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La mattina dopo che i Federali le avevano incendiato la casa e preso suo padre, Havaa si svegliò da sogni di anemoni di mare. Mentre lei si vestiva, Achmed, che non aveva chiuso occhio, camminava avanti e indietro davanti alla porta della camera, osservando il cielo schiarirsi oltre il vetro della finestra; il sorgere del sole non lo aveva mai fatto sentire in ritardo. Quando la bambina emerse dalla camera, con l’aria più grande dei suoi otto anni, Achmed le prese la valigia e lei lo seguì all’esterno. La condusse fino al centro della strada prima di alzare gli occhi su quello che restava della casa. «Havaa, dobbiamo andare» disse, ma nessuno dei due diede segno di volersi muovere.

La neve si ammorbidì sotto le loro scarpe mentre fissavano la grossa chiazza di cenere appiattita al di là della strada. Rade braci arancioni sibilavano ancora nelle pozze di neve grigia, ma tutto il resto era carbonizzato. Nemmeno sette anni prima, Achmed aveva aiutato Dokka a costruire un’aggiunta, affinché la bambina avesse una stanza tutta per sé. Aveva disegnato il progetto e tagliato la legna e l’aveva trasformata in assi che erano diventate una stanza; e quando Dokka gli aveva promesso di ricambiare aiutandolo a costruire un’aggiunta per casa sua, se mai avesse avuto un figlio, Achmed aveva ringraziato l’amico e se n’era tornato a casa, con un groppo in gola che s’era sciolto in un singhiozzo appena si era chiuso la porta alle spalle. Trasportare la legna per i quaranta metri che li separavano dal bosco gli aveva lasciato le vesciche sulle mani e le ascelle fradice di sudore, ma adesso erano bastate poche ore di fiamme perché tutto quello che gli era costato mesi di progetto, settimane di trasporto, giorni di costruzione, tutto – a eccezione di chiodi e rivetti, cardini e bulloni – si disperdesse nel cielo. E insieme al resto erano spariti anche i piccoli tesori che facevano di quella casa la casa di Dokka. C’erano i pezzi degli scacchi intagliati a mano sul tavolino rotondo; il re bianco che, a muoverlo, tentennava da una parte all’altra come un uomo sobrio quel tanto che bastava per reggersi in piedi, e Dokka lo aveva soprannominato sua maestà Boris Eltsin. C’era il vaso di porcellana con gli arabeschi persiani e, accanto, la grossa radio con l’antenna così lunga che sfiorava il soffitto quando la si appoggiava all’elenco telefonico, eppure ancora troppo corta per riuscire a captare più di un fruscio indistinto. C’era il Corano vecchio di ottantacinque anni, con la copertina viola percorsa dall’intricata calligrafia, che il nonno di Dokka aveva comprato alla Mecca. C’erano tutte quelle cose, e le fiamme se le erano mangiate e, poiché le fiamme non distinguono la parola di Dio da quella dell’Ufficio del Registro delle Comunicazioni Sovietico, sia il Corano sia l’elenco telefonico erano tornati a Lui nella stessa vampata di fumo.

Le dita della bambina gli serravano il polso come un bracciale. Avrebbe voluto caricarsela in spalla e fuggire a nord finché il bosco avesse inghiottito il paese, ma davanti ai resti anneriti non riusciva a raccogliere le forze per richiamare alle labbra una parola di conforto, per stringere la mano della bimba nella sua, né per muovere i piedi nella direzione in cui voleva farli andare.

«Quella è casa mia.» La voce della bambina aveva rotto il silenzio e Achmed la sentì come avrebbe sentito l’unico suono che avesse echeggiato in un corridoio vuoto.

«Non pensarla così» le disse.

«Così come?»

«Come se fosse ancora tua.»

Le avvolse attorno al collo il fazzoletto arancione vivo e aggrottò la fronte per la ditata nera di fuliggine che aveva sulla guancia. Era sveglio nel suo letto la notte precedente, quando erano arrivati i Federali. Prima il ronzio del motore diesel, un rombo basso che era arrivato a temere più degli spari, poi voci che parlavano russo. Era andato in salotto e aveva scostato la tenda da oscuramento fino a dove osava. Oltre il triangolo di vetro, dei fari perforavano la notte. Quattro soldati, robusti e ben nutriti, erano emersi dal camion. Uno beveva a garganella da una bottiglia di vodka e sacramentava contro la neve ogni volta che inciampava. A quel soldato suo nonno aveva detto, la mattina che si era presentato al centro di arruolamento di Vladivostok, che lui a Stalingrado sarebbe morto, non fosse stato per la vodka che l’aveva reso insensibile; il soldato, con le guance dissodate da anni di dentifricio spalmato sull’acne giovanile, era convinto che la guerra in Cecenia fosse molto peggio di Stalingrado, e dosava la vodka di conseguenza. Dal suo salotto Achmed avrebbe voluto urlare, suonare il tamburo, far esplodere un bengala. Ma dall’altra parte della strada avevano già raggiunto la porta di Dokka e lui non aveva degnato neppure di un’occhiata il telefono che ormai da dieci anni non dava più segno di vita. Avevano bussato alla porta una volta, due volte, poi l’avevano aperta a calci. Achmed aveva poi visto la luce della torcia elettrica che si muoveva sulle pareti, oltre la soglia. Così erano trascorsi i due minuti più lunghi della sua vita, finché i soldati erano ricomparsi sulla porta con Dokka. La striscia di nastro adesivo che aveva sulla bocca si raggrinziva per i suoi urli soffocati. Gli avevano infilato un cappuccio nero sulla testa. Dov’era Havaa? Il sudore aveva imperlato la fronte di Achmed. Si sentiva le mani impossibilmente pesanti. Quando i soldati avevano agguantato Dokka per le spalle e la cintura, scaraventandolo nel retro del camion e sbattendo il portellone, il sollievo disceso su Achmed si era subito tramutato in disprezzo di sé, perché lui era vivo, sano e salvo nel suo salotto, mentre nel camion dall’altra parte della strada, a nemmeno venti metri di distanza, Dokka era un uomo morto. L’indicazione 02 era stampigliata in vernice bianca sul paraurti del furgone: voleva dire che apparteneva al ministero degli Interni, voleva dire che non sarebbe rimasta traccia di quell’arresto, voleva dire che ufficialmente Dokka non era mai stato arrestato, voleva dire che non sarebbe mai più tornato. «Dov’è la bambina?» si erano chiesti fra loro i soldati. «Qui non c’è.» «E se si è nascosta sotto le assi del pavimento?» «Non c’è.» «Pensaci tu, per sicurezza.» Il soldato ubriaco aveva aperto una tanica di benzina ed era entrato barcollando in casa di Dokka; quando era riapparso sulla soglia, si era gettato dietro le spalle un fiammifero acceso e aveva chiuso la porta. Le fiamme avevano cominciato ad avvinghiarsi alle tende delle finestre. I pannelli di vetro si erano sciolti sui davanzali. Dov’era Havaa? Quando il camion era finalmente ripartito, il fuoco si era propagato alle pareti e al tetto. Achmed aveva aspettato che i fanalini posteriori rimpicciolissero alle dimensioni di due ciliegie prima di attraversare la strada. Dopo aver fatto un largo giro attorno alle fiamme era entrato nel bosco dietro la casa. Le sue scarpe scricchiolavano sul sottobosco gelato e alla luce del fuoco avrebbe potuto contare gli anelli di crescita dei ceppi d’albero tagliati. Dietro la casa, nascosta tra gli alberi, aveva visto balenare la faccia della bambina. Sotto gli occhi aveva le guance segnate da strisce di pelle più chiara, ripulita dalla cenere. «Havaa» l’aveva chiamata. Era seduta su una valigia e non gli aveva risposto. L’aveva presa fra le braccia come una fascina di rami, l’aveva portata a casa sua e con un asciugamano bagnato le aveva tolto la cenere dalla fronte. L’aveva infilata a letto accanto alla moglie invalida e poi non aveva più saputo che altro fare. Avrebbe potuto tornare fuori e gettare manciate di neve contro la casa in fiamme, oppure stendersi anche lui sul letto per far sentire alla bambina il calore di due corpi adulti, oppure compiere le abluzioni e prostrarsi in preghiera, ma aveva già completato la isha’a ore prima e, se le cinque preghiere quotidiane non avevano salvato la casa di Dokka, una sesta preghiera non avrebbe certo spento le fiamme. Allora era andato alla finestra del salotto, aveva scostato la tenda da oscuramento e aveva guardato sparire nella luce la casa che aveva aiutato a costruire. E adesso, la mattina, annodandole al collo il fazzoletto arancione, aveva trovato una ditata di fuliggine sulla guancia della bambina e, visto che poteva essere di Dokka, l’aveva lasciata lì.

«Dove andiamo?» chiese lei. Era ritta in piedi sui solchi congelati che avevano lasciato le gomme del furgone la notte prima. Ai due lati si estendeva la neve. Achmed non era pronto a tutto questo. Non riusciva a capire perché i Federali potessero volere Dokka, figuriamoci la bambina. Gli arrivava a stento all’altezza dello stomaco e non pesava più di un cesto di legna da ardere, ma ad Achmed sembrava una creatura immensa e soverchiante, che lui era destinato a deludere.

«Andiamo all’ospedale in città» disse con quello che si augurava fosse un tono deciso.

«Perché?»

«Perché l’ospedale è un posto sicuro. È dove vanno le persone che hanno bisogno d’aiuto. E conosco una donna lì, un altro dottore» disse, anche se la conosceva solo di nome. «Lei ci aiuterà.»

«Come?»

«Le chiederò se puoi restare con lei.» Che stava dicendo? Come la maggior parte dei suoi piani, gli sembrava solidissimo nella sua mente, ma cadeva come un uccello incapace di volare appena liberato nell’aria. La bambina aggrottò la fronte.

«Lui non tornerà, vero?» gli chiese. Si mise a fissare la valigia di pelle azzurra posata in terra fra loro. Otto mesi prima suo padre le aveva detto di preparare la valigia e lasciarla nello sgabuzzino, dov’era rimasta fino alla notte precedente, quando gliel’aveva messa in mano e l’aveva spinta fuori dalla porta posteriore mentre i Federali facevano irruzione da quella principale.

«Non credo.»

«Però non lo sai?» Non era un’accusa, ma lui la prese in quel modo. Era un medico così incompetente che la bambina esitava ad affidargli la vita di suo padre persino per azzardare un’ipotesi? «Sarebbe più sicuro» rispose. «Sarebbe più sicuro supporre che non tornerà.»

«E se tornasse?»

Il desiderio aggrappato a quella domanda così semplice era più di quanto lui potesse contemplare. E se si fosse messa a piangere? Di colpo gli sembrò un’eventualità agghiacciante. Come farla smettere? Doveva tenerla tranquilla, mantenersi tranquillo; il panico, lo sapeva, poteva diffondersi fra due persone più in fretta di un virus. Indugiò con il nodo al fazzoletto. Chissà come aveva fatto a superare l’incendio rimanendo di quell’arancio vivo come il giorno in cui l’avevano tinto. «Mettiamola così: se tornasse gli dirò io dove sei. Ti sembra una buona idea?»

«Lo è mio padre, una buona idea.»

«Sì, è vero» disse Achmed sollevato di avere qualcosa su cui potevano concordare.

Si avviarono faticosamente lungo la strada forestale di Eldár, la via principale del paese; le loro impronte cominciavano dove finivano le tracce degli pneumatici. Le case sui due lati le vedeva per cognome, non per indirizzo. Ai vetri di una finestra non sbarrata con le assi comparve una faccia, e svanì subito.

«Stringiti bene il fazzoletto in testa» le disse. A parte il suo unico anno alla facoltà di medicina, aveva trascorso tutta la vita a Eldár e non si fidava più del sistema tradizionale dei tejp, i clan familiari sopravvissuti a un secolo di governo zarista, e poi a un altro secolo di governo sovietico, solo per dissolversi in una guerra per l’indipendenza nazionale. Ripresa nel 1999, dopo una tregua troppo sregolata per potersi definire pace, la guerra aveva ridotto i tejp del paese a unità minime di lealtà, tanto che persino il legame fra genitori e figli era diventato così fragile da spezzarsi. La raccolta e lavorazione del legname, unica attività manifatturiera costante del minuscolo paese, era cessata appena erano cadute le prime bombe e, in mancanza di altre prospettive, chi non era potuto emigrare trafficava armi per i ribelli o faceva l’informatore per i Federali, per sopravvivere.

Mentre camminavano, cinse con un braccio le spalle di Havaa. La bambina era sempre stata forte e stoica, ma quella rassegnazione, quella passività, erano un’altra cosa. Camminava trascinando i piedi, alzando spruzzi di neve a ogni passo, e nel tentativo di sollevarle il morale Achmed le raccontò una barzelletta su un imam cieco e una prostituta sorda, una barzelletta in effetti poco adatta a una bambina di otto anni, ma era l’unica che Achmed ricordasse. Lei non sorrise, però lo ascoltava. Havaa si chiuse fino al mento la lampo del piumino che portava sopra la felpa che a Manchester, in Inghilterra, aveva scaldato le spalle di cinque fratelli finché il sesto, un sincero filantropo di sei anni, l’aveva regalata alla raccolta di indumenti della Croce Rossa in modo che sua madre gliene comprasse finalmente una nuova.

In fondo al paese, dove il bosco si stringeva sulla strada, superarono un ritratto alto un metro e inchiodato su un tronco d’albero. Due anni prima, quando quarantuno paesani erano scomparsi in un giorno solo, Achmed aveva dipinto quarantuno ritratti su quarantuno assi di compensato, e li aveva appesi in giro per il paese. Questo raffigurava una donna bella e vanesia, che Achmed aveva aiutato a partorire la secondogenita. Nonostante l’avesse poi braccata per anni, non gli aveva mai pagato la parcella per il parto. Quando l’avevano portata via, aveva deciso di aggiungere, sul suo ritratto, un pelo riccio e solitario che le sbucava dalla narice sinistra. Sorrise al fantasma della donna vanesia, e fece la pace con lei. Sembrava una gigantessa decapitata che lo fissava dal tronco. Ben presto non rimasero che due occhi, un naso e una bocca che svanivano tra gli alberi.

Il bosco s’innalzò attorno a loro, altissime betulle scheletriche, volute grigie di corteccia che si sfogliavano dai tronchi. Camminavano lungo il ciglio della strada, dove la sterpaglia gelata del sottobosco invadeva la ghiaia. Lì, oltre i segni lasciati dai cingoli dei carri armati, c’erano minori probabilità di finire sopra una mina. Comunque controllava che non ci fossero rialzi nel terreno coperto di brina. Precedeva la bambina di qualche metro, per sicurezza. Gli venne in mente un’altra barzelletta, che parlava di un commissario innamorato, ma decise di non raccontarla. Quando la bambina cominciò a rimanere indietro, si inoltrarono nel bosco per cinque minuti, fino a un tronco caduto invisibile dalla strada. Una volta che si furono messi a sedere, lei chiese la sua valigia azzurra. Gliela diede e lei l’aprì, per fare un silenzioso inventario del contenuto.

«Cosa c’è lì dentro?» le chiese.

«I miei souvenir» rispose la bambina, ma Achmed non capì cosa intendesse. Svolse il fazzoletto bianco in cui teneva un tozzo di pane nero e duro, lo spezzò in due pezzi disuguali e diede a lei quello più grosso. La bambina lo mangiò in fretta. La fame era una sensazione che Achmed avvertiva nello stomaco da così tanto tempo da percepirla come un organo infiammato. Mangiò con calma. Con la lingua formava pallottoline ovali di mollica che faceva riposare contro la guancia come una caramella. Visto che quel pane non poteva riempirgli lo stomaco, che gli riempisse almeno la bocca. La bambina aveva già finito metà del suo prima che Achmed addentasse il secondo morso.

«Mangia piano» le disse. «Nello stomaco non ci sono le papille gustative.»

Lei si interruppe per riflettere su quel ragionamento, poi addentò un altro boccone. «Sulla lingua non c’è la fame» borbottò mentre masticava. Con la mano a coppa raccolse le briciole che sfuggivano e se le rovesciò di nuovo in bocca.

«Una volta lo odiavo, il pane nero» disse lui. Da piccolo mangiava il pane nero solo se ricoperto con una cucchiaiata di miele. Nel giro di un anno sua madre l’aveva svezzato da quell’abitudine tagliandogli fette di pane sempre più grosse, finché la sua colazione era diventata una misera e triste oasi di miele in mezzo a un deserto di pane nero.

«Allora dallo a me.»

«Ho detto una volta» rispose lui. E cercò di immaginare un vasetto pieno di miele fino all’orlo appoggiato a una credenza, senza neppure un tagliere per il pane in vista.

Lei si lasciò cadere in ginocchio e si mise a esaminare la parte inferiore del tronco. «Ula starà bene da sola?» gli chiese.

Sua moglie non stava bene da sola, né con lui, né con nessun altro. Riteneva che soffrisse, in termini tecnici, di lupus congiunto a demenza precoce, ma in pratica aveva i nervi così aggrovigliati che quando parlava le facevano male i gomiti, e aveva più buon senso nel piede sinistro che nel cervello. Prima di andarsene, quella mattina, aveva detto a Ula che sarebbe rimasto fuori per tutto il giorno. Mentre la moglie posava su di lui uno dei suoi sguardi vuoti, si era sentito come una delle sue tante visioni e allora le aveva preso la mano e, a memoria, le aveva descritto il placido pascolo di un dipinto a olio di Zacharov, l’orto e la casetta, finché si era addormentata. Risvegliandosi più tardi quella mattina, l’avrebbe visto ancora lì seduto sul letto accanto a lei? Forse una parte di lui c’era ancora, seduto sul letto; forse lui non era che un frutto del suo sogno.

«È un’adulta» rispose infine senza pensarci troppo. «Non c’è bisogno che ti preoccupi degli adulti.»

Dietro il tronco, Havaa non rispose.

Aveva sempre cercato di trattare Havaa come una bambina e lei l’aveva sempre assecondato, anche se infanzia e innocenza erano creature fantastiche perite tanto tempo prima e che tornavano in vita solo per giocare a facciamo-finta-che... Le sole volte che Havaa aveva messo piede a scuola era stato per rubare banchi a misura di bambino e farne legna da ardere, e a volte immaginava che condividessero la medesima saggezza, separati solo dagli anni e dall’esperienza. Non era vero, ovvio, però lui aveva bisogno di credere che lei fosse molto più grande della sua età, che potesse affrontare ciò che nessuna bambina di otto anni è in grado di affrontare. Lei si arrampicò oltre il tronco senza guardarlo.

«E quello cos’è?» chiese Achmed. Havaa sollevò con attenzione un oggetto giallastro che teneva sul palmo.

«Un insetto congelato» rispose, e se lo infilò nella tasca del giaccone.

«Nel caso ti venisse fame più tardi?» chiese lui.

Lei sorrise, per la prima volta nella giornata.

Ripresero ad arrancare lungo il ciglio della strada e il passo ora più veloce della bambina compensò il tempo della sosta. Inspirando a fondo, Achmed cercò di distinguere nell’aria tracce di scappamento di motore o di gomma bruciata. La luce del giorno offriva un certo grado di sicurezza. Non li avrebbero scambiati per cani inselvatichiti.

Udirono i soldati prima di vedere il posto di blocco. Achmed alzò una mano. Il vento gli riempì gli spazi fra le dita. Un tempo utilizzata per trasportare il legname, la strada forestale di Eldár collegava il paese alla città di Volčansk. I varchi tra i tronchi d’albero offrivano le sole vie d’uscita tra paese e città, e negli ultimi mesi i Federali avevano ridotto la loro presenza a quell’unico posto di blocco. Si trovava a mezzo chilometro più avanti, dietro una curva secca.

«Torniamo nel bosco.»

«Per mangiare di nuovo?»

«Solo per camminare. Dobbiamo muoverci in silenzio.»

La bambina annuì e si mise l’indice sulle labbra. L’intero bosco si era congelato ed era crollato a terra. Rami contorti sbucavano dalla neve e graffiavano le gambe da ogni angolazione mentre tracciavano un ampio arco attorno al posto di blocco. Visibile tra gli alberi, il posto di blocco non era niente più di un telone militare floscio inchiodato al tronco di un pioppo, nel tentativo fallito di conferirgli un’aura di legittimità. Attorno c’era una manciata di soldati. Attraversare in silenzio il tappeto di foglie secche e gelate era impossibile, ma i soldati, otto uomini che avevano in comune fra loro più malattie veneree che parole in ceceno, non sembravano più svegli di un cervo rintronato, e così loro due poterono rientrare sulla strada duecentocinquanta metri dopo il posto di blocco. Il sole brillava giallo come un tuorlo tra le nuvole bianche. Quasi mezzogiorno. Ogni albero che superavano era uguale al precedente, mentre si inoltravano nel bosco. Nessuno aveva qualcosa di particolare rispetto all’altro, eppure ciascuno aveva una sua individualità: il numero dei rami, la circonferenza del tronco, il cerchio di foglie cadute attorno alla base. Dettagli secondari, certo, ma erano i dettagli secondari a trasformare due occhi, un naso e una bocca in una faccia.

Gli alberi si aprirono in un grande campo, che la strada tagliava a metà.

«Acceleriamo il passo» disse lui, e i passi della bambina si affrettarono alle sue spalle. Arrivati quasi a metà del campo, si imbatterono nel quarto posteriore di un lupo, squarciato. Poco più avanti, il sangue tingeva la neve di un rosso brunastro. Niente si decomponeva, con quel freddo. La testa e le zampe anteriori erano allargate sul terreno, collegate al posteriore del lupo da tre metri di viscere maciullate. Ciò che restava del muso era congelato nell’espressione con cui era morto. La lingua si srotolava dalla mascella.

«Era un animale sbadato» disse Achmed. Cercò di distogliere lo sguardo, ma c’era lupo ovunque. «Non stava attento alle mine.»

«Noi stiamo più attenti.»

«Certo. Noi resteremo sulla strada. Non cammineremo nei campi.»

Havaa gli stava accanto, la spalla premuta contro il suo fianco. Non si era mai spinta così lontano da casa.

«Non è stato sempre così» disse lui. «Prima che tu nascessi c’erano lupi, uccelli, insetti, capre, orsi, pecore, cervi.»

La spessa coltre di neve si stendeva per un centinaio di metri fino al bosco. Pochi arbusti rinsecchiti sbucavano dalla superficie ghiacciata e brunastra, dove il lupo sarebbe rimasto fino a primavera. Plasmavano l’aria con i loro respiri pesanti. Nessun profeta aveva presagito quella fine. E neppure squilli di trombe e frulli d’ali di serafini avevano preannunciato proprio quel campo, proprio con quella bambina, aggrappata proprio alla sua mano.

«Sono stati qui» disse lui guardando il campo.

«Dove li hanno portati i Federali?»

«Meglio che continuiamo a muoverci.»

Falene bianche giravano attorno a una lampadina bruciata.

La pressione decisa di una mano sulla spalla la strappò dal suo sogno. Sonja era distesa su un letto d’ospedale nel reparto di traumatologia, ancora con il camice addosso. Prima di guardare la mano che l’aveva svegliata, prima di sollevarsi dall’impronta che il suo corpo aveva impresso sulla gommapiuma cedevole del materasso, più per istinto che per volontà si frugò in tasca alla ricerca del flaconcino color ambra, come se anche le pillole che c’erano dentro l’avessero seguita nei suoi sogni e dovesse svegliare anche loro. Le amfetamine ciottolarono in risposta. Si drizzò a sedere, sveglia, sbattendo le palpebre per far sparire le ali delle falene.

«C’è gente che vuole vederti» annunciò l’infermiera Deši alle sue spalle, e cominciò a strappare via le lenzuola prima che Sonja fosse in piedi.

«Vedermi per cosa?» chiese. Si piegò fino a toccarsi i piedi, sollevata di trovarli ancora al loro posto.

«Adesso mi ha preso per una segretaria» borbottò la vecchia infermiera scuotendo la testa. «Fra un po’ comincerà anche a pizzicarmi il culo come quell’oncologo che ne ha fatte scappare quattro in un anno. Specializzazione infame. Mai conosciuto un oncologo che non fosse un edonista.»

«Deši, chi è che vuole vedermi?»

La vecchia infermiera alzò gli occhi, sconcertata. «Un tizio di Eldár.»

«Per Nataša?»

Deši serrò le labbra. Avrebbe potuto dire «No» o «Non stavolta» o «È l’ora di piantarla», invece scosse la testa.

L’uomo era appoggiato al muro del corridoio. Aveva un pes blu scuro con nappe di perline appollaiato sul cocuzzolo, troppo piccolo per la sua testa. La giacca gli pendeva dalle spalle come se fosse ancora su una gruccia. Accanto a lui c’era una bambina che rovistava dentro una valigia azzurra.

«Sonja Andreevna Rabina?» chiese l’uomo. Lei esitò. Non aveva sentito né pronunciato il suo nome completo a voce alta in otto anni.

«Mi chiamo Achmed.» Una corta barba nera gli copriva le guance. Il sapone da barba era un lusso che molti non potevano permettersi; impossibile dire se fosse un insorto wahabita o semplicemente povero.

«È uno dei barbuti?» gli chiese.

Lui si sfiorò le guance, imbarazzato. «No, no. Assolutamente no. È solo che ultimamente non mi sono fatto la barba.»

«Cosa vuole?»

Achmed indicò la bambina con un cenno del capo. Aveva un fazzoletto arancione in testa, indossava un giaccone rosa troppo grande e una felpa del Manchester United, di sicuro proveniente – immaginò Sonja – dall’improvvisa inondazione di indumenti marcati Manchester che avevano saturato le donazioni di vestiario da quando Beckham era passato al Real Madrid. Il colorito chiaro e cereo era quello di una pera acerba. Quando Sonja si avvicinò, la bambina aveva sollevato il coperchio della valigia, ci aveva infilato la mano e aveva afferrato qualcosa che Sonja non poteva vedere.

«Ha bisogno di un posto dove stare» disse Achmed.

«E io ho bisogno di un biglietto aereo per il Mar Nero.»

«Non sa dove andare.»

«E io non prendo il sole da anni.»

«La prego» disse lui.

«Questo è un ospedale, non un orfanotrofio.»

«Non ce ne sono, di orfanotrofi.»

D’istinto Sonja si girò verso la finestra, ma non si vedeva niente attraverso i vetri coperti di nastro adesivo. L’unica luce era quella proveniente dalle lampade al neon sopra di loro, con quella sfumatura azzurrognola che faceva apparire tutti ipotermici. Era una falena, quella che girava attorno alla lampada? No, ecco che si sognava di nuovo le cose.

«Suo padre, l’hanno portato via le forze di sicurezza ieri notte. Alla Discarica, probabilmente.»

«Mi dispiace.»

«Era un brav’uomo. Prima della guerra faceva l’arboricoltore a Eldár. Era rimasto senza dita. Era bravo a scacchi.»

«È bravo a scacchi» sbottò la bambina con un’occhiataccia ad Achmed. La grammatica era l’unico posto in cui potesse tenere in vita suo padre e, dopo aver corretto la frase di Achmed, si addossò di nuovo alla parete ripetendo in ansiti brevi e sicuri «è è è». Suo padre era i suoi giorni e le sue notti, era tutto per lei, riempiva il mondo di Havaa a un punto tale che non poteva descriverlo più di quanto potesse descrivere l’aria che respirava.

Achmed aveva rievocato l’arboricoltore con brevi memorie esemplificative e Sonja l’aveva lasciato fare più di quanto tollerasse di solito, perché lei stessa aveva cercato di far risorgere qualcuno con la recitazione, di ricreare qualcosa tracciandone la forma con le sue ceneri, e aveva sperato che compilando liste su liste delle canzoni e dei cibi preferiti di Nataša, e delle sue abitudini più irritanti, sua sorella potesse infine materializzarsi sotto la spinta dei dettagli.

«Mi dispiace» ripeté.

«I Federali non cercavano solo Dokka» disse l’uomo sottovoce, con uno sguardo alla bambina.

«Che potrebbero volere da lei?»

«Cosa vogliono da tutti gli altri?» Quella presunzione insistente le era familiare: l’aveva vista in tanti mariti, e fratelli, e padri, e figli, ed era contenta di vederla adesso sulla faccia di un estraneo e di non lasciarsi commuovere. «Per favore, la lasci restare» disse lui.

«Non può.» Era la decisione giusta, sensata. Occuparsi dei morenti era già anche troppo. Non ci si poteva aspettare da lei che si occupasse pure dei vivi.

L’uomo abbassò lo sguardo a terra con un’espressione corrucciata che, inspiegabilmente, le richiamò alla memoria b) sostituzione elettrofila aromatica, la risposta all’unico quesito che aveva sbagliato all’esame di chimica organica dell’università. «Quanti dottori ci sono qui?» chiese lui, apparentemente cambiando tattica.

«Uno.»

«Per mandare avanti un intero ospedale?»

Sonja si strinse nelle spalle. Che si aspettava? Quelli più qualificati, con qualche risparmio da parte e abbastanza buon senso da fuggire, l’avevano fatto. «È Deši a mandarlo avanti. Io ci lavoro e basta.»

«Io ero un medico generico. Non un chirurgo né uno specialista, ma ero abilitato.» Si portò una mano alla barba. Ne cadde una briciola. «La bambina resterà con lei e io lavorerò qui finché verrà fuori un posto in cui possa vivere.»

«Nessuno la vorrà.»

«Allora continuerò a lavorare qui. Mi sono laureato in medicina nel primo dieci per cento del mio anno.»

L’abitudine che aveva quell’uomo di trasformare le suppliche in ordini cominciava già a infastidirla. Era tornata dall’Inghilterra con il suo nome completo otto anni prima e riceveva ancora tutto il rispetto che tanto l’aveva sorpresa quando aveva messo piede a Londra per la prima volta per studiare medicina. Non importava che fosse una donna e per di più di etnia russa; come unico chirurgo di Volčansk era riverita, onorata e tenuta in considerazione in guerra come mai lo sarebbe stata in pace. E questo dottore di campagna, quest’uomo così magro che premendogli sullo stomaco avrebbe potuto toccargli la spina dorsale, si aspettava che fosse arrendevole con lui? Ancora più del tono, le aveva dato fastidio l’accuratezza della sua valutazione. Ultima rimasta di un organico di cinquecento persone, il carico di lavoro la schiacciava. Sopravviveva ad amfetamine e latte condensato zuccherato, soffriva di allucinazioni continue, aveva difficoltà a simpatizzare con i suoi pazienti e aveva visto abbastanza casi di disordine post-traumatico secondario da potersi annoverare fra loro. In fondo al corridoio, oltre la porta socchiusa della sala d’aspetto, vide l’orlo di un vestito nero, il grigio di scarpe da tennis un tempo bianche, e un hijab verde che, anziché coprire i lunghi capelli neri, sosteneva il braccio fratturato di una giovane donna fatta di ossa di uccellino e carenza di calcio, convinta che quello fosse il suo ventiduesimo osso rotto anche se in effetti era solo il ventunesimo.

«Il primo dieci per cento?» chiese Sonja con evidente scetticismo.

Achmed annuì convinto. «Novantaseiesimo percentile, per essere precisi.»

«Allora mi dica, cosa farebbe davanti a un paziente che non risponde agli stimoli?»

«Be’, ecco, vediamo» balbettò Achmed. «Prima di tutto gli farei riempire un questionario per ottenere informazioni sulla sua storia clinica e su ogni malattia o disturbo che si registri in famiglia.»

«Farebbe riempire un questionario a un paziente privo di sensi?»

«Ma no, non dica sciocchezze» ribatté lui, esitante. «Farei riempire il questionario a sua moglie, piuttosto.»

Sonja chiuse gli occhi, sperando che riaprendoli quel dottore idiota e la sua pupilla fossero spariti. Non ebbe fortuna. «Vuole sapere cosa farei io?» gli chiese. «Controllerei le vie respiratorie, poi controllerei se respira, poi se c’è polso, poi stabilizzerei la colonna vertebrale. Nove volte su dieci dovrei preoccuparmi di un’emostasi. Taglierei gli abiti del paziente per poterne ispezionare il corpo alla ricerca di ferite.»

«Be’, certo» disse Achmed. «Tutto questo lo farei mentre la moglie del paziente riempie il questionario.»

«Proviamo con qualcosa più alla sua portata. Questo cos’è?» chiese mostrandogli il pollice.

«Direi che è un pollice.»

«No» rispose lei. «È il primo dito, composto da metacarpale, falange prossimale e falange distale.»

«Lo si può descrivere anche così.»

«E questo?» chiese indicandosi l’occhio sinistro. «Cosa può dirmi di questo, a parte il fatto che è il mio occhio, che è castano e che serve per vedere?»

Lui aggrottò la fronte, incerto su cosa aggiungere. «Pupille dilatate» disse alla fine.

«E ai primi del suo corso si sono presi la briga di insegnare di cosa sono sintomo le pupille dilatate?»

«Traumi alla testa, uso di droghe o eccitazione sessuale.»

«O più probabilmente, del fatto che il corridoio è male illuminato.» Si batté sulla minuscola cicatrice che aveva sulla tempia. Nessuno ne conosceva la causa. «E questa?»

Lui sorrise. «Non ho la più pallida idea di cosa succeda là dentro.»

Lei si morse il labbro e annuì. «D’accordo» disse. «Comunque ci serve qualcuno per lavare le lenzuola. La bambina può restare se lei lavora.» La bambina era dietro Achmed. Sul palmo della sua mano un insetto giallastro giaceva in una minuscola pozza di ghiaccio che si stava sciogliendo. Sonja rimpianse subito la sua decisione. «Come ti chiami?» chiese in ceceno.

«Havaa» rispose Achmed. Spinse dolcemente la bambina verso di lei. La bambina rimase appoggiata alla sua mano, timorosa di spingersi oltre.

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Un anno prima, quando Nataša era scomparsa per la seconda e ultima volta, le permanenze di una notte o due di Sonja in reparto si erano allungate a settimane intere. Dopo aver trascorso cinque settimane senza aver mai infilato la chiave nella doppia serratura, aveva rinunciato una volta per tutte all’idea di tornare a casa. I dodici isolati che la separavano dalla sua abitazione avrebbero anche potuto essere il Sahara. Ad aspettarla, nell’appartamento, c’era un silenzio più terribile di qualunque cosa avesse mai sentito in sala operatoria. Tanti anni prima si era messa in posa con una mano appoggiata a un lontano Big Ben, così che nella foto scattata dal suo fidanzato sembrava fosse lei a sostenere la torre. Gliel’aveva scattata l’ottavo giorno dei diciassette che era durato il loro fidanzamento. Quella foto era appiccicata sopra la scrivania in camera, ma neppure il suo recupero valeva la fatica di un ritorno a casa. Vivere in traumatologia non faceva poi una gran differenza. Già prima trascorreva in quel reparto diciassette delle sue diciotto ore di veglia. Conosceva i corpi che tagliava, aggiustava e richiudeva più intimamente dei loro coniugi e genitori, e quell’intimità era vicina alla creazione quanto l’emissione della prima parola di Dio.

Così, quando aveva offerto alla bambina di restare con lei, intendeva lì all’ospedale; ma la bambina sembrava saperlo già mentre seguiva Sonja nella sua stanza.

«Qui è dove dormiremo, va bene?» le disse posando la sua valigia vicino alla pila di materassi. La bambina teneva ancora in mano l’insetto. «Cos’hai in mano?» le chiese con circospezione.

«Un insetto morto» disse la bambina.

Sonja sospirò, contenta se non altro di non esserselo immaginato. «Perché?»

«Perché l’ho trovato nel bosco e l’ho portato con me.»

«Di nuovo, perché?»

«Perché va sepolto rivolto verso La Mecca.»

Chiuse gli occhi. Adesso ci mancava anche quello. Persino da bambina aveva sempre odiato i bambini, e li odiava ancora. «Torno più tardi» disse e uscì in corridoio.

Se non altro, Achmed si era spogliato in fretta. Nel tempo che ci aveva impiegato ad accompagnare in camera la bambina, si era infilato una tenuta ospedaliera bianca. Lo trovò che si pavoneggiava davanti allo specchio del corridoio.

«Questo è un ospedale, non una sala da ballo» gli disse.

«Non avevo mai portato il camice.» Le voltò le spalle, ma lo specchio rimandò il suo rossore.

«Come ha fatto a superare l’internato senza metterlo?»

Lui chiuse gli occhi e il rossore si fece più intenso. «I miei professori non avevano molta fiducia in me. Non ho mai fatto, in effetti, quello che si definisce un internato.»

«Non è esattamente quello che volevo sentire dopo aver appena deciso di tenerla qui.»

«Mi sento privilegiato a lavorare qui.» Le maniche corte gli scoprivano i bicipiti pallidi. «Ho sempre creduto che fossero più larghe.»

«È una casacca da donna.»

«Da uomo non ne avete?»

«Qui non ci lavora nessun uomo.»

«Quindi ho addosso dei vestiti da donna.»

«Dovrà mettersi anche un hijab.» Lo vide impallidire. «Scherzavo» aggiunse. «Basterà un fazzoletto in testa.»

Lui annuì, poco convinto. Era evidente che aveva appena assunto un buffone, ma un buffone che poteva lavare le lenzuola, rifare i letti e prendersi carico dei parenti era meglio di nessun buffone. «Era mai stato qui?» gli chiese, non avendo nessuna voglia di guidarlo in un giro completo dell’ospedale.

«Sì.»

«Quando?»

«Ci sono nato.»

Lo condusse in giro per i reparti fantasma: cardiologia, medicina interna, endocrinologia. Uno strato di polvere e cenere teneva traccia del loro passaggio. «Dov’è finito tutto quanto?» chiese lui. Le stanze erano vuote. Materassi, lenzuola, siringhe, vestagliette usa e getta, rotoli di cerotto, garze, termometri, sacche da flebo erano stati trasportati al piano inferiore. Restava quello che era fissato al pavimento o alle pareti, oltre agli oggetti che non avevano impiego pratico: ritratti di famiglia, riconoscimenti professionali e diplomi incorniciati di facoltà di medicina in Siberia, Mosca e Kiev.

«Abbiamo spostato tutto in traumatologia e maternità» rispose lei. «Sono gli unici reparti che possiamo mantenere in funzione.»

«Traumatologia e maternità.»

«Buffo, vero? O scopano o muoiono.»

«No, non è divertente.» Si accarezzò la barba, infilandoci le dita fino alla prima falange. Le sue dita trovavano la via della barba nei momenti di difficoltà o indecisione, frugavano fra i folti peli scuri ma raramente sfioravano la saggezza. «Arrivano e se ne vanno e tutto succede qui.»

Salirono una rampa di scale immersa in una luce d’emergenza bluastra. Al quarto piano lo condusse lungo il corridoio fino all’ala ovest dell’edificio. Senza preavviso spalancò la porta del magazzino. Un lampo allegro e maligno la percorse quando lui fece un passo indietro, per paura di cadere. «Cos’è successo?» Il pavimento si interrompeva un metro oltre la soglia. Niente pareti né finestre, solo il panorama della città disteso come un affresco nell’aria invernale.

«Qualche anno fa abbiamo dato ospitalità ai ribelli. I Federali per rappresaglia ci hanno portato via il muro con un’esplosione.»

«Ci sono state vittime?»

«Maali. La sorella di Deši.»

«Solo una persona?»

«I vantaggi della carenza di personale.»

Nelle giornate in cui entrambe le parti rispettavano il cessate il fuoco, Sonja saliva spesso fino a quella porta e guardava il panorama della città cercando di identificare gli edifici dalle loro rovine. Quello che scintillava di diecimila frammenti di sole era stato un palazzo di uffici tutto a vetrate in cui avevano lavorato novecentodiciotto anime. Sotto quel minareto un grasso imam aveva guidato la preghiera dei devoti. Quella era una scuola, una biblioteca, il palazzo dei Giovani Pionieri, una prigione, un negozio di alimentari. Laggiù era dove sua madre le aveva detto di non fidarsi mai di un uomo che afferma di volere una moglie intelligente; dove suo padre le aveva insegnato ad andare in bicicletta imitando il rombo di un autobus cittadino che arrivava a tutta velocità e che l’avrebbe travolta se non pedalava forte abbastanza; dove aveva risolto la sua prima equazione algebrica per il maestro di scuola, un uomo che si consolava attraverso i successi di Sonja quando gli capitava di compatirsi per non aver seguito le orme del fratello nella più remunerativa professione di guardia carceraria; dove aveva gridato aiuto dopo avere visto un uomo che ne trafiggeva un altro sul prato dell’università, solo per scoprire che erano due studenti che facevano le prove per una rappresentazione di Eschilo. Sembrava una città fatta di scatole da scarpe e spiaccicata in terra da un bambino petulante. Poteva trascorrere pomeriggi interi a ricostruirla, ripopolarla, finché l’allucinazione finiva per diventare la realtà più credibile.

«Prima il fiume non si vedeva, da qui» disse. «Adesso questo ospedale è l’edificio più alto della città.»

C’erano stati edifici più alti e progetti per erigerne di più alti ancora. Dopo la dissoluzione dell’URSS, i giacimenti di petrolio promettevano prosperità per la Cecenia nell’imminente secolo capitalista. Eltsin aveva detto alle repubbliche di acquisire tutta la sovranità che potevano, e dopo duemila anni di occupazione straniera sembrava che la repubblica potesse finalmente ottenere la sua indipendenza. I suoi nonni si erano trasferiti a Volčansk nel 1946, dopo che Stalin aveva inserito anche gli autisti di camion e le sarte nell’elenco delle professioni soggette alle purghe, ma il suo entusiasmo patriottico era pari a quello delle compagne di scuola cecene che potevano risalire lungo i loro alberi genealogici fino al seme. Quella sensazione di ottimismo carico di elettricità era evidente nei progetti richiesti ad architetti di Riyad, Melbourne e Minsk. I funzionari cittadini facevano sfoggio di cianografie, le appendevano ai tabelloni e le distribuivano come volantini al bazaar. Non aveva mai visto niente del genere. Quei disegni lasciavano intendere che il vertice del design non consisteva più nell’ammucchiare enormi quantità di cemento armato nei più orridi parallelepipedi. Una volta aveva sollevato uno dei volantini contro l’orizzonte e, mentre il sole rosso sanguinava attraverso il foglio, quelle torri erano diventate parte del paesaggio.

«Davvero volevano la bambina?» chiese, riportando l’attenzione su Achmed. Non che la sorprendesse, ma lo chiese comunque. I sequestri colpivano con la stessa casualità del fulmine. Solo chi era davvero colpevole di sostenere gli insorti – una frazione infinitesimale delle persone portate via – aveva la consolazione di capire la causa del suo destino.

«Non ha senso» disse Achmed. Se si riferisse alla stanza senza pavimento, alla città distrutta che c’era dietro, o alla bambina, Sonja non lo sapeva. In lontananza una fioca scia di traccianti si innalzava nel cielo, scomparendo fra le nuvole.

«Il giorno di paga dev’essere vicino» aggiunse Achmed.

Lei annuì. I Federali venivano pagati solo se usavano una percentuale stabilita delle munizioni loro assegnate. Quando si stufavano di sparare in aria alla cieca, i soldati seppellivano i caricatori in eccesso, per recuperarli poche ore più tardi e reclamare il premio accordato a chi scopriva depositi di armi dei ribelli. «Andiamo» disse Sonja.

Passarono dal vecchio reparto maternità, inutilizzato dalla morte di Maali, e scesero le scale fino alla nuova maternità. Deši posò il lavoro a maglia e adocchiò sospettosa Achmed mentre attraversava la stanza per accoglierli. Dopo dodici storie d’amore nel corso dei suoi settantatré anni, ciascuna delle quali era cominciata con un gesto più grandioso dei precedenti solo per concludersi con un ancora più spettacolare cuore spezzato, Deši aveva imparato a non fidarsi degli uomini, di qualunque taglia ed età, dai neonati ai bisnonni, sapendo che era nella loro natura spezzare il cuore di ogni brava donna. «Resta con noi?» chiese.

«Provvisoriamente» disse Sonja.

«E la bambina?»

«Provvisoriamente.»

«Lei è l’infermiera» disse brusco Achmed. «Ci siamo visti prima.»

«Parla quando non è il suo turno, senza essere interpellato» osservò Deši.

«Volevo solo salutarla.»

«Continua a parlare senza essere interpellato. E ha un naso orrendo.»

«Ehi, io sono qui» disse Achmed, accigliato.

«Dice che è qui. Come se fossimo cieche e sceme.»

«Dov’è che sbaglio?» chiese Achmed a Sonja. «Me ne sto qui e basta.»

«Sembra convinto che basti la sua presenza a trasformare in chissà cosa la bruttezza del suo naso, ma la semplice vista di quel naso, proprio davanti a me, costituisce una prova inoppugnabile.»

«Cosa dovrei dire?» Guardò Sonja, disperato. Lei sorrise e si rivolse a Deši.

«Ma lo vedi come mi guarda?» chiese Deši con la voce che vibrava per l’indignazione. «Sta cercando di sedurmi.»

«Non sto facendo niente del genere. Me ne sto qui tranquillo!»

«Negare è il primo istinto di un traditore.»

«Sta citando Stalin» disse Achmed.

«Visto? È uno sporcaccione e anche uno stalinista.»

«Non essere ridicola.»

«Dev’essere un oncologo.»

«Sono poche le specializzazioni mediche più importanti dell’oncologia.»

Deši sembrò sbalordita. «Ecco!» strillò. «Uno sporcaccione, stalinista e anche oncologo! È troppo. Non può essere.»

«Con tutto il rispetto, io ho trentanove anni e lei è abbastanza vecchia da poter essere mia madre. Con lei non desidero altro che una relazione professionale.»

«Non desidera? Prima fa lo sporcaccione e poi insulta. Beffarsi di un’anziana signora come me, ma non si vergogna?»

«Mi dispiace, va bene? Le chiedo scusa. Stavo solo cercando di andare d’accordo con lei.»

Deši fece una smorfia, sprezzante. «Solo un uomo debole si scusa con una donna.»

Achmed aveva le lacrime agli occhi quando finalmente Sonja si decise a interromperli. Sembrava più sconvolto di quando gli aveva spalancato davanti la porta del magazzino del quarto piano e, mentre sghignazzava, Sonja non poteva fare a meno di sentirsi in colpa per avergli fatto affrontare Deši così senza preavviso. «Ora basta» disse. «Achmed, le presento Deši. Deši, lui è Achmed. E adesso al lavoro.»

«Piacere» disse Deši e tornò alla sua scrivania accanto all’incubatrice.

«Cos’ha che non va?» chiese Achmed quando l’infermiera fu abbastanza lontana.

«E adesso crede che sia Deši ad avere qualcosa che non va» disse Sonja. Un’espressione di orrore si dipinse in faccia ad Achmed. Lo rassicurò che stava scherzando. «Una volta si è innamorata di un oncologo. Non ha funzionato.»

Una donna dai capelli scuri e unti era distesa nel primo letto, con un bambino che le succhiava la mammella sinistra. Tirò su il lenzuolo, coprendo anche la testa del bambino, quando li vide avvicinarsi.

«Va tutto bene» le disse Sonja. «È un medico anche lui.»

«Ma è un uomo» ribatté lei.

«Questo ospedale è un manicomio» disse Achmed, e si voltò dall’altra parte. La donna gli lanciò un’occhiataccia, non apprezzando l’insinuazione che il suo bimbo di tre giorni fosse matto, e poi si scostò il lenzuolo dal petto scoprendo il faccino contratto ancora attaccato al capezzolo.

«Il piccolo ha fame» disse Sonja.

«Ci farà l’abitudine» disse la donna, e chiuse gli occhi.

La puerpera nel letto successivo dormiva, girata su un fianco e con la faccia affondata nel cuscino. Accanto al suo letto c’era un’incubatrice su un carrello metallico. Il neonato all’interno era sottopeso e febbricitante, sembrava più un uccellino schiacciato che un essere umano.

«Scarso nutrimento in utero?» chiese Achmed.

«Nessun nutrimento in utero. Da quando è cominciata la seconda guerra, ci sarà capitata al massimo una manciata di madri abbastanza in forze da mettere al mondo bambini sani.»

«Suppongo che i padri non siano dei civili, vero?»

«Non rientra nella nostra politica fare domande del genere.» Sonja si diresse alla porta. In corridoio si fermò sotto una lampadina spenta. «Lei vede per caso delle falene, qui?»

«Cosa?»

«Niente» rispose lei. Fra cinque settimane avrebbe trovato una falena che svolazzava in mensa, e non l’avrebbe creduta reale fino a quando le ali non le si fossero accartocciate in mano. «Traumatologia è in fondo al corridoio.»