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«Se potessi tornare indietro, lasceresti Londra?» Nataša le aveva fatto quella domanda un gelido mattino di marzo del 1998. Quel mese erano andate abbastanza d’accordo, si stavano dividendo le ultime boccate di sigaretta nel parcheggio dell’ospedale, mentre le macerie scricchiolavano sotto una sfumatura di cielo che sembrava persino troppo bella. «Se potessi tornare indietro, lasceresti Londra?» Delle mille volte in cui si era posta la domanda, e avrebbe continuato a porsela, ce n’era stata solo una in cui se l’era fatta come se dall’altra parte ci fosse davvero una risposta. «Se potessi tornare indietro...» C’era stato un tempo in cui si era abbandonata a quell’ipotesi per ore e ore al giorno, ripercorrendo lo schema che l’aveva condotta lì. Ma la vita non è mai una linea retta, e la sua era un’orbita irregolare attorno a una stella oscura, una falena che girava attorno a una lampadina fulminata, alla ricerca della luce che aveva racchiuso.

La visita a casa di Achmed le aveva preso più tempo del previsto e, quando posteggiò il camioncino e attraversò il parcheggio, avvertì l’oppressione di un disastro imminente. Ma il respiro pesante di Deši che pisolava era l’unico rumore che si sentiva nella sala d’attesa. Sonja le smosse la sedia. Gli aghi da lana si misero in moto fra le sue mani prima ancora che Deši riaprisse gli occhi.

«Niente di nuovo?» chiese Sonja.

«No, settimana morta. Il fratello di quello della mina è venuto a portarselo via, c’è stato solo lui.»

«Tutto qui? Nient’altro?» Si appoggiò al bordo del banco dell’accettazione, dove una penna ormai secca da tempo restava ancora attaccata a una catenella di metallo. Com’era possibile che proprio oggi, di tutti i giorni possibili, le emergenze di Dio e degli uomini restassero a riposo?

«Nient’altro» disse Deši senza alzare gli occhi dalle punte dei suoi aghi. «Nemmeno un paziente in ospedale.»

«Potremmo anche chiudere.»

Deši sorrise: non passava giorno in cui non rimpiangesse di aver chiesto a Maali di andare a prendere le lenzuola pulite; non passava giorno in cui non tenesse fra le braccia Maali tra le macerie del quarto piano, abbracciandola come l’aveva abbracciata quella volta che era caduta dall’altalena, quattro anni prima della deportazione, quando Maali piangeva e Deši era l’unica che sapeva come consolarla.

«E dove andresti?» chiese Deši.

«In vacanza.»

«Tutta quell’istruzione e finalmente ne dici una giusta.»

«Non ricordo l’ultima volta che l’ospedale è stato vuoto.»

«No, neanch’io.»

«Non durerà.»

Deši scosse la testa. «Perché rovinare un così bel pomeriggio con questi discorsi?»

«Sono solo realistica.»

«Scommetto che questa qui riuscirebbe a essere realistica persino in un bel giorno d’estate» disse Deši.

«Non avevi smesso di scommettere?»

«Mi sarebbe piaciuto giocare a carte con Achmed. Gli avrei levato persino i calzoni di dosso.»

Preservando dentro di sé la povera gioia di quell’impresa, Sonja sorrise. «Mi sarebbe piaciuto vederlo.»

«Non credo che lo rivedremo, vero?»

«No, non credo.»

«Peccato» disse Deši. Quel semplice epitaffio sarebbe stato l’ultimo accenno ad Achmed. Un dito si materializzò sulla punta dei ferri di Deši. «Per chi li stai facendo?» chiese Sonja.

«La nostra piccola amica. Per tutta la settimana si è coperta le mani con le maniche.»

La bambina. Sonja non aveva pensato a cosa avrebbe significato la scomparsa di Achmed per la bambina, che in meno di una settimana aveva perso tutto quello che conosceva. Il giorno che aveva risparmiato mine alle gambe e infarti ai cuori non aveva risparmiato lei. «Dov’è adesso?»

«Sono andata in pensione dieci anni fa» disse Deši. Ne sarebbero trascorsi altri dieci prima che lo mettesse in pratica. E dopo altri tre sarebbe morta di cancro alla gola, ma non prima di essersi innamorata del suo oncologo. «Trovatela da sola.»

Alla fine Sonja trovò la bambina al quarto piano, seduta a gambe incrociate sulla soglia che incorniciava la tela carbonizzata della città. Sonja si sedette accanto a lei. «Mi dispiace.»

«Tornerà?»

«Non lo so» disse Sonja, e subito se ne pentì, sapendo quante false speranze si possono coltivare nel terreno di quelle tre parole. «Probabilmente no.»

La bambina annuì alla città.

«È dura, Havaa, lo so. A mia sorella è successa la stessa cosa.» Però questa era una bugia, no? Parlava di Nataša come se sua sorella fosse una degli scomparsi. Voleva condividere una parte della sofferenza nazionale, incolpare i Federali del fatto che sua sorella non l’aveva amata abbastanza da dirle addio. Eccola, proprio al centro, un’inesprimibile oscurità attorno alla quale continuava a girare senza poterla toccare. «Non so dov’è. Non so se è viva o morta. Non so niente.»

«Come si fa a trovarli?» chiese la bambina. Alzò lo sguardo su Sonja come se fosse in bilico sull’abisso.

«Non lo so, Havaa. Mi dispiace, non lo so. Forse cerchiamo di trovarli in altre persone. Nella loro gentilezza e nella generosità: cose che non spariscono.»

La ragazzina fece uno sbuffo profondo, a naso pieno. Non era la risposta che voleva, ma Sonja aveva imparato a essere realistica quando parlava di morte. Anche se la risposta non metteva alcuna distanza tra la bambina e il vuoto che la guerra aveva aperto in lei, era comunque sufficiente, si augurava Sonja, per consentirle di tenere duro.

Havaa allungò la mano verso di lei e Sonja, senza pensarci, le sentì il polso. L’arteria radiale pulsò sotto il dito di Sonja come un lieve promemoria. Premette il palmo sulla fronte di Havaa.

«Sono malata?» chiese la bambina.

«No, sei in perfetta salute.» E mentre diceva quelle parole, le sembrarono un piccolo miracolo. Tenne il polso di Havaa, piegando avanti e indietro la giuntura. Attraverso i pantaloni sbiaditi di felpa azzurra tastò la forma delle caviglie e delle ginocchia di Havaa. Quelle gambe si sarebbero alzate e avrebbero camminato e corso. Quelle braccia avrebbero sollevato e abbracciato e lasciato andare. Quella persona sarebbe cresciuta, si sarebbe adattata e avrebbe vissuto; se ne sarebbe assicurata Sonja. «La famiglia non te la puoi scegliere» le aveva detto suo padre molti anni prima, per placare una sua bizza, e senza volerlo continuava a scoprire cosa intendeva.

«Cosa fai?» chiese Havaa.

Sonja sentì sciogliersi in lei matasse di pura gratitudine. Era un’idiota a lasciarsi impressionare fino a quel punto da gambe che camminavano, polsi che si piegavano, mani che stringevano. Anziché spiegarlo, si concentrò sulla sensazione di fortuna, di innegabile benedizione, per poter in seguito tornare su quel ricordo e meravigliarsi del corpo della bambina, della perfezione di questa materia umana.

«Non ho idea di cosa sto facendo» disse, e aiutò la bambina ad alzarsi. «Hai tenuto la valigia pronta casomai dovessi andartene di nuovo, vero?»

Havaa fece segno di sì.

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Mezz’ora dopo, lasciarono l’ospedale. Superarono un isolato dopo l’altro, immutati se non per la posizione dei crateri e la disposizione dei mucchi di macerie. Un segnale di senso unico puntava verso il cielo. Tre cani neri emaciati le osservavano dal lato opposto del canyon della cantina di un negozio di alimentari, ma per fortuna non le seguirono. Per tutto il tempo, a Sonja continuò a ronzare la testa. Stringeva la valigia della bambina da una parte e la sua mano dall’altra. Cercava di ricordarsi il nome delle strade in cui aveva vissuto.

Ecco cosa c’era. Segni di bruciato che si allargavano sul terreno in ventagli simili a conchiglie. Nuvole che si raccoglievano all’orizzonte. Il fondo irregolare. Il minuscolo tepore nella sua mano. Una mano che era la sua mano che teneva una mano che era la mano della bambina. Ecco.

Chissà come, i suoi piedi ricordarono quello che lei aveva scordato. La guidarono. Il suo palazzo non era crollato. Le vibrazioni delle esplosioni avevano fatto saltare i vetri, ma l’edificio era rimasto in piedi. Si inerpicarono per le scale.

«Qui vive una signora simpatica» disse mentre passavano davanti all’appartamento di Laina. «Magari potresti passare un po’ di tempo con lei mentre io sono all’ospedale.»

La bambina annuì. Si fermarono davanti alla porta. «Sono diversi mesi che non ci vengo» disse lei. Aprì la porta. La polvere copriva tutto tranne il soffitto. Ci avrebbe pensato l’indomani, o il giorno dopo; per quel giorno aveva già pulito abbastanza. L’ingresso non mostrava segni di incursioni. I saccheggiatori erano emigrati da tempo. Accese una candela.

Per cena, Havaa sbucciò e tolse i germogli a due patate, mentre Sonja rispolverò una batteria d’auto con sufficiente energia da far bollire il riso. Mentre cenavano, Sonja descrisse i bastoncini che usano in Asia per mangiare il riso. La bambina ci provò con due matite, e dopo due minuti di tentativi falliti dichiarò che l’Asia se l’era inventata Sonja. Quando finirono, Sonja l’accompagnò nella camera di Nataša. Con la forza dell’abitudine, bussò prima di aprire la porta. Il letto era ancora fatto. La sedia della scrivania era un po’ storta, come se la sua proprietaria dovesse tornare da un momento all’altro per scrivere un appunto, una lettera, una spiegazione, delle scuse.

«Qui è dove dormirai» disse Sonja. Posò la valigia sul letto e vuotò l’ultimo cassetto del comò, togliendo i jeans e i maglioni di Nataša. Nataša aveva preso il cardigan bordò che Sonja le aveva regalato per il suo diciottesimo compleanno, quello che detestava e non si era mai messa e, ovunque fosse, Sonja si augurò che facesse abbastanza freddo perché lo indossasse. «Puoi mettere qui le tue cose.»

«Vivrò qui?»

Sonja non aveva fatto piani a così lungo termine. «Ti piacerebbe?»

La bambina osservò la stanza, controllò l’armadio, guardò sotto il letto. «Avrò la stanza tutta per me?»

«Tutta per te.»

«E non devo dividerla con nessuno?»

«È solo tua.»

La bambina annuì lentamente e si appoggiò contro Sonja, ascoltando il gorgoglio dei suoi organi, quelle cose meravigliose che ignoriamo, dimentichiamo e diamo per scontate. «Su» le disse Sonja. «Dovresti disfare la valigia prima che una di noi possa cambiare idea.»

Havaa aprì la valigia e tirò fuori calzini grigi appallottolati, un maglione, una gonna, due fazzoletti da testa, mutandine bianche decorate con fiocchetti rosa. Poi vennero i reperti singolari e meravigliosi. Una licenza di matrimonio del 1942, donata da una coppia che era sposata da sessantun anni e non aveva più bisogno del documento. La foto di un uomo snello che indossava una giubba da marinaio ora appesa in un armadio in Arabia Saudita. Le ottantuno bozze di una lettera d’amore. Il francobollo non annullato che avrebbe dovuto accompagnare l’ottantaduesima versione mai spedita. Un libro di preghiere aperto da duecentosei mani smaniose.

«Cos’è questa roba?» chiese Sonja. Di lì a due settimane, aiutando Havaa a costruire una cassetta in cui esporre i suoi tesori, Sonja avrebbe usato, per la prima volta, la sua sega chirurgica per creare qualcosa.

«I miei souvenir» rispose Havaa. Li dispose ben distanziati nel cassetto, con più rispetto di quanto ne avesse mostrato verso i vestiti. «Da parte dei profughi che si sono fermati in casa nostra.»

C’era un anello d’argento che aveva fatto sentire una trentottenne, madre di due figli, la donna più fascinosa di Groznyj. Una rubrica che un marito fedifrago aveva dato ad Havaa affinché il fantasma di sua moglie non la trovasse fra le sue cose. Un cavalluccio marino secco che un padre aveva regalato alla figlia di sei anni al posto di un pony. Un portachiavi con il Taj Mahal che un profugo della Russia meridionale si era pentito di aver dato via. Un fermacravatta che un cosmonauta aveva portato nello spazio e ritorno. E uno schiaccianoci a forma di guardia di Buckingham Palace.

«E questo cos’è?» riuscì a dire a stento Sonja.

«Questo è Alu» disse la bambina. Di lì a tre settimane e un giorno, con il palmo che le doleva meravigliosamente per aver segato del legno, Sonja le avrebbe raccontato di Buckingham Palace. «È un idiota.»

«Chi ti ha dato Alu?»

«Una delle donne che si sono fermate da noi.»

«Una delle profughe?» chiese Sonja. Di lì a otto mesi avrebbe cominciato a raccontare di Nataša alla bambina, e le sarebbe occorso tutto il resto del loro tempo insieme per finire la storia.

«L’ho presentata ad Akim» disse la bambina. «Era simpatica.»

«Come si chiamava?»

«Non me lo ricordo. Da casa nostra è passata un sacco di gente.»

«Però il nome di Alu te lo ricordi.» Di lì a otto anni e mezzo avrebbe finito di insegnare alla bambina tutte le lezioni di cui aveva preso gli appunti sui suoi quaderni delle superiori. Di lì a dieci anni e nove mesi la bambina, ormai studentessa del primo anno di biologia all’appena inaugurata Università statale di Volčansk, avrebbe cominciato a insegnare a lei.

«Alu non se n’è andato.»

«Ma che aspetto aveva?»

«Aveva tutte le dita.»

«E poi? E poi?» Di lì a dodici anni e tre mesi la bambina, ormai una donna, avrebbe accompagnato Sonja in una vacanza di cinque giorni a Londra. Quando il portiere di notte le avrebbe chiesto: «A sua figlia andrebbe una tisana?» a Sonja non sarebbe venuto in mente di correggerlo; non le sarebbe venuto in mente già da un po’. Alla fine dei cinque giorni avrebbero lasciato Londra. Sonja non l’avrebbe mai più rivista. Havaa sì.

«Era molto bella. Io avevo paura che pensasse che non ero bella.»

«Era felice?»

«Non lo so.»

«Dove stava andando?» Quando la bambina – per Sonja sarebbe rimasta per sempre “la bambina” – sarebbe andata sul lago Bajkal per due anni a preparare la tesi sugli effetti del cambiamento climatico sui microorganismi d’acqua dolce, Sonja avrebbe preso brevemente in considerazione la possibilità di fermarsi a dormire in ospedale. Ma il mondo aveva smesso di tremare da un pezzo, e nessuno avrebbe tollerato un’eccentricità del genere, neppure da parte dell’insigne primario di chirurgia.

«Forse in un campo profughi.»

«Ma dove, quale campo?»

«Non lo so.»

«Pensaci bene. Dove?» Di lì a vent’anni Sonja avrebbe trovato il nome di Nataša accanto al suo, nell’ultima frase della tesi di laurea di Havaa. La tesi sarebbe stata pubblicata con un certo successo e, sugli scaffali polverosi delle università di una mezza dozzina di paesi, le due sorelle avrebbero condiviso l’aldilà in quell’ultima frase, a una virgola di distanza da Achmed e Dokka.

«Non lo so.»

«Era sola?»

«Sì, era sola.» Di lì a ventotto anni e sette mesi, a una conferenza di limnologia a Colonia, la bambina avrebbe conosciuto l’uomo che nove anni più tardi avrebbe sposato. All’età di quarantasei anni avrebbe avuto il suo primo e unico figlio in quello stesso reparto maternità in cui era nata, un maschietto che avrebbe tramandato il nome di suo padre; le sue mani sarebbero state le seconde a toccarlo. All’età di sessantotto anni avrebbe tenuto in braccio il suo primo nipote, che avrebbe anche lui tramandato il nome di suo padre; le sue mani sarebbero state le terze a tenerlo.

«E se n’è andata da casa tua?»

«L’ho salutata e lei se n’è andata.»

«In che direzione? Da che parte è andata?»

«Per la strada. Si può andare in una sola direzione.» La bambina sarebbe sopravvissuta al marito, al figlio, a un nipote, e a tutte le anime che aveva conosciuto prima di compiere undici anni. Sarebbe sopravvissuta a ventitré dei suoi denti, tre dita dei piedi, un rene, e a tutto il castano dei suoi capelli.

«E allora dov’è?»

«Non lo so.»

«Però l’hai vista.»

Sarebbe morta all’età di centotré anni, nel reparto geriatrico dell’Ospedale n. 6, in una stanza che era stata lo studio del primario, poi la camera di Sonja e, infine, una normale stanza d’ospedale, una stanza che Havaa avrebbe ricordato così come migliaia di profughi ricordavano la sua cameretta da bambina, una camera che era stata la loro quando ne avevano avuto bisogno.

«Dov’è? Ti prego, Havaa, ti prego.»

La bambina avvolse le dita attorno a quelle di Sonja. Sollevò lo sguardo. Aveva gli occhi verdi. «Non sappiamo dov’è andata» disse.

Non l’avrebbero mai saputo.