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Oswald Breil ha ricevuto un drammatico messaggio da Tomaso Moreno, giudice del pool antidroga messicano: le prove per mettere in ginocchio la potente organizzazione criminale si trovano in una cassetta di sicurezza a Tijuana. Damacio Ruiz è convinto che il vettore dell’ultimo messaggio del giudice Moreno, un drone multielica, possa essere caduto nelle mani sbagliate.

Tijuana, Messico, luglio 2017

L’equipaggio del Williamsburg contava una trentina di persone. A occuparsi degli ingaggi era l’ammiraglio Grandi, dopo che Bernstein aveva scandagliato il passato del candidato. Portato a termine un periodo di prova, il parere finale spettava all’armatore, Oswald Breil. In quell’occasione, però, Grandi non esitò a contattare Breil subito dopo le prime battute del colloquio d’assunzione.

L’uomo vantava credenziali eccellenti: aveva militato quattro anni nel Mossad, con il nome in codice Passepartout. Quando Grandi se lo era trovato davanti, aveva capito che il dato contenuto nella scheda appena letta non era un errore: l’uomo era davvero alto un metro e quarantasei centimetri.

«Perché vorrebbe imbarcarsi, signor Steiner?» gli aveva chiesto l’ammiraglio.

«Sono entrato nel Mossad sull’esempio del comandante Breil. Grazie a lui mi sono scrollato di dosso i complessi per la mia altezza, se così posso chiamarla... Ho anche imparato che persone come noi possono arrivare dove altri non riescono.»

«In che senso?»

«Perché crede che mi chiamino Passepartout? Non sa in quanti pertugi, cunicoli, valigie, contenitori mi sono infilato per portare a un buon fine un’inchiesta.»

A quel punto Grandi aveva interrotto il colloquio: «Le dispiace aspettarmi qui per qualche minuto?»

Poco più tardi, Dan Passepartout Steiner stringeva la mano al suo mito. Lui e Oswald erano quasi della stessa altezza, si assomigliavano perfino.

«Benvenuto a bordo», gli disse Grandi dopo aver scambiato un cenno d’assenso con Oswald. «Sappia che sulla mia nave vigono regole ferree e chi le viola viene immediatamente sbarcato. Il trattamento economico che riceverà sarà assai più soddisfacente di quello di un comune marinaio, e anche di quello di un agente del Mossad. Ma qui si chiedono disponibilità e devozione assolute.»

Steiner, che nutriva una vera e propria passione per i motori, venne assegnato alla sala macchine.

 

Damacio Ruiz poteva essere e fare più cose: sapeva calarsi nei panni dell’operoso uomo d’affari, proprietario di una tra le aziende agricole più importanti del Centro America, così come era capace di nefandezze inimmaginabili quando doveva gestire il mercato del narcotraffico. Individuare un nesso tra l’identità di facciata e quella criminale di Ruiz era impresa pressoché impossibile. Solo un uomo capace e coraggioso come il giudice Tomaso Moreno ci era riuscito. Ma Moreno era morto, crivellato di colpi in un parcheggio.

«Hermano!» ruggì Ruiz. «Siete riusciti a trovare quel maledetto drone?»

«No, signor Ruiz. Ci stiamo ancora lavorando...»

«È inaccettabile. Sono passate ormai ventiquattr’ore e se il drone conteneva qualche messaggio...»

«Abbiamo perlustrato palmo a palmo la zona attorno al parcheggio e al porto. Magari è caduto in mare...»

«E allora scandagliamo il mare! Mandiamo degli uomini sott’acqua. Inventiamoci dei lavori alle condotte delle fogne per sviare eventuali sospetti. E intanto fatemi avere le foto degli sbirri.»

Poche ore più tardi Ruiz aveva sul tavolo il rapporto riservato della polizia scientifica sull’omicidio del giudice Tomaso Moreno.

Il dossier era corredato da una serie di fotografie che riprendevano da più angolazioni il cadavere del giudice. Ruiz esaminò ogni foto con puntigliosa attenzione, quindi chiamò quello che, nella schiera dei suoi guardaspalle, si occupava di elettronica.

«Ho bisogno di te. Voglio capire che cosa stesse facendo quel maledetto, oltre a pilotare un drone», disse Damacio.

Seduto davanti allo schermo del computer, Ruiz prese a indicare alcune delle immagini digitalizzate, chiedendo di ingrandirne certi particolari. A un tratto, con un moto di stizza, picchiò un pugno sul tavolo. «Ecco dove potrebbe essere il drone!» esclamò, indicando il giornale che spuntava da sotto il sedile. Il titolo dell’articolo recitava: «Il favoloso Williamsbug, lo yacht di Oswald Breil, è ormeggiato per delle riparazioni a Marina de Puerto Salina, a sud di Tijuana».

«Se quello che sospetto corrisponde a verità, potremmo trovarci a fronteggiare un nemico assai più pericoloso di tutti i giudici e di tutti i rivali all’interno dei cartelli.»

 

Solo Breil, Sara, Grandi e Bernstein erano membri di diritto del Comitato di bordo. E quando il Comitato veniva convocato, i guai in vista erano seri. Non appena tutti e quattro furono seduti attorno al tavolo del salone, Breil fece partire per l’ennesima volta il filmato del drone.

«Facciamo il punto della situazione», disse. «Un giudice viene ammazzato a pochi passi dal Williamsburg mentre manovra un drone che va a sbattere contro la nostra nave. Dentro c’è l’agghiacciante messaggio di un uomo che sta per morire.»

«Il giudice Tomaso Moreno», disse Bernstein scorrendo le sue carte, «è stato messo sotto processo per concussione e rapporti con i narcotrafficanti: un pentito lo ha indicato come il referente di uno dei capi del cartello. Il giudice si è sempre dichiarato estraneo alla vicenda.»

«Credo», aggiunse Breil, «che non ci rimanga altro da fare che recarci alla stazione dei bus di Tijuana e verificare il contenuto della cassetta. Abbiamo la chiave, vero?»

«Certo», rispose Grandi, «era all’interno della fusoliera del drone. Però è necessaria ogni cautela: chi accoppa un giudice in un parcheggio è abbastanza potente da far fuori un gruppo di stranieri ficcanaso. Avrei un’idea...»

 

Poche ore più tardi una limousine si fermò sotto lo scalandrone del Williamsburg, destando agitazione tra i fotografi appostati per immortalare Breil e Sara mentre sbarcavano. I due calcarono la passerella e Oswald aprì galantemente la portiera alla sua compagna. Quindi l’auto con i vetri oscurati partì e raggiunse l’autostrada per proseguire in direzione sud.

Hermano, seduto al tavolino di un bar poco distante, non aveva perso un solo particolare di quella scena. Inviò un messaggio al suo capo. Riteneva, a ragione, che i messaggi fossero assai più sicuri di ogni sistema di crittografia vocale.

«Il pulcino è appena sbarcato.»

«Non perderlo di vista. Chi resta al posto d’osservazione?»

«Francisco e Bonifacio. Sono in gamba.»

«Occhi bene aperti! Non mi fido del nano.»

«Certo, señor. La contatteranno per segnalare ogni particolare degno d’interesse.»

 

Era trascorsa una mezz’ora da che la limousine aveva lasciato la banchina, quando il furgone di una lavanderia si accostò al Williamsburg. Ne scesero due individui che caricarono due carrelli di biancheria, salutarono con un cenno i marinai che li avevano portati a terra e ripartirono in direzione nord.

«Sono Bonifacio, señor Ruiz», scrisse uno degli uomini lasciati a tenere d’occhio lo yacht. «Hermano mi ha detto di contattare direttamente lei...»

«Che cosa è successo?» tagliò corto il boss.

«È arrivato un furgone della biancheria e ha ritirato due carrelli pieni di lenzuola da lavare.»

«E quindi? Questa sarebbe una notizia importante?»

«Aspetti, signore. Abbiamo raccolto informazioni: il Williamsburg è dotato di un’efficiente lavanderia. Strano che ricorrano a un servizio esterno. Non solo. La lavanderia ha sede a Ensenada, ma il furgone ha imboccato l’autostrada in direzione nord, verso Tijuana. Li sto seguendo a distanza. Ho lasciato Francisco a sorvegliare lo yacht.»

Ruiz sorrise: non lo avrebbe mai ammesso davanti a loro, ma i suoi uomini erano i migliori. Molti di loro – e Bonifacio ne era un esempio – univano alla spietatezza un fiuto che Ruiz raramente aveva incontrato. Grazie alla loro disinvoltura non aveva trovato grossi ostacoli nell’occupare il posto vacante nel cartello di Tijuana e nel condurre la guerra contro il cartello di Sinaloa, combattuta senza esclusione di colpi.

Nella macabra conta degli ahorcados, gli impiccati, il cartello di Tijuana batteva di gran lunga quello di Sinaloa. Gli ahorcados erano i trofei umani che, nelle battaglie tra le bande, venivano giustiziati e quindi esposti come monito. Comparivano come dal nulla alle prime luci dell’alba, penzolavano sinistri dai ponti, i corpi crivellati di colpi, un cartello al collo con un messaggio per gli avversari. Alcune mattine, negli interminabili giorni di guerra, se ne contavano a decine lungo i viadotti stradali.

Poi gli scontri si erano fatti via via meno cruenti e, alla fine, erano cessati del tutto. Ma Ruiz non s’illudeva: il suo territorio faceva gola a tutti i cartelli, a quello di Sinaloa in particolare. Prima o poi avrebbero ricominciato. E sarebbe stato il momento opportuno per dare il colpo di grazia a quella banda di senza palle dei loro rivali. Ne aveva visti piangere a decine, prima di finire appesi.

Adesso però aveva altro da pensare: se, come supponeva, Moreno era riuscito a far arrivare un messaggio a quel ficcanaso di Breil, l’intero cartello di Tijuana era in pericolo.

 

Francisco, l’ultimo degli uomini di Ruiz rimasto a piantonare il Williamsburg, non era sveglio come i suoi compagni. Quando i tre meccanici, scesi dallo yacht, raggiunsero il camioncino dei ricambi, annotò svogliato l’orario su un taccuino e osservò il furgone allontanarsi dal molo. Quindi riprese a scandagliarsi gli interstizi dei molari con uno stuzzicadenti. Tanto, Breil non poteva farla franca: sia che fosse sbarcato per salire sulla limousine, sia che avesse usato il trucco da film modesto dei cesti della lavanderia, ormai Bonifacio o Hermano gli erano alle costole.

 

Oswald Breil uscì come un contorsionista dalla cassa degli attrezzi. All’interno del furgone dei ricambi c’era odore di olio e di grasso per motori. Bernstein, con addosso una tuta da meccanico con tanto di cappellino da baseball, era alla guida. Breil sorrise al finto meccanico che lo aveva trascinato lungo la passerella del Williamsburg.

«Grazie, ammiraglio Grandi!» disse Oswald. «Devo essere stato un gran peso.»

«Le rotelle erano ben lubrificate, dottor Breil. E ho avuto un valido supporto.»

Anche Sara Terracini, all’interno del furgone, indossava una tuta da lavoro: «Parlate di me?» chiese. «Ho affrontato fatiche peggiori in vita mia», disse, alludendo alle opere d’arte di grandi dimensioni e d’immenso valore che aveva esaminato, spostato, restaurato e amato come esperta d’antichità. La sua importante carriera, finita nel vortice dell’avventura per amore di Breil.

 

Bonifacio seguiva quel furgone della lavanderia da quasi un’ora. Aveva pazientato mentre venivano effettuate le consegne e i prelievi di biancheria. Fino a quel momento aveva sostato davanti a due alberghi, un ristorante e una casa di riposo per anziani.

Dinanzi all’ennesimo hotel, Bonifacio aveva deciso che poteva bastare così e si era avvicinato ai due addetti.

«In quanto tempo effettuate ritiro e riconsegna?» aveva chiesto fingendo interesse per il servizio.

«Nell’arco delle ventiquattro ore. Se vuole le lascio un biglietto da visita. Mio fratello e io abbiamo appena aperto l’attività», disse uno. «Ci chiami. I nostri sono prezzi concorrenziali e anche la qualità...» Ma l’uomo si era già allontanato imprecando.

Bonifacio salì in auto e compose il numero della linea protetta.

«Non era nel furgone della lavanderia!» scrisse a Ruiz.

«Branco di idioti! Vi siete fatti giocare come dei ragazzini», rispose pronto il capo. «Anche Hermano dice che quello che lui ha seguito non era Breil. Chiama subito Francisco e accertati dei movimenti sullo yacht.»

 

«... un furgone per ricambi, ti ho detto. Ma nessuno dei meccanici era di bassa statura», rispose piccato Francisco, al telefono con Bonifacio.

«Trasportavano qualcosa di voluminoso?»

«Una grossa cassa di ferri da lavoro. L’hanno sbarcata con qualche difficoltà.»

«Accidenti!» sibilò Bonifacio.

«Sono andati in direzione nord, verso Tijuana...»

 

Bonifacio scartò l’idea di usare ancora il telefono: doveva diramare un messaggio di ricerca capillare e non poteva passare il suo tempo a contattare decine e decine di numeri facilmente intercettabili. I governativi controllavano ogni loro chiamata effettuata su linee non protette.

Per comunicare in fretta non restava che la radio: ogni auto degli uomini del cartello ne aveva in dotazione una, sintonizzata su una doppia frequenza, quella dei governativi e quella della banda di appartenenza. Certo, era un rischio: oltre agli inquirenti, anche i cartelli rivali facevano tesoro delle comunicazioni via etere del nemico. Ma se Breil era a bordo del furgone e aveva architettato quella messinscena per sfuggire ai controlli, andava eliminato. Subito.

«Fratelli», disse al microfono dell’apparecchio. «Sono Bonifacio. Sto cercando di rintracciare un furgone a Tijuana, un Ford Transit dell’assistenza Marina Motori MTU. Se lo vedete, contattatemi con urgenza.»

Dopo pochi minuti, Bonifacio ricevette la comunicazione: due dei suoi erano sulle tracce del furgone, che aveva compiuto alcuni giri attorno all’edificio di una stazione degli autobus.

La stazione Mexicoach Bus di Tijuana era situata in Avenida Revolución, nel pieno centro cittadino. Bonifacio calcolò il tempo necessario per arrivarci e rispose via radio al suo scagnozzo: «Due minuti e sono lì».

 

Bernstein si tolse il cappello solo quando il furgone aveva raggiunto la città. Nel vano posteriore, Grandi, Breil e Sara rimanevano seduti sugli strapuntini con addosso le tute da meccanico sulle quali spiccava il logo blu e rosso della MTU, casa produttrice di motori marini.

«La prossima volta che incontriamo mare, sergente Bernstein, la faccio legare all’albero come Ulisse», disse Breil, parlando nello spazio che separava il vano dalla cabina di guida.

«In che senso, maggiore Breil?» chiese Bernstein dal posto del conducente.

«Ci ha sballottati come stracci. Ho sofferto più per la sua guida che a restare chiuso nella cassa degli attrezzi durante il trasbordo... Adesso, però, incominciamo a fare sul serio. Ha parcheggiato di fianco all’ingresso principale, Bernstein?»

«A una cinquantina di metri, maggiore. Come mi ha detto.»

«Aspettiamo qualche minuto, accertiamoci che la zona sia sicura e andiamo a prendere i documenti del povero giudice Moreno.»

 

Il cartello di Sinaloa esercitava la sua supremazia sugli Stati di Chihuahua, Sinaloa e Sonora. Tra le organizzazioni criminali messicane, era quella che più aveva esteso le proprie radici in Europa e in Asia. Quando però il capo del cartello, Leon Jalisco, aveva tentato di conquistare anche il feudo vacante di Tijuana, aveva incontrato una spietata resistenza da parte dei nuovi venuti che si erano appropriati del territorio di confine. Erano andati avanti a morti ammazzati per mesi, poi, pur senza un reale accordo che sancisse una tregua, le ostilità erano cessate. Ma Leon Jalisco non perdonava facilmente i torti subiti: gli uomini del cartello di Tijuana dovevano morire come cani. Due di loro in particolare: Hermano e Bonifacio. Quei due bastardi avevano decimato i suoi migliori soldati. E, appena ne avesse avuto occasione, li avrebbe vendicati.

 

«Tutto a posto, maggiore Breil. Nessun movimento sospetto. Potete scendere», disse Bernstein.

La stazione dei bus Mexicoach aveva sede in un edificio a due piani, sovrastato da una curiosa struttura semicircolare. Al piano superiore gli uffici, a quello inferiore le biglietterie e una sala d’attesa. Nel corridoio, a pochi passi dall’ingresso, una decina di cassette di sicurezza a pagamento.

Breil uscì dal portello posteriore del furgone, una mano sulla tasca destra della tuta da meccanico, dove era custodita la chiave della cassetta di sicurezza. Grandi lo seguì subito dopo. Pochi passi e scoppiò l’inferno.

 

Bonifacio aveva parcheggiato l’auto in modo da tenere d’occhio il furgone. Non spense il motore. Quando vide il portello posteriore aprirsi non ebbe dubbi: quel nanerottolo travestito da meccanico era Oswald Breil. Impugnò la pistola e spinse a fondo sul pedale dell’acceleratore. Anche in movimento, non poteva mancare il bersaglio. Poi si sarebbe fermato, sarebbe sceso e avrebbe assestato un colpo di grazia alla testa di entrambi. Da ultimo, si sarebbe occupato del conducente del furgone.

 

Appena ricevuta la notizia che i suoi avevano intercettato una conversazione radio di Bonifacio, Leon Jalisco diramò l’ordine a tutti gli affiliati del cartello di Sinaloa: «Ammazzatelo».

Un uomo di Jalisco aveva seguito ogni mossa di Bonifacio e, quando lo vide impugnare la pistola, si convinse che quel bastardo stesse per far fuori uno dei suoi fratelli. Non esitò. Il primo colpo di grosso calibro raggiunse Bonifacio alla spalla nell’istante in cui premeva sul pedale dell’acceleratore. Il secondo gli penetrò nello zigomo sinistro asportando, in uscita, parte della calotta cranica. L’auto, con il morto al volante, proseguì la corsa verso la folla in attesa degli autobus davanti alla stazione.

Quando vide l’auto puntare verso di loro, Oswald strattonò Grandi. Grazie alla sua esperienza, era riuscito a distinguere, tra lo stridio di gomme, almeno un paio di colpi d’arma da fuoco. La berlina li sfiorò di poco. Poi, priva di controllo, imboccò a velocità sostenuta l’ingresso dell’autostazione e si schiantò contro le biglietterie.

Un paio di secondi dopo, l’auto che ospitava l’ultimo viaggio di Bonifacio Caudillas esplose in una nuvola di fuoco. Alla morte dello scagnozzo di Ruiz andava aggiunta quella di una vittima innocente, oltre a una decina di feriti, alcuni in gravi condizioni.

I pompieri, giunti sul luogo dell’incidente in breve tempo, impiegarono diverse ore per domare le fiamme. L’atrio dell’autostazione era andato in parte distrutto. Comprese le cassette di sicurezza situate all’ingresso dell’edificio.

La luce dell'impero
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