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Allo spuntare del giorno, Chasan si incamminò per la strada forestale con una mezza speranza di intercettare Achmed, ma tutto quello che trovò fu una serie di impronte fresche. Non sapendo che altro fare, si mise a camminare avanti e indietro incitando i cani a fare altrettanto, e insieme trasformarono cinque chilometri di neve in un rompicapo che nessuno avrebbe saputo risolvere. Chasan si era sfilato i guanti e di tanto in tanto si ungeva le dita con il burro, e per cinque chilometri le lingue che lo lappavano gli scaldarono le nocche. Quello spelacchiato, Kaštanka, rabbrividiva come un topo prematuro, e diverse volte Chasan si fermò per rimettergli a posto la coperta che aveva legato con una cordicella attorno al corpo pallido della bestia. D’estate faceva il bagno ai cani. Se uno di loro si ammalava, lo curava. Ai margini del paese si inginocchiò e loro gli si raccolsero attorno per saltargli addosso, leccargli le guance, appoggiargli le zampe sulla schiena e ansimargli nelle orecchie, malandati, sudici, ma suoi, suoi, suoi. Quando si alzò lo seguirono tutti e sei, con Šarik in coda. Non erano ancora le nove. La giornata gli si allungava davanti e il suo tragitto per percorrerla era tortuoso e privo di significato come quello che aveva appena lasciato. Prima della curva della strada vide la casa di Achmed e, di fronte, il buco vuoto che era stata quella di Dokka. Se quella mattina avesse incontrato Achmed, avrebbe dovuto chiedergli il permesso di andare a trovare Ula: se gli avesse chiesto il permesso, avrebbe potuto ricevere un rifiuto. Era stata una scusa migliore del freddo per starsene quei pochi minuti in più sotto le coperte.

I cani rimasero ad aspettarlo sul prato coperto di neve. Lui si insinuò fra le ombre del salotto, attento a non far muovere le tende, e poi nella camera da letto dove Ula dormiva un sonno agitato. Esitò a svegliarla, come se lui non fosse altro che il suo sogno tormentato e toccandola rischiasse di svanire. Ula aveva i capelli arruffati in ciocche unte e profumava di talco. Andò in cucina a riempire una pentola con acqua pulita e si sedette accanto al letto. Le tirò le coperte fino al mento, affinché svegliandosi non dovesse temere per la propria decenza. Poi, con riluttanza, le sfiorò un braccio.

«Perché sei qui?» gli chiese lei senza neppure un’ombra di sorpresa in faccia.

«Ti ricordi di me?» le chiese, con più ansia di quanta intendesse.

Lei socchiuse gli occhi.

«Devo aver vissuto mille vite prima di questa. Ero un uccello. Ero un insetto. Ho vissuto tra le foglie. Non so quale vita sia l’allucinazione.»

«Sei Ula» le disse lui. «Sei sposata con Achmed.»

«Perché sei qui?» gli chiese di nuovo lei. E di nuovo lui non rispose.

Perché era suo figlio la ragione per cui lei passava le sue giornate da sola. Perché farla stare comoda, tenerle compagnia, occuparsi di lei era il minimo che potesse fare. Perché lui era solo. Perché si era dimenticato com’era la compagnia di una donna. Perché l’idea di parlare come un vecchio scemo a un branco di cani feroci non lo attirava tanto, a quell’ora del mattino. Guardò la pentola d’acqua accanto al letto. Perché lei dimenticava. Perché lei dimenticava tutto quello che le diceva. «Sono qui per lavarti i capelli.»

Lei annuì e tirò indietro le coperte, la pelle più bianca di quella di una russa. A volte Achmed la portava fuori, sulla sedia a dondolo, e lei se ne stava lì senza dondolare, sepolta sotto le coperte persino nei mesi estivi più afosi. Chasan la girò in modo che i suoi lunghi capelli pendessero fuori dal letto e dentro la pentola. Il sapone fece una bella schiuma e lui immerse le dita nell’acqua e gliele strofinò sulla testa, lavando via l’unto e la pelle morta. Dopo averli lavati e sciacquati, le avvolse i capelli in un asciugamano e la mise a sedere dritta contro la testiera.

«Sembri uno sceicco, con quel turbante sulla testa» le disse.

«Perché sei qui?» chiese lei.

«Sono qui per finire di raccontarti una storia.»

Ula sorrise, contenta per quella risposta. «Potresti dover ripetere qualcosa. Forse non lo sai, ma la mia memoria non è più quella di una volta.»

Chasan riprese dove aveva smesso, nella steppa, dove la mattina seguente lui e Mirza erano saliti sul treno che dal Kazachstan li avrebbe portati in Cecenia. Eldár era una città fantasma quando i sopravvissuti dei vecchi residenti vi fecero ritorno. I soldati russi incaricati di costruire una nuova strada avevano divelto tutte le lapidi del cimitero. Chasan era entrato in paese su una strada incisa di epitaffi. La polvere aggiungeva mezzo centimetro alle superfici dei tavoli, ai ripiani, ai pavimenti. L’aria era troppo pesante per respirarla e così, la sua prima notte a casa, dormì fuori. Il mattino seguente, sotto una coltre di nuvole grigie bitorzolute, seppellì la valigia marrone nel giardino di casa.

Aveva trentun anni e si iscrisse al programma di dottorato in storia dell’università statale di Volčansk. Il giorno del matrimonio di Mirza si barricò nella biblioteca dell’università. Aveva preso in considerazione l’idea di rapirla, come facevano da tempi immemorabili i giovanotti ceceni quando non ottenevano la benedizione dei genitori della sposa. Ma non voleva guadagnarsi la reputazione di rapitore di spose, soprattutto presso i suoi professori, e poi era troppo tardi. Quel pomeriggio lei avrebbe sposato il botanico al quale era promessa fin da quando aveva nove anni e, come se la botanica non fosse già abbastanza inaccettabile, l’uomo aveva anche un piede equino e una collezione di fiori pressati. Per tutto il giorno Chasan aveva letto voluminosi tomi filosofici, ma nessuno di essi spiegava l’ingiustizia di un mondo in cui lui doveva perdere Mirza a favore di un botanico con il piede equino e la passione per i fiori secchi. Il botanico era un brav’uomo, ma Chasan era innamorato, e perciò capace di un odio infinito.

Più o meno nel periodo in cui cominciò a scrivere il libro che l’avrebbe impegnato per la vita, Chasan si imbarcò anche in un progetto più piccolo e secondario, di revisione storica. Su varie schede registrò tutti i ricordi che amici, vicini e lontani parenti avevano della sua famiglia, e le appese alle pareti di quella che era stata la camera di sua sorella. Tutti dettagli comuni e di poco conto – la risata a singhiozzo della sorella, la passione del padre per le monetine di infimo valore affinché le sue tasche piene risuonassero come quelle di un riccone – ma mentre li leggeva, solo nella casa che avevano un tempo condiviso, quei ricordi insignificanti ritornavano con una forza imprevista. Quando una parete si riempì dal pavimento al soffitto, cominciò a riempire la stanza con artefatti di Mirza, come se anche lei fosse rientrata in quel passato che aveva reclamato la sua famiglia. La seguiva. Quando lei al mercato comprava un gomitolo di lana rosso rubino, lui comprava quello arancione che c’era accanto; quando lei indossava un cardigan grigio con i bottoni d’argento, lui cercava quello stesso cardigan, con i bottoni d’ottone. Mentre il botanico con il piede equino collezionava fiori, lui collezionava sua moglie. La stanza tappezzata di schede si riempì ben presto dei foulard che lei non aveva mai portato, delle sigarette che non aveva mai fumato, e la sera Chasan si lasciava cadere sulla poltrona a righe turchesi, così simile a quella blu marino che aveva lei in salotto, e leggeva sorseggiando il tè da una tazza di appena un centimetro più stretta della sua e per qualche istante, se aveva fortuna, riusciva a dimenticarsi di tutto e lei era lì, solo fuori dalla visuale, a riempire il samovar o forse intenta a sferruzzare un paio di guanti arancioni, e la sua felicità diventava l’unico vero artefatto nella stanza.

E così via. Trascorsero sette anni prima che parlasse di nuovo con la vera Mirza, un pomeriggio d’autunno privo di fascino come tutti i pomeriggi d’autunno, quando lo strepito del clacson di un autobus di Volčansk ruppe il silenzio. Lui era appena uscito dalla biblioteca alla frenetica ricerca di fiammiferi, quando sentì la strombazzata. Si voltò, e non sarebbe rimasto più sorpreso se si fosse trovato davanti il Profeta in persona. Lei aveva addosso il cardigan grigio, e in effetti i bottoni argentati stavano molto meglio di quelli d’ottone. Le estremità di una sciarpa rosso rubino le svolazzavano dietro le spalle. L’autobus aveva inchiodato a meno di un metro da lei: Chasan avrebbe potuto prostrarsi e annerirsi le labbra su quel suolo consacrato. I loro sguardi si incontrarono. Lei arrossì, non di sorpresa o meraviglia, ma con l’imbarazzo vergognoso di chi è stato colto con le mani nel sacco.

La invitò al bar dell’università. Imbarazzati, scelsero qualcosa da un vassoio di dolci; lei cercò di convincerlo che era venuta in città per un appuntamento dal dentista e lui le assicurò che le credeva. Ma la timidezza di Mirza si sciolse con la stessa rapidità del cucchiaino di zucchero nella sua seconda tazza di tè. Le sue unghie corte e ben curate saettavano superando i confini tracciati dall’argenteria. Parlarono per due ore e, quando le occhiate di disapprovazione della cameriera cominciarono a indugiare un po’ troppo su di loro, Mirza gli chiese di mostrarle la biblioteca. Corse da uno scaffale all’altro, in soggezione e con gli occhi spalancati, e solo più tardi, quando prese in prestito per lei una dozzina di libri, Chasan scoprì che era la sua prima volta in una biblioteca. Glieli portò nel suo ufficio, che non poteva, lo sapeva per certo, farle lo stesso effetto. Era, quasi letteralmente, lo stanzino per le scope. Le scope non c’erano più – le aveva buttate via lui quando gli avevano assegnato quel bugigattolo – ma lo spazio era appena sufficiente per ospitare la più piccola delle scrivanie dell’università, infilata dentro talmente a forza che tra scrivania e parete non ci passava neppure un foglio di carta. Le sue giornate erano vuote, gli confessò lei; sarebbe stato possibile venire all’università qualche giorno alla settimana, a leggere lì nel suo ufficio? Questa Mirza era completamente diversa da quella più giovane che aveva spaccato il naso di gesso di Stalin col tacco della scarpa. Forse era cambiato anche lui; ma non per questo l’amava di meno.

Due volte alla settimana si incontravano all’angolo, facendo attenzione al passaggio degli autobus. La vide con addosso il maglione grigio dai bottoni d’argento, con il maglione blu dai bottoni di finto avorio, con il maglione verde senza bottoni. Si passavano una sigaretta, avanti e indietro e, quando lui avvertiva sul filtro l’umidore delle sue labbra, il mondo si faceva grande e bellissimo. Nel suo ufficio entrava solo una sedia, perciò lei ci andava a leggere i suoi libri solo quando lui era in biblioteca. Un pomeriggio era tornato una mezz’ora prima del solito e l’aveva trovata china su un’enorme pila di fogli dattiloscritti. Dalle pagine già girate vide che era almeno a due terzi del suo manoscritto. Sarebbe bastato un filo d’aria a mandarlo in pezzi. «È bellissimo» disse lei alzandosi, come stupita che Chasan fosse capace di una cosa così bella. Il suo sguardo abbassato trovò le caviglie di Mirza. Erano caviglie bellissime. Lei lodò il suo libro e lui l’abbracciò, più per gratitudine che per desiderio, ma lei non lo lasciò andare. Neppure lui. Gli baciò la guancia, il lobo dell’orecchio. Per mesi avevano fatto scorrere le dita sull’orlo del loro affetto senza mai riconoscerne il tessuto. La circonferenza del mondo si contrasse a ciò che stringevano fra le braccia. Lei si sedette sulla scrivania, tra le due pile di manoscritto letto e da leggere, e lo attirò a sé afferrandolo per gli indici.

Finì in novanta secondi. Lui la accompagnò alla fermata del maršrutka. Quando lei salì sul taxi collettivo, la seguì. Le si sedette accanto, premette le gambe contro le sue e viaggiarono in silenzio, due estranei con un segreto tenuto come un foglio di carta fra le ginocchia. Mirza andò a casa sua presentandosi alla porta posteriore, aspettò tremante e rossa in faccia, e lui le prese le mani. Era lei la sua casa. L’unica terra che lo legasse a sé. La condusse nella stanza tappezzata di schede di carta e non dovette spiegarle nulla. Lei vide la lana e capì. Si sfilò dal collo la sciarpa rosso rubino e l’aggiunse alla collezione. Questa volta si spogliarono prima di fare l’amore. La voglia che lui ricordava in maniera così vivida era sempre lì, una macchia di inchiostro viola che le attraversava le reni, l’unica parte di lei che non era mai invecchiata. La loro relazione proseguì per altri undici mesi, finché lei restò incinta. Per molti anni ci aveva provato con il marito, che era ricorso ad afrodisiaci a base di radici distillate da una vecchia vedova – quando la storia circolò, l’erborista vedova ebbe così tanti clienti da diventare la donna più ricca del paese, e presto cominciò a ricevere lei stessa diverse proposte di matrimonio – e se il padre fosse lui o il botanico curato con le radici, Chasan non lo seppe mai. Achmed nacque il 1° luglio 1965: era tutto quello che importava. Mirza morì a trentanove anni. Achmed ne aveva sette. Il cancro che lei aveva nello stomaco aveva solo otto mesi. Dopo la sua morte, Chasan e il botanico diventarono amici. Condividevano lo stesso oggetto d’amore e di rimpianto e, sebbene non avessero mai toccato l’argomento, Chasan era convinto che il botanico sapesse. Il botanico gli permise di diventare uno zio per Achmed, una figura che Achmed poteva amare pur senza dover fare affidamento su di lui, e in questo modo, indipendentemente dalla vera paternità, Chasan fu per lui un padre migliore di quanto lo fosse mai stato per Ramzan.

«Lo sai anche tu, Ula. Basta guardare cos’è diventato ciascuno di loro.»

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Quando Chasan tornò a casa, Ramzan era seduto a tavola, anche se “seduto” era un modo generoso di descrivere la sua posizione, così afflosciata che lo schienale della sedia era più alto della sua testa. Il tanfo acre di liquore saturava l’aria. Forse aveva dissolto la spina dorsale di suo figlio.

Reggendosi al tavolo, Ramzan mantenne la voce ferma; non aveva ancora visto suo padre sulla porta. «Non c’è niente da mangiare e non riesco a cacare. Io non lo capisco, e tu? Come faccio a essere stitico se hai dato tutta la carne a quei sudici cani? I sonniferi. Forse sono quelli. Forse il tempo. Forse dicembre mi ha congelato l’intestino.» Parlava nel vuoto con il timbro monotono di chi sa che nessuno lo ascolta, e per Chasan fu terribile sentire la voce del figlio, venata di solitudine e indirizzata a una sedia vuota. Pochi anni prima, Chasan non era riuscito a rispondere sì o no a una domanda; adesso, nessuna delle domande che Ramzan poneva e alle quali dava risposta era così semplice.

Non fosse stato per Ula, Chasan avrebbe richiuso la porta e sarebbe tornato dai suoi cani. Li avrebbe seguiti per le stradine del paese, per i canali di scolo ingombri di spazzatura, fino al labirinto di strisce sottili che le ombre dei rami disegnavano nel bosco, fino a quando i nasi sollevati si fossero rivolti a lui ansiosi, affamati. Non fosse stato per Ula, avrebbe ignorato la voce di suo figlio il mattino, il pomeriggio e la sera, quando salutava il suo branco e tornava a casa per la dose di insulina. Il giorno si sarebbe aggiunto silenziosamente a centinaia di altri giorni, non fosse stato per Ula. Ma aveva parlato con Ula, e il sollievo d’essersi tolto un peso ancora lo esaltava, e oggi, decise, sarebbe stato il giorno giusto per parlare con l’unica persona che voleva sentirlo.

«Non riesci a cacare?» chiese dolcemente. Aveva dimenticato il tono di rimprovero. «Potrebbero essere i sonniferi che prendi per addormentarti in mezzo ai fantasmi. Potrebbe essere Alman, o Musa, o Omar, o Aslan, o Apti, o Mansur, o Aslan il Villoso, o Ruslan, o Amir, o Amir Numero Due, o Isa, o Chalid, o addirittura Dokka. Probabilmente Dokka.» Caricò la voce con tutta l’animosità che riuscì a metterci. Non aveva mai parlato in quel modo. Per un anno, undici mesi e quattro giorni le suppliche, ammonizioni e preghiere cui avrebbe voluto dar voce non avevano mai lasciato i suoi polmoni. Il peso di tutto ciò che non aveva detto gravava come un organo morto nel suo petto. Faticava a respirare. Anche lui sapeva cosa significasse avere scorie impossibili da espellere.

La faccia di Ramzan si illuminò per la sorpresa. «Aspettavo di sentirtelo dire» replicò. Un sorriso raggiante gli cancellò ogni ombra dal viso. Il silenzio di Chasan era stato così lungo e desolato che per Ramzan quella voce di rimprovero era sia una vittoria sia un’assoluzione. Importava solo il suono della voce di suo padre; il messaggio era irrilevante. «Ma non puoi parlarmi in questo modo» aggiunse, aggrappandosi stretto al filo del discorso e sperando che una discussione facesse scorrere altra voce paterna.

«Vorresti dire a me come devo parlare?» A Chasan pulsavano le tempie. «Un figlio che lo dice al padre? Un ragazzo? Un...» Si interruppe prima di deridere la virilità di Ramzan.

«Cosa credi, di vivere a una spanna da terra? Ma chi te lo porta il cibo che poi getti ai cani?» Ramzan parlava con una gioia lenta e selvaggia, trafiggendo suo padre con ogni parola. «Nel raggio di cinquanta chilometri non c’è verso di trovare abbastanza aspirina per dare sollievo a un doposbronza, eppure ogni due settimane ti procuro l’insulina. Dovresti essermene grato. Ti permetto sia di sopravvivere sia di volermene per questo.»

A Chasan sembrava di non respirare abbastanza in fretta. Una lucidità cupa, stretta come una morsa, schiacciò qualsiasi affetto paterno fosse sopravvissuto al silenzio. Nonostante la menzogna in cui viveva, Ramzan era ancora capace di dire la verità, ed era per la verità, piuttosto che per le menzogne, che Chasan lo odiava. Una volta aveva tenuto la mano sopra la culla di Ramzan e le ditina del neonato si erano avvolte attorno alle sue come minuscoli viticci. Una volta aveva sollevato fra le braccia il bambino e visto miracoli nei suoi occhi profondi e immobili. «Tu non sei niente per me» disse infine.

Ma Ramzan, ancora sorridente, ancora indicibilmente felice, disse: «Come il tuo libro? Vuoi forse portarmi nel bosco e bruciarmi?».

«Ho tenuto più a quel libro che a qualsiasi persona.»

«Lo so. Più che a mia madre.»

«Lei sapeva esattamente chi ero quando ha accettato la mia proposta.»

«Ti credeva Albert Einstein, credeva che l’onore del tuo genio avrebbe compensato la tua negligenza. Tratti meglio i tuoi cani.»

«Questo non è vero» disse Chasan, senza capire come avesse fatto quella conversazione a rivoltarglisi contro.

«Un genio, credeva lei. Come se Albert Einstein potesse scordarsi il compleanno di sua moglie.»

Come gli era venuto in mente di parlare? Altri due anni di silenzio sarebbero stati meno dolorosi di un altro minuto di questo. Si era aspettato la veemenza di Ramzan, i suoi discorsi a vanvera, ma non si era aspettato quella concisione. Non si era aspettato che il figlio che gli aveva distrutto la reputazione, il nome, la fede nella fondamentale bontà dell’uomo, potesse trovare modi nuovi per rovinarlo. Più che i suoi fallimenti paterni, era la gioia sorridente di suo figlio nel descriverli che Chasan avrebbe ricordato. Gli occhi socchiusi per l’esultanza. Chasan vi riconobbe i suoi. Era la conversazione che aveva temuto fin dalla nascita di Ramzan. Fin da quando la donna che non era Mirza aveva detto, esausta di dolore, una parola che avrebbe dovuto legarli: «Nostro». Da quando lo aveva tenuto in braccio, poco più di una testa calva e un viluppo di coperte, e aveva desiderato che il bambino che teneva fra le braccia fosse Achmed. Povero piccolo. Non hai mai avuto una possibilità.

«Non sono stato un buon padre, lo so, lo so, lo so, lo so, lo so, lo so, lo so, lo so, lo so, lo so» e continuò a dirlo e ridirlo, una puntina incantata su quella affermazione che continuava a ripetere perché non lo dicesse Ramzan. «Ma non ti ho mai fatto del male» disse infine. «Non ho mai alzato un dito su nessuno di voi due.»

«Eri una bocca che si apriva solo per mangiare. Proprio come adesso. E la cosa peggiore è che hai sprecato quello che avevi. Eri fisicamente capace di avere una moglie e un figlio, però non ci volevi.»

«Mi dispiace per quello che ti è successo.» Nemmeno scusandosi riusciva a dirlo. Il 2 marzo 1995, otto giorni dopo il ventitreesimo compleanno di Ramzan: quel giorno, non se lo sarebbe mai scordato. Il camion da trasporto non aveva neppure rallentato quando avevano spinto fuori Ramzan. Il pannolone da adulti che gli avevano messo era rosso scuro. Trovare il suo ragazzo là in mezzo alla strada, santiddio, l’orrore lo aveva lasciato senza parole. Achmed aveva curato la ferita di Ramzan ed era l’unico del paese a saperlo. Per settimane Chasan si era occupato di suo figlio, gli portava da mangiare a letto, gli leggeva romanzi da quattro soldi, cercava di evocare una scintilla di vita in quegli occhi spenti e brutalizzati. Ramzan non era mai guarito, non del tutto, non fisicamente, non esistenzialmente. La Discarica l’aveva spezzato come un ramo secco e tutto il tè e le chiacchiere della Cecenia non avrebbero mai rimesso insieme le due metà. Non aveva mai parlato di quello che gli era successo laggiù. L’orgoglio per ciò che aveva fatto e la vergogna per le conseguenze erano così strettamente intrecciati che non riusciva neppure a dire al padre che l’avevano castrato per essersi rifiutato di fare l’informatore a spese dei suoi vicini. «Piango la vita che non hai potuto vivere» disse Chasan. «Il padre che saresti potuto diventare, per amore di tutti noi.»

«E io piango il padre che potevi essere stato» disse Ramzan. Il sarcasmo sparì dalla sua voce, lasciando scoperto un crudo, profondissimo bisogno. A Chasan sembrò che la sua faccia diventasse di colpo troppo pesante. Si era aspettato false accuse, dissimulazioni: non si era aspettato la sincerità. Le assi del pavimento gemettero quando si voltò verso la porta. Nella mente gli risuonò la musichetta del programma televisivo che seguiva il notiziario della sera negli anni Settanta, una canzoncina stupidamente allegra cantata dai lavoratori dei collettivi, una melodia che un tempo gli faceva l’effetto di un conto alla rovescia, un cicalino che gli diceva quando era l’ora di addormentarsi, di riposare, di sognare; pur non avendo pensato a quella canzoncina da anni, adesso gli tornò in mente, ogni nota, e la mugolò sottovoce con la mano sulla porta, e la voglia di morire.

«Tu mi credi egoista, ma non lo sono» disse Ramzan dietro di lui, con insopportabile sincerità. «Quello che ho detto sull’insulina, lo intendevo sul serio. Tutto questo finirà, a un certo punto. Dobbiamo solo sopravvivere. Tu senza insulina non puoi sopravvivere. Entrambi abbiamo bisogno di cibo, giusto?»

«Ho settantanove anni. Settantanove. Il resto della mia vita non vale il resto di quella di Havaa, o di Dokka, o di Achmed.»

«Non punto la pistola alla testa a nessuno.»

«Ramzan.» Chasan sospirò. Un’ondata di spossatezza sembrò emanare da lui. «Tu metti le pallottole nel caricatore.»

«Io sono proprio come te! Hai detto che non hai mai alzato un dito su mia madre o su di me. Neanch’io ho mai alzato un dito su qualcuno!»

«È tutto?»

«È tutto.»

«Solo un nome al telefono?»

«È tutto!»

«E poi un altro nome, no? E un altro, e un altro, e un altro, e un altro, e un altro, e un altro, e un altro, e un altro, e un altro, e un altro, e poi Dokka?» Ritrovò il proprio sbalordimento riflesso negli occhi di Ramzan. Il suo stupido, stupido figlio non capiva cosa stava facendo e perché, non più di quanto lo capisse Chasan.

«L’ho fatto per noi. Perché potessimo sopravvivere insieme. Sei la sola persona che ho. Sei la mia famiglia.» Era la cosa più dolce e più triste che avesse mai sentito. In un altro mondo avrebbe abbracciato Ramzan, l’avrebbe baciato in fronte e stretto così forte che il battito del cuore di suo figlio sarebbe stato indistinguibile dal suo.

Si avvicinò al tavolo e mise una mano sulla spalla di Ramzan. La stretta era forte e confortante. Immaginò Abramo in cima alla montagna e i versetti gli tornarono in mente senza evocarli: Figlio mio, mi sono visto in sogno, in procinto di immolarti.

«Parli di famiglia: allora lascia stare Achmed e Havaa.»

«Lo so che lo vuoi per figlio. È tutta la vita che lo so.»

«E se anche fosse, Ramzan?» chiese Chasan afferrandogli la spalla. «Allora?»

Il viso di Ramzan divenne vuoto, freddo, insondabile. «Nessuno di noi è legato a qualcun altro da un particolare così insignificante. Credi davvero che la paternità conti qualcosa? No, padre, no. Siamo i figli dei lupi. È tutto qui, padre. Lui potrebbe essere tuo figlio, tuo fratello, tuo nipote, il tuo vicino, il tuo amico, e io non lo salverei.»

«Però salvi me. Che spreco.»

Chasan andò alla porta, la aprì al vento. Si girò. Ramzan lo guardava, gelido e impenetrabile come uno stagno d’inverno. Tu sei mio. Ti riconosco. Rivoltiamo le nostre anime attorno alle rispettive miserie. È questo che fa di noi una famiglia.

Fuori, i cani lo stavano aspettando.