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Pochi giorni dopo l’offerta del Trattato di pace di Chasavjurt, Sonja aveva rotto con il fidanzato scozzese, aveva lasciato il suo internato alla Clinica universitaria e si era imbarcata su una serie di voli in coincidenza da Londra a Varsavia a Mosca a Vladikavkaz. Il sedile posteriore del taxi abusivo che aveva preso dall’aeroporto era stato rimosso per far posto ai bagagli e la sua unica valigia scivolava a ogni curva della strada, sbattendo di continuo contro lo schienale del sedile come a ribadire il concetto che, nonostante le illusioni che si era fatta quando il petto di Brendan si sollevava e abbassava contro il suo, la sua vita era abbastanza insignificante da entrare in una sola valigia. Accidenti a me, pensò, che ci faccio di nuovo qui?
Pennacchi scuri che si levavano da ciminiere lontane, una catena di montagne arrotondate dal vento, l’aria post-sovietica che le lasciava in bocca un sapore di straccio sporco. Quando arrivarono alla stazione degli autobus, attese che la sua valigia con le rotelle fosse sana e salva a terra prima di pagare l’autista. La Samsonite, un regalo d’addio di Brendan, faceva l’effetto di un’insegna al neon per segnalarla come straniera, mentre se la trascinava appresso superando i bauli da piroscafo dell’epoca imperiale degli altri viaggiatori. Le autolinee nazionalizzate non prevedevano più corse dirette in Cecenia, ma, dopo un’ora di attesa in una fila di tre persone, un impiegato le aveva indicato un chiosco che vendeva video porno lesbo, sigarette ucraine, cassette degli Air Supply e biglietti di un’autolinea privata che aveva un collegamento settimanale dall’Ossezia del Nord alla Cecenia. Il primo autobus partiva solo il mattino dopo. Per quanto stanca per il viaggio, Sonja sapeva che non avrebbe dormito. Trascorse la notte seduta su una panca di legno, con un laccio della scarpa legato attorno al manico della valigia per dissuadere i ragazzini zingari dal trascinarsela via.
«Vi porterò fino alle vostre tombe» annunciò l’autista mentre percorreva il corridoio centrale per ritirare i biglietti, alle sei e un quarto del mattino. Si inarcò all’indietro, come se tenesse in equilibrio un bicchierino invisibile sulla pancia tonda. «Se dovesse capitare l’occasione, vi venderò al primo bandito, rapitore o mercante di schiavi di passaggio. Non dite che non vi ho avvisati. Non dovrei guidare questo autobus in quel paese se voi non aveste comprato questi biglietti, e perciò passerò sopra tutte le buche e tutti i dossi per rendere il percorso spiacevole per voi quanto lo è per me. E no, non faremo soste pipì, e sì, è perché so benissimo quanto fa male prendere una buca con la vescica piena.»
Sonja si appisolò per un’ora con la testa appoggiata al finestrino. Ogni buca della strada si propagava attraverso il vetro e veniva registrata dalla sua tempia. Una brusca frenata, seguita dalle istruzioni al megafono di una guardia di frontiera russa, la risvegliarono di colpo. I soldati erano imberbi e terrorizzati. Fecero scendere i passeggeri dall’autobus e ordinarono a tutti di aprire i bagagli in un campo a una ventina di metri dalla strada mentre loro, i soldati, aspettavano accoccolati, le braccia allacciate attorno alle ginocchia e gli occhi chiusi come fossero in procinto di tuffarsi in un lago. Il povero autista si dondolava da una parte e dall’altra. Fin da quando era ragazzo, cresciuto sulle sponde del Terek, aveva sognato di possedere una barca per portare in giro i turisti. Sei anni e nove mesi prima, quando mancava solo una settimana alla caduta del muro di Berlino, l’autista aveva investito tutti i suoi risparmi in un barcone turistico, mai costruito, e in un contratto, mai onorato, per il trasporto lungo il Terek di membri del partito. Adesso se ne stava seduto in terra con la schiena appoggiata a uno pneumatico dell’autobus, ma la terra era un oceano gonfio e infido che per molti anni gli avrebbe fatto patire il mal di mare.
Il posto di blocco aveva innervosito Sonja; mentre passavano dall’Ossezia del Nord controllata dai russi alla Cecenia, continuò a guardare fuori del finestrino contro il quale aveva prima sonnecchiato. Sulla strada costellata di crateri l’autista mantenne fede alla propria parola. Superarono campi deserti. Una fattoria in rovina. Un aratro abbandonato alla fine di un solco, quattro mesi dopo la stagione dell’aratura. Un pozzo di petrolio in fiamme. All’orizzonte le montagne erano incappucciate di neve. Ci misero dieci ore a percorrere i duecento chilometri fino a Volčansk. I posti di blocco si susseguivano sull’autostrada, più regolari delle stazioni di servizio chiuse e sbarrate. Ogni volta Sonja trascinava la sua valigia a venti metri dalla strada e la apriva mentre i soldati si tappavano le orecchie per precauzione.
Parlò con l’anziana donna seduta accanto a lei, facendosi rotolare in bocca ogni parola come un nocciolo d’oliva prima di sputarla fuori, e la donna era un’ottima ascoltatrice, silenziosa e attenta mentre Sonja le svelava cos’era stata la sua vita fino a due giorni prima. Le elencò i difetti di Brendan – le pipite mai tagliate, l’abitudine di cantare Rodgers e Hammerstein mentre pisciava, la riluttanza a correggerle gli errori di grammatica – ma persino mentre cercava di convincere la donna che Brendan sarebbe stato un pessimo marito, le mancava il modo in cui le tracciava le sue iniziali alla base del pollice con le pipite indurite, il modo in cui lo scarico del gabinetto accompagnava the hiiiiiiillllllls are aliiiiiiive with the sound of muuuuuuusiiiiic, gli errori di grammatica che commetteva apposta per vedere se lei se ne accorgeva, mentre prendevano a mazzate le regole dell’inglese e le riassemblavano in un linguaggio comprensibile solo a loro. Era meraviglioso potersi sfogare con un orecchio comprensivo. Trascorse un’ora prima che l’anziana donna tirasse fuori un taccuino dalla borsa, ci scarabocchiasse qualcosa sopra e lo mostrasse a Sonja. Credevo se ne fosse accorta, aveva scritto la vecchia. Sono sorda.
I quattro piani della stazione degli autobus di Volčansk erano ridotti a un unico piano di macerie. L’autista tese il cappello per le mance mentre scendevano. «Ci morirete tutti, in questo girone infernale» annunciò allegramente. «Preferite che i vostri rubli vadano a quei senza Dio che vi ammazzeranno, oppure a me: un onesto e pio autista che affronta la morte ogni settimana per mantenere la famiglia?»
Contro ogni buonsenso, Sonja lasciò cadere nel cappello una inflazionatissima banconota da mille rubli, e scese in fretta prima che lui potesse maledirla. All’isolato successivo raggiunse la vecchia signora, che aveva appena fermato una Lada color limone. La vecchia era cresciuta in un agrumeto e per i primi diciassette anni della sua vita non aveva mangiato nulla che non fosse fatto con i limoni. C’era insalata di cetrioli e limone, fagioli conditi con il limone, pollo in fricassea di limone, trota ripiena al limone, kebab d’agnello al limone, riso al limone e aneto, cosce di pollo arrosto al limone, crema al limone, budino al limone, torta di albicocche e limoni, biscotti con marmellata di limone e così via. Mancavano quattro anni e un mese al suo settantaseiesimo compleanno e al miracolo del suo primo lime.
La vecchia le fece cenno di salire anche lei sul taxi e, quando Sonja fece segno di no, tirò fuori il taccuino e appena sotto Sono sorda scrisse: Sta per cominciare il coprifuoco e lei è più giovane e carina di me.
Quello che era stato in passato un furgone per le consegne bloccava la strada a tre isolati dall’appartamento. Sonja scese dal taxi e la Lada color limone schizzò via prima che potesse chiudere la portiera. Il palazzo alla sua sinistra aveva perso la facciata; Sonja osservò le stanze come un topolino che sbircia in una casa di bambole. Tornò a guardare la strada, dove mancavano pezzi d’asfalto a intervalli regolari. Il terreno avrebbe dovuto essere in piano, senza colline né vallate in un raggio di cinquanta chilometri, eppure eccola che si arrampicava sulla parete di un canyon, la terra grassa e umida mentre ridiscendeva su pezzi d’asfalto e argilla, scavalcava blocchi di macerie precipitate da sei piani d’aria e uno di terra, cercava un punto d’appoggio sui condotti delle fogne, maledicendo e prendendo a calci la Samsonite mentre ripensava al libretto di istruzioni in cui il fabbricante ne raccomandava l’uso esclusivamente su superfici lisce, e si trovava sul fondo di un cratere quando di colpo se ne rese conto – Cazzo, sono in fondo a un cratere! – e il colpo la fece piegare in due, subito raddrizzata dalla domanda che arrivò come un gancio al mento – Che cazzo ci faccio in fondo a un cratere? – la cui risposta era impalpabile come la parola affioratale sulle labbra, tre sillabe che svelavano il motivo del suo ritorno – Nataša – sua sorella, altera, bellissima e insondabilmente a proprio agio nelle occasioni sociali, con cui aveva parlato l’ultima volta al telefono il giorno in cui era iniziata la prima guerra, un anno, nove mesi e tre settimane prima, che aveva visto per l’ultima volta il giorno in cui era partita per Londra, quattro anni, otto mesi e una settimana prima, che aveva invidiato per l’ultima volta cinque anni e due mesi prima, il giorno prima di ricevere la notizia della borsa di studio per Londra, e alla quale aveva voluto bene per l’ultima volta in qualche momento indefinito del passato, prima che crescessero diventando le persone che erano destinate a essere. Per sua sorella non si sarebbe neppure alzata dal letto, però era scesa in un cratere. Non avrebbe attraversato una stanza, però aveva attraversato un continente.
Il palazzo in cui abitava era dopo la panetteria dove, da bambina, le davano pasticcini da tè quando spazzava la farina da terra e la riconfezionava in sacchetti di carta marrone. Le finestre del palazzo erano esplose e una fila di buchi di proiettile lasciava filtrare la luce sulla cornice del portone, che però era rimasta in piedi. Il battente, invece, giaceva rovesciato oltre la soglia, come uno zerbino. Si inerpicò fino al terzo piano. Il respiro non riusciva a riempirle i polmoni.
Casa sua era chiusa a chiave. Sonja bussò alla porta e attese, ma non si udirono passi soffocati né assi che scricchiolavano in risposta. Dopo che la quarta serie di colpi sfociò in un quarto silenzio, dalla busta degli oggetti da toeletta tirò fuori la chiave di scorta e aprì la porta. Non chiamò; il pensiero della propria voce inascoltata le sembrò incredibilmente triste. Dall’altra parte della stanza le cornici vuote delle finestre trattenevano riquadri di tramonto. Sul tavolo da pranzo c’era una candela consumata a metà, fissata con la cera sciolta dentro un bicchierino da liquore. Negli ultimi due giorni aveva dormito cinque ore; una stanchezza indolenzita le riverberava dentro e le informicolava la pelle. Accese la candela e il minuscolo chiarore danzò sulle pareti bianco albume. Non rimaneva traccia di ricevute o buste o lettere, niente di così leggero da essere trascinato via dal vento attraverso le cornici vuote delle finestre, niente su cui si potesse scrivere un addio. L’arredamento era come lo ricordava: il divano contro la parete di destra del soggiorno, ancora con la macchia di quando Nataša aveva rovesciato un’intera pentola di boršč; il televisore Ekran in bianco e nero appollaiato su uno sgabello da mungitura; il tavolo da cucina di legno con tre bustine di fiammiferi a tenerlo in piano. Quella era stata casa sua. Quella era stata la sua vita. Quello era stato il suo divano. E adesso ci era tornata, ad affondare la faccia nei cuscini e piangere nel tessuto che dopo tutti quegli anni conservava ancora l’odore di barbabietole.
La mattina dopo fece il giro degli altri appartamenti. Non ricordava i nomi dei vicini e, a giudicare dalla mancanza di risposta ai suoi colpi alla porta, dovevano essersi dileguati dalle loro case come dalla sua memoria. Il quarto giorno un rumore di passi risuonò nel corridoio. Sonja ci trovò una donna curva con addosso un impermeabile verde, anche se fuori splendeva il sole. La donna aveva una dozzina di borse di plastica infilate una dentro l’altra e legate per i manici.
«E lei chi è?» chiese la donna, con sufficiente sospetto da trasformare la domanda in un’accusa. Laina era già dalla parte sbagliata della mezza età quando Sonja aveva accettato la borsa di studio per Londra. Lavorava al reparto cosmetici dei Grandi Magazzini Centrali e aveva una pelle stupenda, una pelle da far invidia a una trentenne, una pelle che giustamente il suo direttore considerava la pubblicità più efficace per il reparto, una pelle levigata da ogni crema idratante e lozione disponibile nell’espositore a vetri del suo bancone, una pelle che Sonja e sua madre e persino sua sorella avevano sempre ammirato, e che ora sembrava quella di una pesca lasciata per troppi giorni al sole.
«Sono Sonja.» Le punte delle dita di Laina la esaminarono, le strinsero i polsi, le toccarono le orecchie. «Vedo» disse Laina, finalmente convinta dalla forma corporea di Sonja. «Abitavi qui.»
«L’ho sentita nel corridoio» disse Sonja dopo qualche minuto, mentre bevevano il tè nell’appartamento di Laina. «Credevo fosse qualcun altro.»
«Non dovresti aprire la porta se senti degli estranei. Non è mai una buona idea.»
«È stato solo per questa volta.»
«Potrebbe essere quell’una su un milione.»
«Allora sono molto, molto fortunata.»
«No, sei molto, molto stupida.»
«Perché ha l’impermeabile? Non c’è una nuvola nel raggio di chilometri.»
Laina si avvicinò alla cornice vuota della finestra, attraverso la quale si vedeva ciò che era rimasto della città, una veduta di sedici isolati più ampia di due anni prima. «Non mi fido di Dio. Chissà cosa sta almanaccando, lassù.» Il bazaar si era gradualmente ripopolato di venditori e di chioschi in lamiera e di vecchie come Laina, cui la guerra non impediva di mercanteggiare con piacere. Aveva appena barattato una latta d’olio da motore con un paio di sandali che recavano l’impronta annerita di quaranta dita diverse. Un tempo aveva avuto un marito, ora defunto, che sapeva non l’avrebbe mai tradita in un bordello. Un tempo aveva avuto un figlio, ora scomparso, che aveva minacciato di far sposare con Sonja se si fosse comportato male. Il cosmonauta Jurij Gagarin sorrideva dal quadrante dell’orologio appeso sopra la stufa e Sonja lo studiò mentre prendeva il fiato necessario per buttare fuori la domanda che da un anno le bloccava la laringe. Quando la lancetta delle ore raggiunse la mano tesa del cosmonauta, inspirò e chiese: «Sa dov’è Nataša?». Laina si morse il labbro e fece no con la testa. «Non so dove sono finiti tutti quanti.»
Nessuno sapeva rispondere alla domanda. I giorni diventarono settimane e Sonja interpellò i pochi inquilini rimasti quando uscivano per andare al lavoro, a cercare cibo, battaglie o rifugi migliori, ma non ricevette mai più di un cenno di diniego, una scrollata di spalle, qualche parola di scusa. Non c’erano segni di irruzione, e il letto rifatto in camera di Nataša suggeriva una partenza volontaria. Nell’ultimo cassetto del comò Sonja trovò il cardigan bordò che aveva regalato a Nataša per il suo diciottesimo compleanno, quello che la sorella odiava e chiamava “il golfino da babuška” e non si era mai messa, neppure una volta, in qualche giornata fredda, anche solo per farla contenta. Proprio quello che Nataša avrebbe lasciato. Sollevò il maglione, premendosi le maniche sopra le spalle come in un abbraccio.
L’Ospedale n. 6 la assunse senza neppure farle compilare un formulario o fornire un curriculum. Quando le mostrò una lista di referenze di Londra, Deši appallottolò il foglio, lo gettò sotto la scrivania e disse a Sonja che il dottor Cartastraccia avrebbe sicuramente contattato ogni suo referente. Gli ex professori di Sonja erano fuggiti in Occidente, in campagna, si erano dati alla professione privata in posti dove potevano salvare vite e non mettere a rischio la propria. Senza l’intralcio della burocrazia gerarchica né di memorie istituzionali, da interna era diventata primario chirurgo nel giro di due mesi. Le mine non obbedivano agli accordi di pace di Chasavjurt, e nel giro di un anno aveva accumulato più esperienza di chirurgia traumatologica dei professori con cui aveva studiato. Lavorava grata per il dolore dei suoi pazienti. Nei loro urli sentiva il proprio nome come se fosse la sorella perduta, richiamata dai loro barbugliamenti in quel posto dove non finiva mai di amputare arti e stagnare emorragie, dove la sua preparazione era così indispensabile e rara che i pazienti la vedevano aleggiare sui loro letti come l’ultima profetessa della vita, destinataria delle loro suppliche, e lodi, e preghiere.
Le giornate erano frenetiche, senza pause per riflettere se non sui casi clinici e le lezioni di anatomia. La sera si trascinava a casa. Quando se ne ricordava, si lavava i denti con il bicarbonato e recitava le preghiere che le aveva insegnato sua madre. La sua lingua inciampava su quelle parole insolite e antiquate e, anche se nessuno l’ascoltava, trovava una forma di pace nell’obsoleto linguaggio di quelle suppliche. Dopo il segno della croce si stendeva sul divano e si concedeva uno schizzo freddo di lozione per le mani dal flacone che si era portata da Londra. Invariabilmente se ne metteva troppa e le mani rimanevano unte e lucide al chiarore della candela, mentre pregava di riceverne un altro paio con cui condividere l’eccesso.
Le settimane diventarono mesi, girati sul calendario della Croce Rossa appeso dietro il banco dell’accettazione in sala d’attesa; il calendario era del 1993 e avrebbero continuato a usarlo fino al 2006, e per quei tredici anni il suo compleanno sarebbe caduto sempre di lunedì. Segnava i giorni, ma il tempo non scorreva; si limitava ad alternarsi fra giorno e notte, ospedale e casa, urli e silenzio, claustrofobia e solitudine, e daccapo, come una moneta che roteava su se stessa. La felicità arrivava in momenti di imprevedibile bellezza. Il cieco che suonava la fisarmonica per lei mentre Sonja steccava la gamba rotta del suo cane guida. Il ragazzo che le raccontava i suoi sogni mentre si riprendeva dalla meningite.
Poi, una sera, sentì bussare alla porta mentre stava per andare a letto. Prese in considerazione e scartò l’avvertimento di Laina mentre la maniglia le scivolava nella mano unta. Quando aprì, avrebbe voluto urlare. Davanti a lei c’era Nataša, così vicina da poterla abbracciare. E in effetti urlò, e abbracciò Nataša, e più tardi, sul divano, prese le mani di Nataša fra le sue e le strofinò finché le sue furono asciutte.