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«Allora è per questo che continuano a tenerti?» disse Achmed alla guardia con un braccio solo che, proprio in quel momento, annaspava sotto il peso di un pesante scatolone. Una vena blu sporgeva pulsante sul robusto avambraccio sinistro della guardia. «Fai il traslocatore, come secondo lavoro?» chiese Achmed. Se ne stava appoggiato alla jeep, a fumarsi tranquillamente una sigaretta. «Traslochi scontati del 50%?»

«Posso sparargli, dottoressa Sonja?» chiese il guardiano monco, pieno di speranza.

Lei sorrise di quei due buffoni – il guardiano monco minacciò di prendere a calci Achmed con le sue due gambe perfettamente funzionanti – e dovevano essere buffoni per forza, perché ogni dipendente dell’ospedale con un copeco di buon senso se n’era andato. «Mi servono le sue braccia» gridò Sonja rivolta al guardiano che stava inseguendo Achmed per il parcheggio. «Non sparargli finché non abbiamo portato dentro le provviste.»

Quando finirono di scaricare, Sonja andò all’armadio della sala mensa. Dietro la scatola da scarpe con la cassa contanti, l’acciottolio dei cartellini d’identità, le bustine di plastica dell’eroina, c’era la roba buona: lattine e lattine di latte condensato e zuccherato. Lo sciroppo scese gorgogliando dal foro triangolare nel coperchio, uno spesso strato delizioso sulle gengive, e per qualche succulento secondo la sua mente si contrasse alle dimensioni di quel ruscello zuccherino. «Il latte condensato dolce ti farà marcire la bocca ma ti salverà l’anima» diceva Lena, la zia di suo padre, morta nel ricovero per anziani di Groznyj all’età di centotré anni, dopo aver seppellito due mariti, sei figli, tre nipoti e trentadue denti. Il reparto maternità era deserto, traumatologia tranquillo, e Sonja chiuse gli occhi e si lasciò scivolare in quella pace inaspettata come se fosse acqua tiepida e purificatrice.

Si inerpicò fino al quarto piano. Le porte a vento della vecchia maternità mormorarono al suo passaggio. La fiamma a goccia del suo accendino la guidò fino a una lampada a olio e si dilatò a riempire il paralume di vetro. Quando sollevò la lampada, la luce sbucciò le tenebre. Negli anni trascorsi da quando li aveva finiti, i murales di Nataša si erano sbiaditi e confusi, come se la nebbia fosse calata sulla città. Ma anche così la finezza dei dettagli non cessava di stupirla. Lì, nella finestra che racchiudeva metà del parco, c’era un cane che da ormai otto anni stava pisciando sulla gamba di un commissario.

«Nel giro turistico questo non me l’ha mostrato.»

Si era cambiato infilandosi quella ridicola tenuta sanitaria da donna ed era appoggiato allo stipite della porta, cercando di sembrare disinvolto e fallendo miseramente. Buffoni, imbecilli, orfani, pazzi e visionari: famiglia. «Mi dispiace» gli disse. «Per prima.»

Lui scrollò le spalle; non c’era proprio fine alle scrollate di spalle che Sonja avrebbe dovuto decifrare? «Questo cos’è?» chiese lui guardando le pareti.

«Il vecchio reparto maternità.»

«Al quarto piano?»

«La genialità della progettazione sovietica» disse lei scuotendo la testa. «L’ospedale è stato progettato nei primi anni dell’era Brežnev e senza l’intervento di nessun medico praticante. Quando i Federali hanno sparato un razzo nel magazzino, abbiamo deciso una buona volta di spostare tutto al pianterreno.»

Le ombre gli scivolarono via dalla faccia mentre avanzava nella pozza di luce della lampada.

«Li ha dipinti lei?» chiese accennando al murale della finestra più vicina.

«È stata Nataša.»

«Com’era?» le chiese girando la testa verso di lei.

Aveva descritto Nataša alle guardie di frontiera, agli ufficiali dell’esercito, agli operatori umanitari. Occhi nocciola. Capelli castani, alta un metro e settanta, sessanta chili, niente tatuaggi né piercing, nessuna cicatrice visibile a parte le bruciature di sigaretta sulla spalla sinistra. Recitava la litania, la scarabocchiava sui moduli come un ritornello inconscio, ma come faceva uno strumento spuntato come il linguaggio a delineare qualcosa di così strano e inafferrabile come Nataša? Le metafore non bastavano: Nataša non si poteva riassumere in parole. Quello che le restava di lei era ciò che le mancava: le mancavano la risata di Nataša, il disprezzo di Nataša, l’amore riluttante di Nataša. E come un arto amputato continua a far male e formicolare, la sua Nataša perduta continuava a ridere, a disprezzare, ad amare con riluttanza, così piena di vita che a volte Sonja si chiedeva se non fosse invece lei, Sonja, quella scomparsa.

«Nataša era complicata» disse alla fine, che era quanto di più vicino alla verità riuscisse a esprimere.

«È» la corresse lui. «Tornerà. Come un George Bush.»

Sogghignando stupidamente, Sonja scrollò le spalle, scoprendo infine l’utilità del gesto. Le guance di Achmed si sollevarono agli angoli del suo sorriso. La sua fiducia era così grande e sfacciata che avrebbe persino potuto credergli, se non stava attenta. Era quella speranza, che aleggiava nei più impercettibili margini delle probabilità, a farle più male della perdita; al contrario di Nataša, non scompariva mai del tutto. «Parlarne non risolve niente» disse, contenta se non altro che Nataša non fosse lì a sentirglielo ammettere.

«Dokka era già scomparso una volta, e poi è tornato. Senza le dita, ma è tornato. Spero che lo faccia di nuovo.»

Questa è la parte più difficile, avrebbe potuto dirgli, prima che il tempo attenui il lutto a un dolore sopportabile. Eppure lui e la bambina scherzavano con una leggerezza che lei non avrebbe saputo adottare a un anno di distanza dalla scomparsa di Nataša, e quella capacità di allegria la turbava.

«Le vorrebbe bene lo stesso» gli chiese senza riuscire a mascherare il proprio disagio «se avesse dei figli suoi?»

«Difficile saperlo» rispose lui. «Le ho sempre voluto bene. Ma adesso è più mia che di chiunque altro. Se avessi una famiglia, forse saprei meglio cosa dirle. Però è mia. Questo lo so per certo.»

Una volta, quando Sonja aveva rinnegato la famiglia in un capriccio infantile, suo padre le aveva detto: «La tua famiglia non è una tua scelta». Quasi trent’anni dopo, attraversando il parco, aveva visto due vagabondi infilati in un unico sacco a pelo, le braccia nere di sudiciume che si stringevano a vicenda, e aveva finalmente capito cosa intendeva suo padre.

«Buffo» disse lui avvicinandosi alla finestra. «Un mio amico mi aveva parlato anni fa di questo murale.»

«Gli era nato un figlio in questo reparto?»

«Ne dubito.» Rimase in reverente concentrazione a una spanna di distanza dalle assi di compensato. «Ha quasi ottant’anni.»

«Ci ha lavorato così a lungo. Non l’ho mai vista dedicarsi tanto a qualcosa. Ero davvero fiera di lei. Deši e Maali l’hanno aiutata.» Una volta Nataša aveva descritto quel lavoro come una trascrizione dei suoi ricordi, un’espressione così bella che Sonja era riluttante a condividerla con lui.

«Me n’ero completamente dimenticato, altrimenti le avrei chiesto prima di vederlo. Quando Chasan me ne aveva parlato, mi aveva commosso moltissimo che qualcuno potesse prendersi tanto fastidio. Può immaginare quanto mi abbia affascinato l’idea. Così ho fatto qualcosa di simile.»

Il cuore di Sonja si sollevò di un centimetro. Persino da scomparsa, Nataša aveva la capacità di stupirla. «Per via dei murales di mia sorella?»

«Sì, suppongo di sì. Le ho raccontato dei ribelli feriti che hanno occupato il paese dove abito? Poi sono arrivati i Federali. Quarantuno dei miei vicini sono scomparsi. Mi sono ricordato di quello che aveva raccontato Chasan, di una stanza con il suo panorama ricreato sulle finestre sbarrate, e allora ho fatto i ritratti dei quarantuno scomparsi su fogli di compensato e li ho appesi in giro per il paese.»

«Che cazzo, tutti artisti da queste parti» disse lei scuotendo la testa. «Se la sua gente passasse più tempo a combattere e meno a disegnare, una volta ogni tanto potreste anche vincere una guerra.»

«Tutta colpa della facoltà di medicina.» Si chinò su di lei e abbassò la voce a un finto sussurro da cospiratore. «Avevo l’abitudine di saltare le lezioni e i laboratori per seguire i corsi d’arte. Ecco perché sono più bravo come pittore che come medico.»

«Non posso credere che me l’abbia raccontato.»

«Le affido il mio segreto più oscuro» le rispose, così compiaciuto con se stesso che Sonja non poté evitare di ridere con lui.

«Potrei perdere il lavoro, se continuo a tenerla qui dopo averlo saputo. Negligenza criminale.»

«Ma che lei sia una criminale è evidente, guardi solo che gente frequenta. Contrabbandieri internazionali e artisti dilettanti.» Il suo braccio sinistro si muoveva sicuro verso Sonja. «Potrebbe licenziarmi.»

«Ormai è troppo tardi» disse lei, e si concentrò sugli abiti femminili tesi sui suoi bicipiti, su quanto lo rendevano ridicolo. Ce n’erano stati quattordici, dall’ultima corsa degli ascensori: quattro russi, sei ceceni, due ingusci, un medico francese e un giornalista finlandese che si era scopata prima di concedergli un’intervista. Nessuno conosceva il suo cognome né il suo patronimico; l’anonimato era il profilattico a più ampio spettro. E il sesso fine a se stesso – raro, illecito e spesso stranamente impersonale – le dava più soddisfazione di qualunque cosa potesse offrirle un marito. Con giornate che si articolavano sui diecimila modi diversi in cui un essere umano può essere ferito, Sonja aveva bisogno, di tanto in tanto, di ricordarsi che il sistema nervoso non serviva esclusivamente per avvertire il dolore.

«Anche prima di quei ritratti la gente delle fattorie e dei paesi nei dintorni veniva nel mio ambulatorio, persone che non possedevano foto dei loro cari. Io li disegnavo per loro.» Lo diceva come se fosse successo secoli prima.

«Come un disegnatore della polizia?»

«Se devo darmi una definizione, preferirei ritrattista.»

E a quel punto fu semplicemente ovvio.

«La disegni per me» gli chiese. «Adesso. Disegni la faccia della donna che le ha fatto il mio nome.»

Quando tornò con un blocco e una matita, si sedettero sul bancone. Achmed aprì il blocco.

«Me la ricordo appena» disse a titolo di scusa o forse precauzionale, non le riuscì di capirlo.

Gli fece segno di cominciare. Se avesse aperto la bocca, se avesse spillato quella riserva, niente sarebbe più riuscito a fermarla. Lui piegò il blocco lungo la costola e tracciò una linea così leggera che sembrava semicancellata. Un ovale. Avrebbe potuto essere la testa di chiunque, persino di Nataša. Poi disegnò due ovali più piccoli, proprio in mezzo alla testa, troppo lunghi, finché gli venne in mente la frangia sulla fronte. Due occhi la guardarono dalla pagina. Quando cominciò a disegnare un naso sbagliato, gli strinse il polso.

«Non è...» Lottò per infilare le parole nella frase. Se ne sarebbe pentita. Lo sapeva. Ma non vedeva la faccia di sua sorella da dodici mesi, due settimane e tre giorni, e più ancora della faccia di Nataša, del suo ritorno, voleva la fine di Nataša. «Il naso era più piccolo.»

Per la mezz’ora successiva lo corresse gentilmente ogni volta che si smarriva. Non è che si fosse dimenticato la sua faccia, si disse Sonja: lei lo stava solo aiutando a ricordare. E se anche si stava illudendo, che importava? Le illusioni non erano forse meglio della disperazione, le false speranze meglio che nessuna speranza? Mentre la faccia calma e tranquilla di Nataša emergeva, il cuore di Sonja le si arrampicava su per le costole. Batteva contro ciascuna di esse, poi le risalì nel collo, premendo forte contro la gola. In un campo profughi o in un paese straniero, lontano, da qualche parte, Nataša era in salvo. Lui disegnò il mento che Sonja avrebbe riconosciuto in una folla di migliaia di persone, poi scese sul collo perfetto, intatto. Neanche una bruciatura di sigaretta: non gli aveva detto di mettercele. Qualcosa di spettacolare le stava succedendo nel petto. Non se lo era aspettato. Sul foglio di un blocco da disegno che ne conteneva duecentoventi, e con solo qualche millimetro di grafite, Achmed aveva restituito Nataša a lei e al reparto maternità.

«Si fermi, per favore» gli disse.

«Credevo che lo volesse.»

Fece per toccarle una spalla ma lei si voltò dall’altra parte. «Ci vediamo domani» le disse lui dopo un momento.

«Questo se lo porti via.»

Achmed prese Nataša dal bancone e la portò via dal reparto maternità.