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Fino a quel momento Havaa detestava l’ospedale. Detestava l’odore di disinfettante che inaspriva l’aria e le faceva bruciare la gola proprio come la candeggina che usava sua madre quando lavava le lenzuola, finché c’erano state la candeggina, le lenzuola e sua madre. Detestava i pazienti, che erano contusi e spezzati, che ci mettevano tanto, così tanto, a morire. Detestava Deši. L’infermiera era vecchia, l’infermiera era noiosa, e se era lei la faccia della vita non c’era da stupirsi che tanti pazienti scegliessero la morte. Si accigliò guardando quello stupido linoleum giallo: che stava facendo Achmed? Detestava anche lui. Le aveva gettato un camice in testa e l’aveva lasciata lì seduta da sola nella sala d’aspetto mentre quell’uomo che avevano trascinato dentro su un telone riempiva l’aria di urli e il pavimento di sangue. Attraverso la stoffa sottile del camice aveva visto ombre frenetiche che si agitavano sul pavimento cercando di trattenere tutto ciò che fuoriusciva da quel poveraccio. Appena finito erano scomparsi nel corridoio, lasciandola lì come un attaccapanni.
E adesso Achmed se n’era tornato a casa e l’aveva di nuovo mollata lì. Sarebbe tornato l’indomani? Sì, per forza. Non poteva neppure contemplare altre possibilità. Certo, Achmed sarebbe tornato l’indomani; sarebbe tornato l’indomani e sarebbe andato a Groznyj, un posto in cui avevano sempre detto di andare insieme, e invece ci sarebbe andato con Sonja, che evidentemente gli piaceva più di lei, perché era più grande e aveva le tette, e probabilmente avrebbero fatto qualcosa che sarebbe parso divertente solo a loro due, come inventare un modo per grattarsi un arto fantasma, e l’indomani al loro ritorno lei li avrebbe odiati, e fino ad allora avrebbe sentito la mancanza di Achmed.
Un arto fantasma. Non aveva ancora insegnato alla guardia monca a fare il giocoliere, come aveva promesso ad Achmed, e detestava quel suo desiderio di far colpo su Achmed persino quando lui non c’era. Trovò la guardia all’ingresso dell’ospedale, addormentato su una panca. Portava la divisa sbiadita dei ribelli. Gli premette l’indice nella pancia quanto più a fondo poteva, il che non era molto, perché non c’era molta pancia da premere. Lui si svegliò con un grugnito. «Cosa vuoi?»
«Fare il giocoliere.»
Richiuse gli occhi. «Non ti serve il mio permesso. Fa’ pure.»
«No, sono qui per insegnarti a fare il giocoliere.»
«Starai scherzando.» Non aveva riaperto gli occhi.
«Non sei solo un povero monco che fa pena a tutti» disse Havaa nel modo più gentile che poteva. Quando Achmed le aveva insegnato i giochi di destrezza, sei mesi prima, aveva usato rettangolini di garza che si sollevavano e roteavano nell’aria come un banco di pesciolini bianchi affamati. Si mettevano tutti e due in mezzo alla strada, dove la cosa più vicina al traffico erano le folate di vento, con i pezzi di garza che planavano sulle folate e Achmed che urlava e fischiava mentre lei li inseguiva. Le ci era voluto un pomeriggio intero per imparare a tirare e riprenderne uno. Il giorno dopo si erano spostati in casa. Quella del giocoliere è un’attività più della mente che delle mani, le aveva detto Achmed; nell’aria immobile l’aveva imparato in pochi minuti. «Quella del giocoliere è un’attività più della mente che delle mani» disse alla guardia senza un braccio.
«Sono morto nel sonno, vero? E questo è l’inferno?»
«Si comincia lanciando in alto un fazzoletto» disse lei, e glielo dimostrò con uno svolazzo esagerato.
La guardia con un braccio solo si mise a pregare. «Salvami, Allah, da questo pozzo di empietà.»
«Poi devi fare in modo di intercettare il fazzoletto, come se lo appuntassi alla spalla di un amico fantasma. Come un amico fantasma: questo ti dovrebbe risultare familiare!»
«Gesù Cristo, ascolta la mia supplica» salmodiò la guardia con un braccio solo, casomai il dio degli infedeli fosse più ricettivo.
«Poi ripeti lo stesso movimento con l’altra mano.»
«Questa crede che io abbia un’altra mano.»
«Visto come mi riesce bene?» disse lei con tutti e tre i fazzoletti in aria.
«La mia mano fantasma ti sta prendendo a sberle.»
«Non la sento» disse lei, raggiante.
«Nemmeno io» disse lui, cupo.
«Sembri un po’ di malumore. Forse dovresti farti un altro pisolino.»
Lasciando la guardia con un braccio solo, Havaa detestò ancora di più Achmed: se non poteva raccontargli di aver insegnato alla guardia con un braccio solo a fare il giocoliere, era come non averlo fatto. L’aveva abbandonata, proprio come suo padre, e anche sua madre, e lei aveva bendato quella ferita con tutto l’astio testardo che era riuscita a mettere insieme, per tenerla nascosta, perfettamente isolata, affinché nessuno potesse accorgersi che in appena tre ore aveva imparato a sentire la sua mancanza con la stessa terribile intensità riservata ai genitori. Avrebbe dovuto saperlo, che Achmed si sarebbe scordato di lei con la stessa velocità con cui s’era scordato di sua madre.
Non odiava Sonja, almeno non quanto Achmed. Certo, Sonja era brusca e aveva poca pazienza; priva com’era di senso dell’umorismo, non riusciva a procurare in un’ora il divertimento che Achmed sapeva suscitare in un minuto. Però andava bene così, perché Sonja era diversa. Sonja comandava lì dentro, dava ordini a destra e a manca, e persino Achmed impallidiva quando parlava lei. Sonja non era solo un medico, era il capo dell’intero ospedale. Non ci si aspettava che una donna diventasse medico; non erano in grado di affrontare il lavoro, lo studio, gli orari e l’impegno, non quando avevano case da pulire, e bambini di cui occuparsi, e cene da preparare, e mariti da soddisfare. Però Sonja era più bizzarra, più meravigliosamente insolita della guardia con un braccio solo; più che gli arti, a lei avevano amputato le aspettative. Lei non aveva un marito, o figli, o una casa da pulire e di cui prendersi cura. E invece era in grado di affrontare il lavoro, lo studio, gli orari, l’impegno e tutto quello che serviva per mandare avanti un ospedale. Perciò, anche se Sonja era brusca e aveva poca pazienza, Havaa poteva perdonarle quelle mancanze, perché erano tali solo in quanto opposte a quello che ci si aspettava da una donna. Quella corazza spessa e inflessibile nascondeva la sfida continua che era la vita di Sonja. E ad Havaa piaceva.
Così si avviò lungo il corridoio, chiedendosi cosa sarebbe potuta diventare se avesse vissuto come Sonja. Magari avrebbe potuto fare l’arboricoltrice, come suo padre. Non aveva mai pensato che le donne potessero diventare scienziate, ma se Sonja poteva essere medico e capo dell’ospedale, cosa impediva a lei di diventare arboricoltrice? O una studiosa di anemoni di mare? Rallentò per dare una sbirciata nella stanza dove dormiva l’uomo senza gamba. Il sangue si seccava scuro sui bendaggi. Il moncherino sbucava dal bordo del letto come un ciocco di legno marcio sotto la neve. Dormiva. Perso in quel sonno confuso e indotto dall’eroina, stava già progettando in sogno il monumento ai caduti di guerra che avrebbe realizzato di lì a ventitré anni, in acciaio e cemento. In quel preciso momento, era l’unica persona in quell’ospedale che lei non detestasse.
«Credevo di aver detto a una certa ragazzina di trovarsi qualcosa da fare» disse Deši entrando nella stanza con il suo cipiglio d’ordinanza.
«Lo sto facendo.»
«“Lo sto facendo”, dice lei. E sarebbe?»
«Pensare» ribatté Havaa, come un sasso scagliato contro la faccia piatta dell’infermiera.
«Trovati qualcosa di più utile da fare» disse Deši. Sferruzzava, appoggiandosi alla parete. Il gomitolo di lana le rotolava lentamente in tasca.
«È Sonja che ti ordina di andare di qua e di là?»
«E perché dovrebbe?»
«Perché è Sonja che dirige l’ospedale.»
«Da non crederci» disse Deši con un sospiro. «Lavoro qui da prima che Sonja tirasse calci nella pancia di sua madre. Ti portano via proprio tutto, persino il rispetto di un’orfanella con la bocca piena di domande.»
«Perché ci sono solo donne a mandare avanti l’ospedale? Che fine hanno fatto gli uomini?»
«Sono scappati.»
«Ma sono loro quelli coraggiosi.»
«No, loro sono quelli che ti spezzano il cuore e ti mollano per una più giovane.»
«Quindi mi stai dicendo che certe volte le donne sono più coraggiose degli uomini. E medici migliori.»
«Sto dicendo che se vuoi tenerti un uomo è meglio che tutte le sere gli nascondi le scarpe, così non ti pianta in asso.»
«Non capisco.»
Deši scosse il capo. Il suo consiglio di cuore valeva quanto il riscatto per uno straniero ed eccola lì a regalarlo a una ragazzina che non sapeva apprezzare quella saggezza così duramente conquistata. «Gira solo alla larga dagli oncologi, d’accordo?» disse, e condusse la bambina in sala d’aspetto. «Se lo tieni a mente, ti risparmierai il peggio. E adesso perché non prendi il tuo blocco e disegni qualcosa?»
«Che cosa?»
«Non lo so. Dov’è che ti piacerebbe essere, in questo momento?»
«A casa mia» rispose Havaa. Credeva che la parola indicasse solo i quattro muri e il tetto che la contenevano, invece si dilatò e si popolò a includere Achmed, il paese, i suoi genitori, tutto quello che lì non c’era. «Una settimana fa.»
«Io invece vorrei essere qui quarant’anni fa, quando mi offrirono questo lavoro. Agiterei il dito davanti alla faccia della capoinfermiera e le direi no, no, non riuscirete a fregarmi, e me ne andrei subito fuori di qui.»
«Certo che è stupido. Ci sono cartine che ti mostrano come raggiungere i posti dove vuoi andare, ma non c’è nessuna cartina che ti mostri come raggiungere il tempo dove vorresti essere.»
«Perché non la disegni tu?»
«Solo se mi lasci andare a giocare al quarto piano.»
«Bambina, se ci fosse una cartina del genere, ci sarebbe anche il quarto piano.»
Il corridoio acre, puzzolente di disinfettante, inghiottì i passi di Deši, e Havaa restò di nuovo sola. Il blocco inclinato sulle gambe, pensò a suo padre. Non lo odiava. Se ne rese conto pensandoci, sentendolo crepitare nelle ossa delle braccia, delle mani, abbracciandosi stretta con le dita che stringevano le spalle, con quel tremore dentro di lei che era solo il pulsare del suo stesso cuore. Ogni sera le raccontava di una razza aliena dal corpo verde: esseri che per faccia avevano un unico orifizio attraverso il quale vedevano, mangiavano, sentivano gli odori, ascoltavano, pensavano e parlavano. Ogni sera gliene raccontava un capitolo nuovo, ed erano ormai trascorse molte sere e le aveva raccontato molti capitoli, tanto che li chiamavano capitoli anziché storia, perché le storie hanno una fine e quella invece non ne aveva. Secondo suo padre, gli alieni verdi avevano distrutto il loro pianeta in una guerra civile interstellare ed erano emigrati sulla Luna per ricominciare. Ogni sera, mentre attorno a loro crollava la civiltà, le raccontava di una civiltà nuova che veniva costruita sulla superficie lunare. Sperava che suo padre fosse lassù, con loro, sulla Luna.
Entrò Sonja, puzzava di fumo di sigaretta, le palpebre gonfie e le dita che tremavano. «Sei qui» disse Sonja, sorpresa.
«Sì» concordò Havaa. «Sono qui. Questa è la sala d’attesa.»
Sonja gettò uno sguardo al pavimento, alle sedie, sconcertata, e poi annuì. «Hai ragione. Questa è la sala d’attesa» disse, e si sedette sulla sedia di fianco ad Havaa.
«Com’è andata la giornata?» chiese Havaa.
Sonja alzò le spalle, fece scattare l’accendino e fissò la parete senza vederla. «Non male. E tu?»
«Non male.»
Sonja sospirò, chiuse gli occhi e fece scattare di nuovo l’accendino con un ritmo lento e privo di senso.
«I Federali prenderanno anche me?» Fare quella domanda era l’ammissione che sarebbe potuto succedere e, in base all’esperienza di Havaa, qualsiasi orrore potesse verificarsi, prima o poi si verificava. Meglio corazzarsi con il fantastico. Meglio rivolgersi all’interno, nascondersi nelle acque scure fra gli anemoni di mare, in profondità, dove gli squali non ti vedono.
La mano di Sonja trovò la sua a metà strada fra le due sedie.
«I Federali mi porteranno da mio padre?» chiese, pur sapendo che quella domanda non aveva una risposta che le sarebbe piaciuto sentire. Il padre era la sua porta verso il mondo; era l’unica apertura attraverso la quale lei vedeva, ascoltava e sentiva. Senza di lui non sapeva cosa fosse quello che vedeva, ascoltava, e sentiva; l’unica cosa che sentiva era la sua assenza.
«Andiamo a dormire» disse Sonja. Si alzò, continuando a tenerla per mano. «Chiudiamo gli occhi e loro sono là, proprio dove li abbiamo lasciati, nella loro sala d’attesa, ad aspettarci.»