rimasto in città ma, seguendo quella pista, forse avrebbe potuto rintracciare l’infame.

 

Il giovane Mateus aveva ormai superato il suo quarantesimo giorno dopo sei settimane d’isolamento in carcere. Lo avevano arrestato appena era tornato in città. Quando il capitano Da Naiara lo aveva interrogato, a nulla era valso professarsi innocente: le prove a suo carico – diceva il poliziotto – erano schiaccianti.

I gendarmi, infatti, avevano rinvenuto il suo cappello all’esterno della baracca dove giacevano due cadaveri. Attorno al cappello era arrotolata una collana che sua madre, la sacerdotessa, non abbandonava mai. L’aveva al collo anche il giorno della strage, avevano confermato alcuni testimoni.

«Non so ancora quale ruolo tu abbia avuto in questa storia, Mateus Correia», gli aveva detto Da Naiara al termine dell’interrogatorio. «Arriverò in fondo alla vicenda, ci puoi giurare. Nel frattempo continua pure a negare ogni responsabilità. Tu sei un assassino della peggior specie, Correia: accecato dall’avidità, hai ucciso – o lasciato che uccidessero – tua madre e i tuoi amici. Sarò contento solo quando ti vedrò pendere da una forca.»

Il carcere era stato ricavato in un’ala del palazzo municipale, nel centro della città di Salvador. Scortato dalle guardie, Mateus stava camminando lungo i corridoi bui e puzzolenti dell’edificio. I loro passi rimbombavano nel cervello del ragazzo. Era disorientato: tutto quello che gli stava accadendo sembrava un incubo e sperava solo di svegliarsi presto.

Una delle guardie aprì la pesante porta di ferro e un’altra lo spinse nella cella. L’aria era irrespirabile. C’erano una ventina di prigionieri seminudi all’interno di una stanza di pochi metri quadrati. Tutti si voltarono a guardare il nuovo venuto. Buona parte di loro aveva il corpo quasi interamente ricoperto da tatuaggi. Senza dire una parola Mateus si rintanò in un angolo, ma subito un recluso, il volto segnato dalle cicatrici, gli si parò davanti: «Chi ti ha dato il permesso di metterti qui?»

«Se fosse per me, me ne andrei subito», rispose Mateus.

«Fa lo spiritoso, il ragazzino», disse ancora il carcerato. «Stammi a sentire: qui ogni angolo appartiene a qualcuno e per occuparlo bisogna chiedere il permesso al proprietario.»

«Con chi devo parlare per potermi appoggiare a questo muro?»

«Tu non mi piaci. So tutto di te, le notizie qui dentro corrono veloci. Ma il fatto che tu abbia ammazzato una trentina di sgozzagalline non ti rende un duro.»

«Quelli erano i miei amici, io non...»

«Certo, ragazzino. Sei innocente, come ognuno di noi.» Il recluso allargò le braccia, per cercare il consenso degli altri prigionieri. «Che ti aveva fatto quella puttana di tua madre per liquidarla in quel modo?» Il detenuto si mise in guardia, i muscoli, tesi nello sforzo, facevano danzare in modo sinistro i tatuaggi sul suo corpo. «Adesso vediamo se sei davvero un uomo.»

«Ascolta...»

Il colpo raggiunse il ragazzo in pieno volto. Mateus si pulì col dorso della mano il rivolo di sangue che scendeva dal labbro, poi si mosse con una rapidità sorprendente. Anni di capoeira – l’arte marziale creata dagli schiavi africani deportati in Brasile – che il ragazzo aveva imparato nelle strade della sua infanzia, si scatenarono in tutta la loro micidiale potenza in pochi, velocissimi movimenti.

Il torso di Mateus si piegò, il capo arrivò a sfiorare il pavimento, mentre la gamba destra scattava in alto come una molla. Il carcerato non ebbe neppure il tempo di capire da dove provenisse la minaccia: il piede del giovane lo colpì violentemente alla mascella. Quella reazione inaspettata disorientò il recluso, che si avventò alla cieca contro il suo avversario. Mateus si scansò di lato e, mentre l’assalitore si sbilanciava, gli affibbiò un pugno alla base del collo. Gli altri carcerati si disposero in circolo e incominciarono a urlare incitando entrambi.

I fischietti d’allarme delle guardie risuonarono nei corridoi pochi istanti più tardi. I poliziotti fecero irruzione nella cella proprio nel momento in cui Mateus metteva al tappeto il suo avversario con un calcio secco assestato alla tempia. Il giovane si ritirò in silenzio nell’angolo e non ebbe nessuna reazione quando gli serrarono i cavallotti ai polsi.

 

Il capitano Da Naiara si era convinto che la ragazza, arrestata insieme a Mateus e poi rilasciata, non avesse nulla a che fare con la strage, ma che, come raccontava, si fosse salvata per puro caso. Era altrettanto sicuro che negasse ogni responsabilità di Mateus Correia solo per paura. Questo il motivo principale per cui aveva già interrogato Leticia per ben tre volte. Esisteva però un’altra ragione per quei reiterati colloqui: la giovane era rimasta segnata dalla terribile esperienza e si era affidata anima e corpo alla protezione della giustizia. Il capitano temeva che, facendo venire meno il suo appoggio, Leticia si sarebbe impaurita per poi scomparire nel nulla.

Ma le vere intenzioni della giovane erano ben altre.

Da Naiara l’aveva convocata, ancora una volta, per quel pomeriggio, dopo aver spedito il sergente Vito a fare rilievi al Terreiro.

A seguito della rissa di quel mattino, Mateus era stato rinchiuso, in catene, in una cella di punizione poco distante dall’ufficio del capitano. Così, lui e i suoi sottoposti lo avrebbero interrogato ogni volta che ne avessero avuto voglia. E avrebbero continuato fino a quando non avesse confessato.

«Vorrei», disse Da Naiara con tono suadente, «ricostruire ogni particolare di quella sera, Leticia. Lo abbiamo già fatto più volte, ma forse puoi ricordare qualche altro dettaglio, qualcosa che magari ti è sfuggito... Solo parlandone riuscirai a vincere ogni paura.»

Il capitano le sorrise, sperando che quel gesto fosse sufficiente a domare il terrore dipinto negli occhi di Leticia.

Da Naiara aveva un viso aguzzo con due occhi sporgenti e un paio di baffoni che lo facevano sembrare un tricheco dimagrito dopo un lungo digiuno. La ragazza sospirò e cominciò, per l’ennesima volta, a raccontare quei terribili momenti.

«Sei stata brava», disse il capitano, «a rimanere nascosta sotto due cadaveri crivellati di colpi. Per questo non hai visto in viso gli assassini.»

«No. Sentivo solo gli spari e il sangue di quei poveri morti colarmi addosso», ribatté Leticia, il volto segnato dalle lacrime e le mani pervase da un tremito.

«Devi stare tranquilla. Nessuno potrà farti del male, adesso», disse il capitano cercando di calmarla. Ma tutto sembrava inutile.

Singhiozzando, Leticia si alzò in piedi e abbracciò Da Naiara di slancio, come se cercasse la sua protezione. Il capitano, non senza imbarazzo, rispose all’abbraccio, mormorando parole di conforto. Almeno sino al momento in cui si trovò la sua stessa pistola d’ordinanza puntata in mezzo alla fronte.

Il volto di Leticia non era più quello di una bambina innocente e impaurita. Le sue mani avevano smesso di tremare e sapevano bene come tenere diritta un’arma.

«Adesso mi dici dove lo hai rinchiuso», disse risoluta la ragazza.

«Non scherzare, Leticia...»

«Dov’è Mateus?»

«Abbassa la pistola, Leticia!»

Lei, invece, armò il cane e incalzò: «Non è stato Mateus ad ammazzare tutta quella gente. Non posso vederlo pendere da una forca senza far nulla per salvarlo. Portami da lui».

 

Mateus aveva le gambe che gli dolevano: la cella era così angusta da costringerlo a restare rannicchiato. Il capitano era entrato più volte e lo aveva picchiato con un manganello di legno.

«Questo è nulla. Vedrai che bel servizio ti aspetta. Ti conviene confessare, delinquente», lo aveva minacciato.

Quando udì la chiave girare nella serratura, il giovane si preparò al peggio.

Nella luce che filtrava dalle finestre del corridoio, Mateus scorse la figura snella di una donna. Solo quando parlò, riconobbe Leticia.

«Vieni, abbiamo poco tempo. E tu, togligli le catene. Muoviti, capitano», disse la giovane, continuando a tenere il poliziotto sotto tiro.

«Fermati fino a che sei in tempo», implorò Mateus. «Stai rischiando una condanna a morte.»

«Poco m’importa di quello che rischio: tu sei innocente e io ti porto fuori di qui.»

«Ma come faremo?» chiese Mateus massaggiandosi i polsi.

«Seguimi», rispose la ragazza.

 

Dal suo ufficio, Da Naiara gridò l’ordine di portare subito una carrozza davanti alla palazzina. Pochi istanti dopo, un uomo uscì nel cortile a passo sostenuto, in divisa, la visiera del berretto di ordinanza abbassata a coprirgli il volto. Una ragazza era al suo fianco. I due salirono sulla carrozza e, protetti dall’ombra della capote, si allontanarono indisturbati dalla caserma.

Quando il sergente Vito rientrò dopo un’inutile caccia agli indizi presso il tempio del Candomblé, era ormai sera. Chiese del capitano e la risposta non mancò di essere allusiva: «Il signor capitano si è recato in... perlustrazione, diciamo, con quella signorina che stava interrogando».

Prima che il sergente si azzardasse a forzare la porta del suo ufficio, era notte fonda.

Da Naiara era stato legato alla sedia come un insaccato. I suoi tentativi di liberarsi gli avevano solo procurato profonde piaghe ai polsi, alle caviglie e ai lati della bocca, chiusa da un bavaglio.

Una volta libero, il capitano prese ad agitarsi come un indemoniato: dapprima riempì d’insulti i suoi uomini, colpevoli di essersi fatti ingannare da due ragazzi. Quindi diede ordine di impegnare ogni militare disponibile nelle ricerche: l’affronto subìto bruciava troppo perché quei due potessero passarla liscia.

 

Nel mezzo di una serrata caccia all’uomo, la notizia di un evento epocale distolse l’attenzione di Da Naiara dalla coppia di fuggitivi: nel gennaio seguente l’Arciduca Massimiliano d’Asburgo e Lorena avrebbe fatto visita alla città, prima tappa di un viaggio che avrebbe portato l’altezza reale europea a visitare il Brasile.

Una volta terminati i preparativi per il cerimoniale d’accoglienza e organizzata ogni attenzione alla sicurezza dell’Arciduca, Da Naiara riprese a cercare i due assassini. Perché adesso sua ferma convinzione era che entrambi fossero complici della strage del Candomblé.

 

La cittadina di Itaberaba era fatta di poche case basse e colorate, abitate dai minatori che erano accorsi nella zona attratti dai frequenti rinvenimenti di pietre preziose nella Chapada Diamantina.

Mateus e Leticia impiegarono quasi dieci giorni per raggiungerla, superando le quasi cento miglia che la separavano da Salvador. Procedevano guardinghi anche lungo i sentieri nella foresta, come due animali braccati e, almeno in un paio d’occasioni, sfuggirono in maniera fortunosa alle pattuglie di militari.

Nel corso del lungo cammino e durante le notti all’addiaccio, Mateus spiegò alla sua compagna d’avventure che a Itaberaba vivevano alcuni suoi cugini, le sole persone di cui potesse fidarsi. Lì avrebbero trovato alloggio e protezione. Una volta che le acque si fossero calmate avrebbero deciso il da farsi.

Mateus aveva vissuto in quella cittadina per dieci anni della sua vita, mentre il padre si calava ogni giorno nelle viscere della terra. La stessa cosa aveva fatto suo nonno, un gigantesco schiavo di origine angolana, strappato all’Africa ancora in tenera età. La storia di famiglia narrava che, durante il crollo di una galleria, il nonno avesse salvato la vita al proprietario della miniera mettendo a repentaglio la propria, riacquistando in tal modo la libertà e il titolo di sorvegliante capo.

Ciò che il padrone non sapeva e non avrebbe mai saputo era che, prima di quella circostanza, il meritevole schiavo aveva rubato le due pietre più preziose che mai fossero state estratte dalle miniere di quella terra così ricca: due diamanti grezzi di enorme caratura. Uno, di valore incalcolabile, aveva un raro e intenso colore giallo paglierino.

Il minatore se ne era appropriato a rischio di finire sulla forca. Aveva l’intenzione di comprarsi, con quella ricchezza, l’affrancamento dalla schiavitù e un futuro agiato. Ma la libertà era arrivata grazie al suo eroismo e i diamanti, troppo grandi per poter essere venduti a Itaberaba, avevano finito per gravare sulla sua intera esistenza come una maledizione.

Il padre di Mateus, che li aveva ricevuti in eredità, li aveva custoditi fino al giorno in cui era morto in un incidente in miniera, quando suo figlio aveva dieci anni. La moglie, sacerdotessa del Candomblé, aveva cercato di placare la maledizione che gravava sulle pietre offrendole al dio Ogun. Ma i fatti dicevano che l’ira degli dei non si era ancora mitigata.

«Perché hai rischiato la tua vita per me?» chiese Mateus a Leticia una notte, quando le luci della città erano ormai vicine.

Gli occhi neri della ragazza splendevano nel buio, riflettendo il chiarore di una luna non ancora piena.

«Lo sai, non sopporto le ingiustizie.»

«Così hai firmato la tua condanna», incalzò lui. «Adesso sarai mia complice, agli occhi della legge.»

«Sono occhi ottusi.» Anche il sorriso di Leticia brillò, come una collana di perle alla luce della luna. «L’unico modo per ottenere giustizia è cercarla da soli.»

Mateus fece un cenno di assenso. Itaberaba, il loro rifugio, non era più così lontana.

La luce dell'impero
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