18
La Makarov argentata era stata il pensiero fisso di Ramzan per le due settimane che avevano preceduto la scomparsa di Dokka, durante le quali non era riuscito a produrre un solo movimento intestinale. Ogni mattina, avventurandosi al freddo senza nient’altro addosso che una vestaglia e gli stivali di pelle d’agnello, girava l’angolo della casa, passava davanti ai ghiaccioli che riempivano le sezioni mancanti della grondaia, alle dita divorate dal gelo dei rami di betulla caduti, e si spingeva giù per il ripido pendio fino alle pigne che si erano ammassate in una melma che gli arrivava alla caviglia davanti alla porta del gabinetto esterno. Una volta dentro, si sedeva con i gomiti affondati sulle ginocchia, in uno sforzo che gli serrava tutto il corpo e lo lasciava senza fiato e rosso in faccia. I fiocchi di neve penetravano dal mezzo tetto mancante e gli si posavano sulla nuca sciogliendosi in sudore. Il suo scroto era un portamonete flaccido appiattito fra le cosce. Era incapace di dare alla luce persino una cucchiaiata di escrementi morbidi. Mentre i giorni di inattività si sommavano, uno dopo l’altro, modificò la sua dieta, già limitata a quello che suo padre non gettava in pasto ai cani. Smise di consumare il suo pasto prediletto di carne di manzo insaporita con paprika, peperoncino e coriandolo, l’unica cena sontuosa che suo padre gli permettesse una volta alla settimana. Smise di imburrare il pane e durante il giorno mangiava solo le mele che una volta piacevano tanto a suo padre. Agognava le verdure. Verdure! Crude e fogliose, insapori e ruvide, sì, cetrioli e rape e barbabietole. Perseguitato da quelle che riconosceva come voglie femminili, si sentì svirilizzato per la seconda volta, ma nemmeno la familiarità della vergogna riusciva a rintuzzare il desiderio di cavolo e cavoletti, di fibre capaci di ripulire il suo sistema come le setole di una scopa rabbiosa. Anche se fosse crollato, abbassandosi a chiedere la verdura alle forze di sicurezza statali durante i suoi approvvigionamenti bisettimanali, non avrebbe ricevuto altro che qualche cespo giallo di lattuga ghiacciata, che senza dubbio suo padre avrebbe dato in pasto a quelle bestiacce che abbaiavano in cortile. Ma era sempre più sicuro che non fossero l’eccesso di carne conservata né la penuria di verdure nella sua dieta, quanto piuttosto la conversazione con il colonnello cosacco, ad avergli fossilizzato l’intestino. Considerò l’idea di pregare, ma chiedere un lassativo spirituale era di certo un sacrilegio. Ispirato dalle lunghe cacate morbide che faceva a diciotto anni, da soldato, cominciò a dedicarsi agli esercizi ginnici dopo al-Fajr. Vomitò due volte per lo sforzo eccessivo, ma ancora non riuscì a produrre una deiezione, neanche pallida e acquosa. Il clima, se non altro, recava conforto. Se mai esisteva una stagione adatta alla stitichezza era l’inverno. Sotto la scatola di legno del gabinetto, il pozzo nero si era congelato in una pietra inodore. Di sicuro preferibile al parossismo fecale che sobbolliva d’estate sotto il sedile. Si sedette. Spinse. Lottando contro il suo corpo arrivò alla scoraggiante conclusione che le sue viscere l’avevano tradito. Persino quando gli sembrava d’avere il culo legato stretto con una corda, controllava lo stesso. Ma ogni volta che esaminava la ruvida carta igienica militare, era bianca. Persino dopo aver parlato per la seconda volta con il colonnello, a due settimane dalla prima conversazione, e aver consegnato Dokka, non trovò alcun sollievo. E tre giorni dopo la scomparsa di Dokka, quando Ramzan riattaccò il telefono satellitare e chiuse l’ultima delle tre conversazioni avute con il colonnello cosacco, riconsiderò il suggerimento che suo padre gli aveva dato quella mattina a proposito di Achmed. Possibile che fosse vero? No, non poteva essere, no di sicuro, e lui non poteva crederci, non poteva permetterlo, non era altro che un espediente per costringere la sua coscienza alla pietà. Ma suo padre avrebbe davvero interrotto due anni di voto del silenzio per raccontargli una frottola? Non che importasse più, ormai. Ramzan aveva fatto il nome di Achmed al colonnello cosacco. La richiesta uscita dalle labbra orgogliose di suo padre quello stesso giorno si era tradita da sola, degenerando rapidamente da appello in denuncia, e quindi sì, avrebbe portato via dal paese l’unica persona cui suo padre voleva bene, anche solo per insegnargli cosa significava essere solo. Ovunque fosse Achmed, ovunque avesse nascosto la bambina, era solo un fantasma ancora ignaro della sua morte.
Era il colonnello cosacco, si convinse Ramzan, che gli aveva annodato l’intestino. La sua voce profonda avrebbe reso stitico persino il Volga. Il fumo dei tre pacchetti di sigarette quotidiani alitava dalle sue frasi. Aveva toni di velata minaccia mentre chiedeva a Ramzan se sul suo paese splendeva il sole, e il contrasto fra il tono del colonnello e la puerilità della domanda dava a Ramzan la sensazione che, per l’uomo all’altro capo della linea, la morte fosse un rischio professionale irrilevante. Il sole splendeva, addirittura radioso, eppure Ramzan si sentiva costretto a mentire, a dire che la coltre di nubi era compatta come latte versato, come se un numero sufficiente di bugie insignificanti potesse assolverlo dalle troppe verità rivelate. Invece non mentì. Disse di sì. Il sole splendeva. Il colonnello grugnì un’approvazione, poi lesse il bollettino meteo del paese. Un fruscio crepitò lungo la linea. Ramzan alzò l’antenna verso il cielo, come un parafulmine che attirasse tutta la potenza della voce del colonnello dalla volta celeste. Quando la ricezione tornò, il colonnello chiese della Makarov argentata.
Ma quando Ramzan uscì di casa all’inizio di dicembre del 2004, due settimane prima della scomparsa di Dokka, gli mancavano ancora quarantacinque minuti a sentire per la prima volta la voce del colonnello cosacco. Una borsa di nylon celeste grossa e floscia come un gatto morto gli pendeva dal polso; dentro dondolava il telefono satellitare. Aprì la porta posteriore e, avventurandosi nel vento, attraversò il campo. Il sole riempiva la falda ghiacciata del tetto del cesso, ma il gabinetto non aveva ancora consumato il suo terrore e la sua speranza, come presto sarebbe successo, e lo superò senza voltarsi a guardarlo, lasciando orme profonde sulla neve pressata dai suoi passi pesanti negli stivali di pelle, seguendo lo stretto passaggio lasciato dalle lenzuola irrigidite dal gelo sul filo teso, sull’erba gialla croccante, sulle tombe dei suoi nonni, lungo il bordo irregolare del campo e poi nel bosco.
La neve aveva appesantito il terreno. Il silenzio di casa sua lo seguì fra gli alberi. Dopo essersi inoltrato per duecento metri nel bosco, sollevò la testa in un lungo grido e aprì uno squarcio nel silenzio, attraverso il quale procedette più liberamente. Suo padre, sperava, l’avrebbe scambiato per l’ululato dolente del suo branco. Prima delle guerre l’inverno era stato più mite. Un meteorologo avrebbe potuto non essere d’accordo, ma le previsioni del tempo erano un atto di paganesimo da infedeli di cui non ci si poteva fidare.
Per l’intera durata dei tre chilometri di marcia scrutò la neve, senza trovare impronte più grandi di una zampa di coniglio. Le condizioni che avevano permesso al bosco di sopravvivere ne avevano devastato la fauna. L’economia del paese dipendeva dal legname e, quando l’attività di abbattimento e la sua amministrazione erano svanite insieme con la bandiera sovietica, i paesani erano rimasti privi di mezzi e infrastrutture per trarre guadagno dal bosco. Così si erano messi a cacciare. Favoriti dall’abbondanza di munizioni durante la guerra, cacciarono cervi, cinghiali, orsi bruni e lupi, nella convinzione che loro avrebbero sempre continuato ad avere fame e che il bosco sarebbe stato sempre pieno.
La cellula della caccia per la sopravvivenza metastatizzò infine nel traffico di armi che avrebbe privato Dokka delle dita e trasformato Ramzan in un uomo che doveva percorrere tre chilometri a dicembre per fare una telefonata. Il primo assaggio di contrabbando gli toccò quando lavorava per una piccola azienda di artigianato locale che prosperava grazie al rilassamento delle leggi durante la perestrojka. Scavava le montagne alla ricerca di sculture in pietra degli sciamani. Le capanne che ritrovava non erano altro che isole ad alta quota in un mare di scarti di miniera, e scambiava benzina, medicinali e cibo in scatola con la pietra scolpita. Gli artigiani optavano sempre per il baratto tramite una šura di anziani, sui quali il tempo aveva agito come una sostanza che avesse ripetutamente sciolto e ricongelato le facce. Ramzan, allora sulla ventina, si sentiva uno straniero fra quelle creature antiche e finiva sempre per dare molto più di quanto le sculture valessero. Ai suoi occhi, le sculture in pietra di zoccoli di capra, mani di bambino, un cervo mutilato, non valevano un sorso dalla bottiglia biascicata di vodka che condividevano. Le consegnava in un’area industriale appena fuori Groznyj e lì venivano esaminate, stimate, imballate e spedite in paesi lontani dove ricchi cosmopoliti erano disposti a pagare somme notevoli per esibire uno zoccolo di capra cecena.
Nel 1999, dopo diversi anni che batteva le montagne in cerca di sculture, Ramzan si mise a barattare carne conservata con cartucce da caccia in un paese vicino. Lì c’era un saldatore che fabbricava munizioni artigianali. I pallettoni nuovi costavano uno sproposito al mercato nero e l’ingegnoso saldatore riempiva le cartucce con i cuscinetti a sfera estratti dalle ruote dei carrelli. Chiacchierando davanti a munizioni e carne conservata, scoprirono di aver lavorato entrambi nell’area industriale. Il saldatore spiegò che, subito dopo la nascita del suo primo figlio, ci era andato a lavorare come guardiano notturno così poteva, se non altro, farsi qualche buona nottata di sonno. Parlarono della ditta artigiana che, nel 1991, aveva smesso di comprare sculture autentiche delle montagne e aveva cominciato invece una produzione di massa a Groznyj, con l’aiuto di un professore dell’Accademia d’Arte che sfruttava il lavoro della sua classe di scultura. Lo scambio di ricordi era un tunnel in cui viaggiava la fiducia reciproca. In comune non avevano nient’altro che i ricordi dell’area industriale, ma erano sufficienti. Ramzan portò al saldatore tagli di carne più fresca, e in cambio il saldatore diede a Ramzan un Kalašnikov. Diversi giorni dopo, Ramzan tornò dal saldatore con le zampe posteriori di un orso bruno ancora sanguinanti nel cassone del camioncino.
E un giorno il saldatore sparì per unirsi ai combattenti per l’indipendenza. Per tutto l’anno seguente Ramzan lottò per sopravvivere. L’impresa, già notevole di suo, era complicata dal padre diabetico. In un paese in cui l’acqua potabile era scarsa, procurarsi l’insulina avrebbe dovuto essere impossibile. Ma Ramzan trovò un modo.
In un piccolo campo petrolifero collettivo, senza pretese, noto localmente come Campo dei Miracoli, Ramzan lavorò per gli insorti, o per i Federali, o più probabilmente per entrambi. L’oleodotto che attraversava il frutteto abbandonato trasportava il petrolio dai pozzi locali alla raffineria regionale, ma era crivellato da così tanti buchi di proiettile che la raffineria aveva chiuso ormai da tempo l’attività. Il tanfo di pere marce e mai raccolte riempiva l’aria mentre Ramzan scavava buche, chiamate vasche, lungo l’oleodotto. Getti scuri di petrolio riempivano le vasche, che alimentavano un sistema di canali di irrigazione un tempo usati per il frutteto. Probabilmente una buona metà del petrolio si perdeva nel terreno e filtrava nelle falde freatiche sottostanti, ma il petrolio zampillava con una tale abbondanza dalla conduttura che nessuno aveva mai pensato di sigillare il fondo delle vasche con cemento o plastica. Due volte al giorno un’autocisterna veniva a raccogliere il petrolio con un lungo tubo di gomma e lo distribuiva a impianti clandestini, dove il greggio veniva raffinato in gasolio ad altissimo tasso di zolfo con macchinari obsoleti da ottant’anni, sottratti dal Museo Nazionale della Produzione Petrolifera. Le donne che imbottigliavano il gasolio in vasi di vetro e lo vendevano agli angoli delle strade erano quanto di più vicino a un distributore di benzina si potesse trovare nel raggio di diverse centinaia di chilometri. A volte quel gasolio clandestino funzionava, a volte faceva esplodere le auto, ma non mancava mai di riempire le casse degli insorti, o dei Federali, o più probabilmente di entrambi. Da parte sua, Ramzan era pagato bene, e i guadagni gli servivano per comprare insulina e siringhe al mercato nero. Per via delle continue dispute territoriali lungo l’oleodotto, il lavoro era più pericoloso della guerra stessa, e a sostenere Ramzan non era tanto l’amore per il padre quanto il terrore di deluderlo.
Nel 2001, quando una banda di ribelli feriti aveva temporaneamente occupato il paese, Ramzan aveva riconosciuto fra loro il saldatore. Si erano abbracciati come fratelli, come se a unirli fosse stato un crogiolo assai più drammatico dell’area industriale. Il saldatore gli presentò il suo comandante, un tizio con una pessima dentatura e il petto ricucito con filo interdentale. Colpito dalla familiarità di Ramzan con i percorsi di montagna e desideroso di stabilire rotte di approvvigionamento in vista dell’inverno imminente, il comandante raccomandò Ramzan a uno sceicco saudita arrivato in Cecenia per sostenere i guerrieri musulmani nella loro gazavat contro l’oppressore infedele. Lo sceicco non era il primo straniero wahabita che Ramzan vedesse infrangere i precetti della sharia, ma era il primo a infrangerli in nome del poker online. «Il Corano dice esplicitamente “Chiunque giochi ai dadi, è come se avesse insozzato le sue mani con la carne e il sangue di maiale”, ma non fa menzione dei giochi di carte» aveva spiegato lo sceicco al loro primo incontro, avvenuto tra una puntata e l’altra dei quarti di finale di uno dei suoi tornei. Lo sceicco possedeva forse l’unico computer funzionante in tutta Volčansk, collegato a internet – una tecnologia che offriva di gran lunga troppa libertà per mantenersi pia – grazie a un’antenna satellitare portatile. Lo sceicco, un ometto debordante che sembrava una zucca, sorrise allo schermo del computer. «Gioco di mattina,» disse «quando in Europa occidentale e in America è ancora notte e il giudizio degli altri giocatori è offuscato dal whisky. Le mie vincite, com’è naturale, vanno per intero al jihād.»
Nel periodo precedente alla prima guerra, la cultura nazionale non mostrava alcuna traccia di fondamentalismo. La setta musulmana predominante era sempre stata il sufismo, mentre il wahabismo costituiva un’importazione straniera del tempo di guerra. Nel corso dell’anno, a più riprese, dei wahabiti arabi arrivavano in paese per arruolare reclute. Promettevano razioni, rifugio, la vita eterna in paradiso e, fino al giorno del martirio glorioso, un salario mensile di duecentocinquanta dollari americani. Ben pochi giovani avrebbero abbracciato la monocromatica fede wahabita, ma molti erano disponibili a lasciarsi radicalizzare per un salario mensile che superava di gran lunga quello che avrebbero altrimenti guadagnato in un anno. La guerra di indipendenza confluì tanto rapidamente nel jihād perché a nessuno importava davvero dell’autodeterminazione di una minuscola repubblica priva di sbocco sul mare. Gli stati arabi finanziavano di buon grado una guerra di religione, ma non il nazionalismo. E in quel modo non aveva importanza chi avrebbe vinto la guerra, se i Federali o i fondamentalisti: l’aspirazione a una Cecenia democratica e sovrana sarebbe stata comunque schiacciata. Il martirio era il modo più semplice per guadagnarsi da vivere, ma la morte non attirava Ramzan, che fu quindi felice quando lo sceicco, di buon umore dopo aver vinto i diecimila dollari del torneo, accavallò le gambette sottili e gli offrì un’alternativa.
La vera guerra era quella dei rifornimenti, spiegò lo sceicco, che prima di dedicare la vita ad Allah faceva il fiscalista e sarebbe tornato a farlo nel giro di cinque anni e mezzo, dopo che Allah non avrebbe ritenuto opportuno avvisarlo, per l’ultima volta, del full servito che il suo avversario aveva in mano. Gli džigit, i montanari ceceni, andavano riforniti di provviste e di armi, disse lo sceicco, e non farlo rischiava di provocare più danni al morale di un martellamento di mortaio. A volte, continuò lo sceicco, quando i combattenti erano accampati nelle caverne di montagna, con una capacità di fuoco insufficiente a sconfiggere persino un branco di lupi, figurarsi l’esercito federale, lo jihād sopravviveva soltanto come una preghiera nei cuori dei suoi devoti. A quel punto era difficile pretendere che poche migliaia di uomini rintanati fra le montagne potessero sopraffare uno degli eserciti più grandi del mondo. Eppure dovevano pretenderlo. L’illusione della vittoria, nella mente dei neoconvertiti, era di per sé una vittoria. E il morale era essenziale per mantenere la conquista accessoria delle anime cecene. Se i soldati morivano sotto le bombe, la colpa era dei russi. Se morivano di fame, la colpa l’avrebbero data ai wahabiti. Trasporti affidabili erano più necessari di tutte le preghiere del mondo arabo, eppure difficilissimi da ottenere, perché lo sceicco era uno straniero e non conosceva quella terra. Ramzan invece sì. Alla fine si lasciò convincere facilmente. Lo sceicco gli diede una busta con dentro dieci pallide banconote da venti dollari e Ramzan prese i soldi con la punta delle dita. Chissà perché, aveva sempre creduto che le banconote americane fossero più spesse.
Mentre i suoi vicini si spingevano sempre più a fondo nel bosco alla ricerca di selvaggina, Ramzan guidava fino a Volčansk, a Šali, persino a Groznyj. Le armi che consegnava agli accampamenti dei ribelli arrivavano tutte da fabbriche di munizioni in Russia. Alcune le comprava in blocco da un capitano dei Federali corrotto, che faceva schierare la sua compagnia sull’attenti all’arrivo di Ramzan e passava in rassegna i ranghi con una borsa da paracadute aperta mentre Ramzan leggeva a voce alta la lista del materiale richiesto, preparata dallo sceicco; nei rapporti ai suoi superiori il capitano riferiva gli incidenti come imboscate dei ribelli, ai quali i suoi soldati non avevano potuto fare altro che arrendersi. Altre armi arrivavano attraverso le rotte dei contrabbandieri, che solcavano le regioni di confine come vene di marmo. Un giorno, discutendo dei percorsi di approvvigionamento, lo sceicco gli mostrò una carta geografica dell’intera repubblica, ricavata da una dozzina di stampe a bassa risoluzione scaricate da internet. «Cosa c’è che non va?» chiese lo sceicco quando Ramzan strabuzzò gli occhi davanti ai segmenti allineati alla bell’e meglio e tenuti insieme con nastro adesivo mezzo staccato. Era la prima volta che vedeva una carta del suo paese. I sovietici avevano messo al bando le carte che raffiguravano l’intera repubblica, per timore che simboli del genere potessero suscitare un sentimento di solidarietà nazionale o, quanto meno, risultassero troppo utili agli autisti dei camion. Nonostante i traffici incontrollati in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica, a nessuno – per quanto ne sapesse Ramzan – era mai venuto in mente di contrabbandare oltre confine una carta geografica del paese. Ed eccone una, proprio davanti a lui. Il suo paese sembrava un rettangolo disegnato da qualcuno con il delirium tremens. Non l’aveva mai saputo. Lo fece sentire patriottico. «È una carta bellissima» rispose Ramzan alla fine. Lo sceicco gli permise di tenerla.
Nei sedici mesi in cui lavorò per lo sceicco, Ramzan trasportò armi semiautomatiche, caricatori per mitragliatrice, pistole Makarov, contenitori di alluminio pieni di proiettili sciolti e divisi per calibro, fucili da cecchino completi di mirini telescopici, bombe a mano, fil di ferro per le trappole esplosive, blocchi di semtex avvolti in carta marrone, cronografi, matasse colorate di filo elettrico plastificato, foto in bianco e nero di basi militari russe, mappe con la segnalazione di blocchi stradali e posti di blocco e ruderi, barattoli di grasso scuro e spesso, taniche di benzina di plastica rossa, pile, butano per accendini, bussole, bandane, detersivo in polvere, compresse di iodio, sigarette, sacchi di riso, patate picchiettate, marmellata di prugne, albicocche secche, latte condensato, lenticchie, pepe in polvere, bollettini e comunicati, carta di riso così sottile da essere trasparente, penne, buste, lettere dalle famiglie, paghe, tappeti da preghiera, libri tascabili, copie del Corano e sezioni di tubi d’acciaio trasformati in RPG di fortuna, per i quali trasportava anche i razzi. Il compenso era soggetto alle esigenze di guerra. A volte era nelle buste: valuta americana, russa, britannica o europea. Altre volte era una percentuale delle merci trasportate: un paio di scarponi militari di cuoio, un cesto di grano, una pelle di cinghiale, un cappotto di montone, una Makarov cromata. Quando gli capitava di sentirsi un criminale, rammentava a se stesso che, se non c’è legge, non c’è neppure reato.
I combattimenti dilatarono i viaggi di rifornimento al di là dei semplici calcoli di tempo e distanza. Coprire un centinaio di chilometri poteva richiedere settimane di preparazione e giornate intere di esecuzione. Riempiva il camioncino fino a pieno carico e usava solo una logora coperta azzurra per nascondere il contenuto. Non importava che i Federali lo beccassero con un coltello da burro o con una bomba atomica. Un colpo di pistola avrebbe annunciato la medesima sentenza. Saliva verso creste che sembravano innalzarsi verso il cielo quando si avvicinava. Il pericolo era più in basso, lungo e sopra le strade principali – mine, pattuglie, elicotteri – e allora seguiva piuttosto i percorsi dei pastori, appiattendo l’erba alta. Le pianure si sollevavano in colline e le colline in montagne. Si arrampicava per tornanti così ripidi da richiedere tre manovre per superarli. Gli specchietti laterali si erano stroncati. Le rocce avevano scrostato la vernice della portiera. Di tanto in tanto gettava uno sguardo nelle gole di verdi indefinibili e le vedeva precipitare verso frammenti di corsi d’acqua che marcavano la profondità e la pendenza del terreno. La copertura delle nuvole inghiottiva città e paesi in lontananza. Invasore e invaso si aggrappavano al loro pugno di terra ma, alla fine dei conti, la terra sopravviveva alle mani che cercavano di afferrarla.
Guidava finché le montagne non glielo impedivano. Poi arrivava il tratto più breve e più arduo. Caricava le provviste in una specie di gerla di compensato e se la agganciava alle spalle con strisce di tela e cavi elastici. Se ben bilanciati, riusciva a portare fino a quaranta chili su per la montagna. I ribelli non lo aiutavano, considerandolo un lavoro inadatto a uomini pii e patriottici come loro, e così Ramzan trasportava i quaranta chili su e giù per massi e dirupi, mentre gli strapiombi della vallata lo fissavano minacciosi. Ogni dieci minuti controllava la bussola e il profilo delle montagne. Si legava una campanella al polso affinché le vedette lo sentissero avvicinarsi prima ancora di inquadrarlo nei loro mirini. Si materializzavano di colpo, nelle mimetiche sbiadite fino alla stessa tonalità della pietra chiazzata di muschio. Le barbe lunghe sulle facce cotte dal sole, i martiri lo salutavano con imperiosa gratitudine. In base alla posizione degli accampamenti e a dove arrivava la strada, Ramzan invitava Dokka, mai Achmed, ad accompagnarlo.
Eccola.
L’orma di un alce.
Si acquattò a terra, fermato da una fila di impronte che segnavano la neve come una lunga ellisse che non portava da nessuna parte. Le orme non si erano ancora ghiacciate e l’alce doveva quindi trovarsi in un raggio di poche centinaia di metri. Imbattersi di nuovo in un alce. Ammirare anziché sparare. Si alzò e controllò l’ora. La luce del sole indorò le lancette argentate. Sarebbe dovuto arrivare venti minuti prima. Fece scorrere lo sguardo lungo la traccia delle impronte, cercando di seguirle fra i pini e le betulle. Da qualche parte in quella distanza di gelo e ombra, un movimento interruppe l’immobilità e quel disturbo scolpì la distanza dentro di lui. Proseguì. Non poteva far tardi. Neppure l’avvistamento di un alce era una scusa valida.
Gli alberi si aprirono nel tratto di bosco tagliato più di recente. Gli arboscelli nuovi erano già più alti di lui. Si stagliavano sopra i ceppi sepolti dal gelo dei loro predecessori. Le sue impronte zigzagarono fra loro, più grandi e più evidenti di quelle dell’alce, per fermarsi vicino ai grossi pneumatici di un decrepito camion per il trasporto dei tronchi. I boscaioli lo avevano abbandonato quando erano scappati, e nel decennio da allora trascorso la vernice gialla si era sbiadita e scrostata, rimpiazzata da una patina uniforme di ruggine. I battistrada erano scolpiti così profondamente che li usò come pioli per arrampicarsi nella cabina. Il parabrezza era percorso da incrinature che sembravano tele di ragno, ma il vetro riusciva ancora a reggere il peso della neve. Seduto al posto di guida, fece scorrere la lampo del borsone di tela e montò il telefono. L’antenna satellitare consisteva in tre rettangoli di metallo rivestiti di resina che, una volta assemblati e piazzati sul tettuccio della cabina con un’angolazione di quindici gradi, somigliavano a una teglia da forno. Collegò due fili di plastica nera al satellite. Uno portava alla batteria, che lasciò sul tettuccio accanto all’antenna, l’altro rientrava dal finestrino spaccato e andava al ricevitore. Il tastierino verde pisello si accese. Restavano tre minuti prima dell’ora stabilita per la chiamata. Per quanto schiacciato dalla vergogna e dal rimorso, quelle telefonate costituivano per lui il momento migliore del mese: per quasi due anni i militari dall’altra parte della linea erano stati gli unici esseri umani interessati a parlare con lui. Misurava il freddo dalla lunghezza del suo fiato, che gli si innalzava davanti alla faccia come una zanna per poi svanire. L’intero silenzio del bosco era concentrato nella cabina.
Avrebbe poi immagazzinato il ricordo di quel momento insieme a quello del mattarello di sua madre, il modo in cui gli bastava vederglielo tirare fuori dall’armadietto della cucina perché gli venisse l’acquolina in bocca. Ne avrebbe fatto tesoro così come conservava il ricordo del gomitolo di lana gialla ancora attaccato alla manica amputata di un maglione che gli stava sferruzzando quando era morta. Avrebbe intessuto quei tre minuti nella tela dei ricordi di sua madre, perché lei l’aveva amato, l’aveva considerato un ragazzo buono e generoso, ed era morta prima di vedere il mezzo uomo che era diventato. Per quasi due anni aveva fatto l’informatore per le forze di sicurezza. Aveva tradito vicini che gli avevano fatto gli auguri per tutti i compleanni della sua vita. Eppure continuava a considerarsi tanto la vittima quanto il colpevole dei suoi crimini.
Alle undici in punto digitò il numero di nove cifre sul tastierino. Rispose un aiutante, e nel freddo rattrappito della cabina la sua voce trillò come un clarinetto. L’aiutante passò la telefonata al colonnello, la cui voce – a voler essere onesto – non ebbe alcun effetto sul suo intestino, fino a quando non si mise a parlare della Makarov cromata.
Quasi due anni prima, nel gennaio 2003, si era inoltrato fra le montagne per quella che sarebbe stata l’ultima volta. La mattina della partenza si era alzato presto, aveva compiuto le sue abluzioni e aveva pregato sul trapezio di luce dell’alba che si allargava sul pavimento come un tappeto da preghiera. Il sole invernale segnava l’ora come faceva un tempo l’ufficio postale sovietico, e Ramzan si preparò per uscire senza neppure accendere la lampada a kerosene. Erano trascorsi nove anni dall’ultima volta in cui la casa che condivideva con il padre aveva ricevuto una fornitura elettrica affidabile, e l’oscurità – anziché la mancanza di qualcosa – aveva cominciato a sembrargli un ispessimento dell’aria, una viscosità che gli rallentava i movimenti e richiamava la sua memoria spaziale. Le mutande lunghe gli si erano strappate sulle ginocchia e, mentre si tirava su l’elastico sui fianchi, si rammaricò del fatto che fosse più facile procurarsi una cassa di fucili da cecchino delle Forze Speciali che un paio di mutande termiche. Prima di uscire dalla camera frugò nel cesto della biancheria sporca. I calzini di lana e le maglie ingrigite si divisero e compressero per fare posto alla sua mano, ma la Makarov conservava la sua forma.
In cucina il vapore si levava dal beccuccio della teiera. Ramzan aprì lo sportello della stufa e si scaldò le mani a coppa nel calore aranciato. Delle pagine frusciarono in salotto. Suo padre sapeva che quel giorno sarebbe partito per le montagne. Una falce di luce color senape si insinuò dalla porta del salotto e, dopo essersi preparato una tazza di tè, Ramzan si avviò in quella direzione. Dal pavimento la luce gli risalì sui piedi e sulle gambe, sottolineando le pieghe delle mutande lunghe e tingendogli poi di giallo le mani, i polsi, gli avambracci, i gomiti. «Vai via presto» disse suo padre, con una preveggenza che trasformò la domanda in un’affermazione. Era seduto alla sua scrivania, nella pozza di luce della lampada. Ramzan si sedette sull’ottomana marrone; dopo anni passati ad affrontare il sole del mattino, lo schienale era sbiadito.
«Cosa leggi?» chiese Ramzan.
Suo padre fece un sorrisetto imbarazzato, come se l’avesse colto a mangiare i manti con le mani direttamente dalla pentola, e sollevò verso la luce la copertina di cartoncino. Una storia di spionaggio, con una spia americana incapace che si infiltrava al Kremlino e veniva smascherata da un commissario, il cui spirito proletario e l’incredibile fortuna compensavano le carenze di ragionamento deduttivo. Quando Ramzan era sulle montagne, suo padre leggeva solo romanzetti del genere. Per un uomo che per tutta la vita si era mosso fra testi accademici, il passaggio alla letteratura d’evasione proclamava la preoccupazione paterna peggio di un megafono.
«L’hai già letto?»
«Due volte.»
«Chi vince? Gli americani o i russi?»
«Entrambi» disse suo padre gettando uno sguardo al vetro della finestra coperto di ghiaccio.
«E allora chi perde?»
«Tutti gli altri.»
«Dovrei tornare fra una settimana.»
Suo padre annuì e riabbassò gli occhi sul libro. Sarebbero trascorsi due anni prima di un’altra conversazione con lui.
«A presto» disse Ramzan. Suo padre mise il segno con una matita, si alzò e abbracciò Ramzan. Il fiato del padre gli scaldò la guancia come un’ultima nuvoletta di umidità estiva sopravvissuta. Sulla scrivania, sotto il romanzo, la carcassa dattiloscritta del suo libro sanguinava inchiostro rosso. «Se scrivessi il tuo libro, invece di leggere quelli degli altri, a quest’ora l’avresti finito.»
«Forse» rispose il padre. Il loro abbraccio più che interrompersi si dissipò, un’esalazione che scioglieva quel po’ di tenerezza creatasi brevemente fra loro. Il gesto del padre era un atto precauzionale, più che d’amore: se Ramzan non fosse tornato dalle montagne, il padre avrebbe avuto la consolazione di sapere che il suo ultimo gesto verso il figlio era stato d’affetto e non di insoddisfazione.
In camera da letto Ramzan sollevò due assi posticce del pavimento e tastò alla cieca alla ricerca dell’estremità sfilacciata della corda. Avvolgendosela attorno al polso, trascinò a sé il pallet di legno attraverso le fondamenta di cemento della casa. Sul bancale di legno c’era una borsa di tela con le sue cose più preziose. Tre granate a frammentazione, un Kalašnikov con otto caricatori pieni, un coltello da caccia, una vecchia tessera della banja, la sauna del paese, duecentomila rubli suddivisi in otto mucchietti bene impacchettati, e una scatoletta di legno di sandalo con dentro un’unica manica di maglione giallo ancora attaccata al gomitolo di lana.
Fece scivolare un mazzetto di banconote nel taschino destro della sua vecchia giacca dell’Armata Rossa – una giacca che sembrava fatta solo di tasche – e infilò le braccia nelle maniche, che sembravano semplicemente le tasche più grandi. Somigliava a un pescatore. Prese la Makarov dal cestino, l’avvolse in una maglietta e la mise nel borsone, per tenersela. La pistola era una delle venti che avrebbe dovuto consegnare in montagna quel giorno, un piccolo premio che si era concesso. Di lì a tre settimane avrebbe insegnato a sparare ad Havaa.
Fuori, il sole nascente brillava sulla brina gelata mentre camminava verso il camion con passo pesante, lo zaino in spalla e la teiera in mano. Aprì il cofano e, dopo aver lasciato raffreddare un po’ la teiera nella neve, riempì il radiatore. L’antigelo era un lusso che non poteva permettersi, e allora tutte le sere svuotava il radiatore e tutte le mattine lo riempiva, e così fino alla primavera. Le armi e le provviste – fra cui le altre diciannove pistole Makarov – erano già imballate nel cassone. Era rischioso lasciare le armi fuori di notte, ma sempre meno rischioso che portarle dentro. La differenza di temperatura poteva facilmente spaccare le aste di armamento delle armi. Suo padre stava sulla soglia, con un cipiglio che era la ruga più evidente sulla sua faccia.
Dopo due minuti, casa sua fu indistinguibile dalle altre abitazioni coperte di neve che si vedevano nello specchietto retrovisore. Raggiunta la casa di Dokka, diede due colpi di clacson. Attraverso la finestra del salotto, una lite fra Dokka e la moglie si interruppe alla seconda strombazzata. Sulla soglia, Havaa guardava sconsolata Dokka che si gettava uno zaino in spalla e guadava la neve per arrampicarsi sul sedile del passeggero.
«Mattinata difficile?» chiese Ramzan.
Dokka sorrise. «Sono sposato. Quando mai non lo è?»
Nessun veicolo era passato dall’ultima nevicata e, senza tracce di pneumatici da seguire, Ramzan non era ben sicuro di dove fosse la strada. Finché non andava a sbattere contro un albero, concluse, era sulla strada giusta. Stravaccato sul sedile del passeggero, Dokka si faceva girare sulla mano un sassolino tondo.
Lungo la strada, lo strato di neve aumentò da dieci a venti centimetri mentre puntavano a sud. Ramzan mantenne una velocità di quaranta all’ora così a lungo che le due cifre sembravano infilzate sull’ago del contachilometri. Si fermarono per pisciare e mangiare qualcosa accanto a una macchia di pini, i cui rami coperti di neve fornivano un buon nascondiglio al camion rosso.
«La neve è come la madre di mia moglie» disse Dokka, calciandola sulle tracce di pneumatici. «Si ricorda tutti i posti in cui siamo stati.»
«Prendi una sigaretta.»
«Non sei andato a caccia quest’anno. Ti sei scordato che un cervo è più facile da trovare nella neve fresca.»
Ramzan si issò sul cofano ancora caldo. Da cosa dipendeva l’improvviso nervosismo di Dokka? Sì, certo, rischiavano di farsi sparare dai Federali o dalle forze di sicurezza statali, se li scoprivano, ma poteva capitare con la stessa facilità anche a Eldár o a Volčansk, a casa loro o per strada, mentre dormivano o giocavano a scacchi, un destino così probabile per qualunque ceceno che sembrava sciocco preoccuparsene più di tanto.
Davanti a loro si allargava un campo bianco in cui, da ormai otto anni, non crescevano altro che erbacce e polvere. La neve cancellava ogni riferimento spaziale e il campo sembrava estendersi oltre l’orizzonte, abbastanza grande da estinguere il sole.
«Non potrai continuare a lungo a fare quello che fai» disse Dokka. «La guerra è finita. Groznyj è caduta. Queste schermaglie sono gli ultimi colpi.»
«Sei un ottimista, Dokka.»
Scese la sera e continuarono ad attraversare vallate a terrazze fino a raggiungere un paesino costruito con la stessa pietra chiara che incoronava i pendii. Secoli prima, in quel paesino abitavano diverse migliaia di persone; ma nel 1956, quando i ceceni erano tornati dall’esilio kazaco, le autorità sovietiche avevano impedito loro di rientrare nelle case di famiglia, e quel paesino di rovine in ottimo stato era uno delle centinaia sparpagliati per tutto l’altopiano. A Ramzan sembrava così innaturale vedere un paese decimato non dalle bombe o dalle pallottole, ma dal tempo e dall’abbandono. I trentanove abitanti che si radunarono attorno al camion condividevano il sangue di trisnonni comuni. Gli uomini portavano cappelli d’agnello e stivaloni di pelle, le donne più anziane avevano fazzoletti grigi e neri in testa e lunghi vestitoni informi, e quelle più giovani hijab azzurri e rosa ripiegati alla larghezza di una lama di coltello. I bambini si erano fermati appena fuori dalla luce dei fari, timorosi che potesse bruciarli.
Si fece loro incontro l’anziano, alto e arboreo, che come tutti sapevano mangiava la neve per sopire la sua ulcera allo stomaco. Dopo essersi rinfrescati in un catino di metallo, cenarono a casa sua. Le pareti erano fatte di lastre di pietra chiara sigillate con calcina di pietra polverizzata. Petroglifi sbiaditi ornavano ogni pietra: raggi di luce che scaturivano da soli grandi quanto una prugna. Nella stanza principale mangiarono seduti sulle stesse stuoie sulle quali avrebbero poi dormito. Mangiavano in un altro modo, lì. Le ciotole piene, le porzioni non razionate. Non c’era bisogno di parlare quando la lingua poteva conversare con il montone.
Non più abituati a porzioni così abbondanti, Ramzan e Dokka furono gli ultimi a finire. Appena posarono le ciotole, le donne sfilarono nella stanza dalla porta posteriore. Aspettarono che gli uomini avessero finito prima di prendere i loro posti sulle coperte di pelle di capra. Ramzan, l’ultimo a uscire, fece in tempo a sentire sussurri e risatine soffocate mentre la porta si richiudeva alle sue spalle, e rimpianse di non poter restare. Gli uomini percorsero un sentiero da cervi che passava davanti alle rovine coperte dal gelo di una torre di pietra. Secoli prima era stata una fortezza, torre di guardia e di segnalazione, un’ancora per il tejp da allora disperso. Superata la torre, raggiunsero una radura. Una serie di assi sopraelevate creavano una piattaforma liscia e asciutta a forma di cerchione. Il mozzo era un cerchio di pietre che racchiudeva le ceneri di un falò. Gli uomini portarono ceppi presi da una legnaia profondamente scavata nel fianco della collina e ricoperta da una tettoia. In pochi minuti il fuoco divampò alto come la testa di Ramzan, così luminoso da permettergli di contare gli anelli dei tronchi non ancora bruciati. Erano anni che non partecipava più a uno zikr.
Ramzan e Dokka si sfilarono le scarpe e raggiunsero gli altri in cerchio attorno al fuoco. L’anziano diede inizio allo zikr con una preghiera. Un richiamo forte, la voce di un uomo, pensò, in un paese privato degli uomini. La ilaha illa Allah, la ilaha illa Allah. L’anziano ripeté la professione di fede, e il suo ritmo lento suddivise il mondo in sillabe senza pari, espressione di un linguaggio superiore. Da ogni lato altre voci si aggiunsero in armonie che sostenevano il richiamo dell’anziano. Poi battiti di mani, non per segnare il ritmo ma per stimolarlo. L’argento della luna e l’arancio delle fiamme si intrecciarono sul viso dell’anziano. Non c’è altro Dio all’infuori di Allah. Gli uomini ondeggiavano da un lato all’altro al crescere del ritmo. Il dondolio diventò un rumore di piedi battuti, e dalla piattaforma traballante di legno si levò una nuvola di segatura. Davanti all’ardore del falò, gli uomini bruciavano. Le maniche svolazzanti dei cappotti, le mani in movimento nei guanti di lana, ma l’urlo non era quello scatenato dalle mine o dalle schegge di mortaio, e il dolore nel richiamo dell’anziano era la sofferenza pietosa del desiderio. Non c’è altro Dio. All’infuori di Allah. Altro Dio. All’infuori. Di Allah.
Ramzan batté le mani e pestò i piedi e urlò e il sudore gli scorreva sulla faccia. Senza preavviso, un uomo a tre posti da lui emise un lungo ululato e, per quanto Ramzan non riuscisse a distinguere una sola parola nella litania di suoni che uscivano contorcendosi dalla gola dell’uomo, capì esattamente cosa intendeva. Aveva gli occhi chiusi, e la sua espressione insolitamente serena suggeriva che avesse visto tutto ciò che c’era da vedere. La voce dell’anziano calò di un’ottava e, all’unisono, il battito dei piedi degli altri diventò una danza. Marciarono gioiosamente, in senso antiorario, facendo scivolare il piede sinistro sulle assi della piattaforma e battendo forte il tallone del destro. Ruotarono all’unisono. Trecentosessanta gradi livellati in un piano indivisibile. Ramzan sentiva aumentare la pressione nel petto e cercava di contenerla ripetendosi che non era più un Sufi, che quella non era la sua gente, che la tristezza umana era la profezia di un paradiso vuoto, ma nonostante tutto cresceva, cresceva, come il ricordo di un orgasmo spento da tempo, e la pressione sigillò lo spazio fra le sue cellule, e fu liberato. Non c’era alcuna melodia nel suo urlo. La sua voce era rauca e rotta e la levò alta. Gli altri uomini non se ne accorsero neppure, nel battito di mani e assi, ma a Ramzan il respiro successivo portò la pace.
Il mattino seguente Ramzan si svegliò con la gola irritata. Dopo una colazione a base di noci, frutta secca e latte di capra, l’anziano accompagnò Ramzan e Dokka al loro camioncino. In cambio dell’ospitalità, diede all’anziano dieci chili di riso e un litro di butano. L’anziano rifiutò ogni offerta di munizioni, a parte qualche cartuccia da caccia e, nonostante le sue resistenze, Ramzan insistette. Non ricordava l’ultima volta in cui si fosse preoccupato tanto per la sicurezza di un estraneo. Ma il cipiglio irremovibile dell’anziano mostrò che non si sarebbe lasciato convincere della sicurezza di una bomba a mano. Allontanandosi alla guida del camion, Ramzan si sforzò di concentrarsi sulla strada. Le vite che si lasciava alle spalle erano così insignificanti e anonime che erano sfuggite all’attenzione del socialismo di stato, della prima e seconda guerra. La notte precedente, per la prima volta da molto tempo, si era sentito integro, e i suoi occhi tornarono allo specchietto retrovisore, dove la sua dignità se ne stava in pochi centimetri quadrati di vetro.
Proseguirono per altre cinque ore, attraverso valichi montani così stretti che gli specchietti laterali si sarebbero fracassati, se non lo fossero già stati, e di nuovo giù nelle vallate; cinque ore ad ascoltare Dokka che tesseva l’elogio dell’ingegnosità di sua moglie e delle sue capacità in giardino, e del suo talento nel ricavare piatti sontuosi con appena un terzo degli ingredienti necessari, cinque ore di complimenti così copiosi ed esagerati che Dokka poteva solo intenderli come insulti, altrimenti perché cantare le lodi del matrimonio a un uomo che non poteva sposarsi, perché esaltare le meraviglie della vita in comune se non per ferire Ramzan che, per quelle lunghissime cinque ore, si sentì così deficiente che avrebbe dato volentieri la mano destra in dote per una moglie che non sapesse cucinare, cucire, allevare figli, una moglie che commettesse adulterio e scoreggiasse in pubblico, una moglie che lo trattasse come una bestia: sì, avrebbe accettato tutto questo e di buon grado, perché un uomo disgraziato è pur sempre un uomo, e Ramzan non era un uomo, non del tutto, eppure tutti si aspettavano da lui che lo fosse; e i vicini, santiddio, «Perché non ti sei sposato, un bell’uomo come te che vive ancora con il padre» – e quando le sue sommesse obiezioni avevano suscitato voci – «Non gli piacciono le donne, ecco perché a trentun anni non si è ancora sposato», non era riuscito a capire se lo disonoravano di più la verità o quelle voci ma, alla fine, aveva deciso che era meglio lasciar fiorire la leggenda dell’omosessualità almeno fino a quando il suo silenzio avrebbe gettato un dubbio sull’intera questione e sì, in effetti il suo silenzio generò dubbio ma soprattutto in lui stesso, trasformando la vergogna in rabbia e pompandogliela nelle vene, nelle reni, nelle braccia, nelle dita dei piedi per poi rimandarla verso quel secondo cuore dove erano incisi i nomi di coloro che lo avevano calunniato, e molto più tardi avrebbe recitato quegli stessi nomi a un telefono satellitare, e chi aveva dato origine a quelle storie sarebbe caduto vittima delle sue stesse storie, dove al posto di omosessualità c’era simpatie per i ribelli, wahabismo, jihād; ma quelle storie erano ancora da raccontare, neppure immaginate, e il purgatorio della moglie di Dokka, di cui Ramzan era l’infelice pubblico, rimase interminabile persino dopo cinque ore di guida, quando superò la cresta di una collina e dovette frenare di colpo perché proprio davanti a lui, a nemmeno duecento metri, c’era un plotone di truppe russe, e li vide come conquistatori e liberatori insieme, che avrebbero potuto ucciderlo ma se non altro l’avrebbero liberato dalla dannazione della voce di Dokka, e tremando di terrore e di gratitudine pronunciò le parole che aveva avuto sulla punta della lingua per cinque ore. «Chiudi il becco, Dokka.»
Un gradevole silenzio pervase la cabina e Ramzan se lo godette per un attimo prima che la paura tornasse a impadronirsi di lui. C’erano due veicoli corazzati per il trasporto truppe, due jeep UAZ e un carro armato con torretta mitragliatrice.
«Torna indietro!» gridò Dokka e gli scosse il braccio prendendolo per la manica della giacca. «Cosa fai? Andiamo via!»
Ma lui continuò a tenere il piede sul pedale del freno. «Ci hanno già visti.»
Era vero. La torretta con la mitragliatrice aveva già ruotato nella loro direzione e sbuffi di neve si alzavano dietro le jeep che acceleravano verso la cresta.
«Se scappiamo siamo morti. Se aspettiamo e ci mostriamo ragionevoli potremmo cavarcela. Siamo semplicemente seduti qui. Non è ancora un reato essere vivi. Potresti persino avere la possibilità di finire il racconto di tua moglie.»
Le jeep si fermarono a una ventina di metri, in attesa, mentre dietro di loro il carro armato si inerpicava lentamente sul pendio. I soldati che ne emersero non erano i kontraktniki tatuati, come quelli che ricordava Ramzan ai tempi della začistka; in confronto a quei corpulenti orsi russi, questi erano sciacalli affamati. “Potremmo arrivare a vedere il tramonto” pensò.
Quattro soldati armati di mitragliatrici si avvicinarono. Alzò le mani bene aperte verso i Federali. Dokka lo imitò subito.
«Tu sei già stato in un campo di detenzione. Sei sopravvissuto. Non ti hanno fatto del male» balbettò Dokka, senza riuscire a convincere nemmeno se stesso. Ramzan avrebbe voluto prenderlo per le orecchie e scuotere quello stupido testone illuso fino a fargli tintinnare dentro l’unico granello di logica che possedeva. Sporgendosi in avanti, tastò lo spazio vuoto che aveva fra le gambe.
«Piantala, Dokka. Sta’ zitto e basta.»
Uno dei soldati si avvicinò alla portiera del guidatore. Non si radeva da una settimana almeno, ma la barba lunga non riusciva a nascondere le guance incavate. Attorno a loro la neve si allargava indifferente.
«Acqua» gracchiò il soldato. Senza capire cosa avesse detto, Ramzan gli mostrò la carta d’identità.
«Acqua» disse di nuovo il soldato. «Sono giorni che mangiamo neve e fango. Ci serve acqua pulita. Parli russo?»
«Credo che dovremmo dargli dell’acqua» sussurrò Dokka, le mani aperte ancora rivolte verso il parabrezza. Era la prima cosa sensata che avesse detto quel giorno.
«Ho dell’acqua qui vicino ai piedi» disse al soldato. «Non spararmi.»
Il soldato prese la borraccia unta di grasso, sospirando mentre se la portava alle labbra, e il suo sollievo fu lo stesso di Ramzan. Il soldato non sospettò che quell’acqua avesse passato il giorno precedente a circolare per il radiatore.
Le mani di Dokka rimasero puntate verso il cielo quando ricevettero l’ordine di scendere dal camion. Ramzan protestò brevemente e con poca convinzione; dopotutto aveva dato una borraccia d’acqua a quel primo soldato: era così che ripagavano la sua generosità? Ma abbandonò ogni rimostranza quando quel primo soldato, la sete ormai saziata, gli premette la canna della pistola sulla fronte. Li fecero stendere a faccia in giù nella neve, le mani legate dietro la schiena con reggette di plastica. Per non affondare la faccia nella neve, Ramzan era costretto a inarcare la schiena, gonfiare il petto e agitarsi come una balena spiaggiata. Da quella scomoda posizione guardò i soldati che scaricavano i sacchi di riso e grano dal cassone del camion. Da un momento all’altro avrebbero trovato le pistole Makarov, le granate a frammentazione, i blocchi di Semtex e i cavi elettrici, e lui sarebbe morto lì, dibattendosi come un mammifero marino del cazzo, a un mucchio di chilometri da casa. Quanto rimpiangeva di non essersi cucito nome e indirizzo all’interno dei calzoni. Non aveva preso quella precauzione perché temeva che le forze di sicurezza potessero coinvolgere suo padre, ma adesso, con la neve che gli si scioglieva attraverso la giacca, non riusciva a pensare a una disumanità peggiore di una tomba senza nome. Forse l’avrebbero costretto a stendersi sopra Dokka per risparmiare munizioni. Una morte che sarebbe stata un insulto per un contrabbandiere d’armi. Pretendeva quanto meno una pallottola tutta per sé. Per la borraccia d’acqua, avrebbero potuto usargli almeno quella cortesia. Accanto a lui, Dokka si era già arreso. Il calore del suo viso aveva sciolto una ciotola di zuppa nella neve. Ci piangeva dentro.
«Non preoccuparti» disse Ramzan. Il suo tono lo sorprese. Vedeva la fine ed era calmissimo. «Oggi scopriremo se avevano ragione gli imam o i commissari.»
«Tu sei coraggioso» disse Dokka. «E invece eccomi qui a piangere. Ti disonoro.»
Quante volte succede che un’infelicità incommensurabile venga scambiata per coraggio? Aprì la bocca e la riempì di neve. Si sciolse mentre ascoltava i singhiozzi di Dokka. Se non altro i soldati si sarebbero ricordati chi dei due aveva affrontato la pallottola a occhi asciutti.
Ma i soldati, in un atto imprevisto di compassione e moderazione, decisero di non giustiziarli sommariamente. Dopo aver trovato le armi, tirarono in piedi Ramzan, e poi anche Dokka. Scuotendo la testa davanti al muco congelato sulle labbra di Dokka, si rivolsero a Ramzan e parlarono solo con lui. Si erano persi. Tre notti prima, il freddo aveva distrutto la loro radio e si erano mossi fra i campi coperti di neve alla vana ricerca di qualche insediamento umano. Non stavano cercando il camion rosso. L’avevano trovato per caso. Mentre le canne delle mitragliatrici li spingevano verso la UAZ, il comandante chiese: «Conosci la Discarica?»
Ramzan annuì.
«Sai indicarci dov’è?»
«Indicarvi dov’è?»
«Te l’ho detto. Ci siamo persi.»
Da non crederci.
«Se ci accompagnate là, rimarrete vivi. Almeno fino a quando ci arriviamo. Questo te lo posso garantire. Probabilmente anche dopo. Conosco un tenente.»
«D’accordo.» Non sapeva che altro dire. Il comandante gli sorrise, grato. Temendo che potesse addirittura baciarlo, Ramzan fu il primo a muoversi verso la jeep. I suoi catturatori lo seguirono.
I soldati li guidarono lungo il pendio in discesa, con cura, perché non rischiassero di cadere. Il comandante gli aprì la portiera e gli tagliò la reggetta di plastica con la lama seghettata di un coltello da caccia.
«Attento alla testa» gli raccomandò il comandante, che non avrebbe mai raccontato del suo servizio militare ad anima viva. La donna che avrebbe sposato di lì a tre anni e mezzo avrebbe conosciuto in lui un centinaio di persone – un marito, un padre, un fedele della chiesa, un maestro elementare, un volontario per beneficienza – ma non avrebbe mai trovato un comandante in quella moltitudine che amava così teneramente.
Ramzan scivolò verso l’estremità più lontana del sedile. Dokka sedette accanto a lui. Dopo qualche minuto di inquietudine, il comandante ricomparve sul sedile del passeggero con una Marlboro rossa, la marca di sigarette preferita del capo dei ribelli, fra le labbra. L’ufficiale e gli altri soldati lo fissarono, in attesa.
«Cosa c’è?» chiese Ramzan.
«Non ti sei messo la cintura di sicurezza» osservò il comandante.
«La cintura di sicurezza?» Si guardò attorno. Gli altri soldati ce l’avevano tutti.
«Non andiamo da nessuna parte finché non te la metti» disse il comandante. Ramzan annuì: sì, certo che doveva mettersi la cintura di sicurezza, proprio come doveva fornire le indicazione per raggiungere una campo di tortura, perché la stupidità era l’unica legge costante dell’universo. Agganciò la cintura e trasse di tasca la bussola. «Fate inversione. La Discarica è nell’altra direzione.»
Nel giro di un’ora Ramzan indirizzò la jeep sulla strada che li avrebbe condotti alla Discarica. Nei campi cominciarono ad apparire chiazze ovali di neve sciolta. Macchie stranamente tondeggianti di terra umida. Il sole splendeva. A un certo punto sbadigliò e si sentì dare di gomito da Dokka. Il soldato con le guance incavate e le labbra sporche di grasso pisolava accanto a lui.
«Credo che Achmed vada a letto con mia moglie» disse Dokka. Ramzan tornò a voltarsi verso il finestrino. Rami argentati sfilavano veloci. L’estate si preannunciava bellissima. Aveva sentito più di quanto volesse sapere sulla moglie di Dokka.
Inizio dicembre 2004. Due settimane prima della scomparsa di Dokka. Nella cabina del camion da legname abbandonato. La prima conversazione con il colonnello cosacco.
«Ramzan Gešilov?»
«A rapporto, signore.»
«Riconosci la mia voce?»
«No, signore. Sostituisce il capitano Ivan Fëdorovič?»
«È l’ufficiale al quale fai rapporto?»
«Sì.»
«Sì, cosa?»
«Sì, signore.»
«Mi sono scopato la moglie del tuo ufficiale superiore ottantasette volte, e solo tre di queste prima che si sposassero. Mi hai capito?»
«Sì, signore.»
«Mi si dice che sei uno dei meno incapaci tra i nostri elementi nella regione di Volčansk. È corretto?»
«Non saprei, signore.»
«Finalmente qualcuno che dice la verità.»
«Sì, signore.»
«Com’è il tempo nei boschi di Eldár?»
«È... c’è il sole. E fa freddo.»
«È quello che riporta il bollettino meteorologico. Sono contento che i meteorologi siano onesti, almeno per oggi.»
«Sì, signore.»
«Dove sei, in questo momento?»
«Nella cabina di un vecchio camion abbandonato per il trasporto del legname. A tre chilometri dal paese. Signore.»
«Bene. Stai parlando con me invece che con quel cornuto del capitano perché si è creata una situazione della massima importanza. Dato che il capitano non riesce neppure a risolvere il caso della scomparsa di sua moglie, che tutti i giovedì si infila nel mio letto, non posso fidarmi di lui per questa faccenda. Sai, è arrivato il rapporto balistico che riguarda una pistola utilizzata lo scorso anno per l’omicidio di un colonnello dell’FSB.»
«Lo scorso anno?»
«Sì. Un anno per ottenere un semplice rapporto balistico. Siamo a dicembre del 2004 ed è appena arrivato. L’ultima volta che sono stato a Mosca ho letto che le catene di montaggio cinesi possono produrre un’auto nuova in poche ore. E noi ci mettiamo un anno per produrre un rapporto balistico che collega il proiettile nella testa di un colonnello dell’FSB con la pistola che giace a pochi metri di distanza.»
«Sì, signore.»
«Il rapporto è arrivato, e voglio che tu scopra da dove viene quella pistola.»
«Chiedo scusa, signore?»
«Hai scoreggiato?»
«No, signore.»
«Allora non sprecare una richiesta di scuse a vuoto.»
«Sì, signore. È solo che non so come fare a scoprire l’origine di una pistola usata un anno fa.»
«È una di quelle situazioni da ago nel pagliaio, vero?»
«Con tutto il rispetto, signore, è una situazione da ago in una catasta di aghi grande quanto un pagliaio.»
«Allora sei fortunato. È uno dei tuoi aghi.»
«Devono averla male informato, signore. Negli ultimi due anni non mi è passato per le mani neppure uno stuzzicadenti. Lo chieda al capitano, signore.»
«E se lo chiedessi a sua moglie? No, non me ne frega niente di quello che fingi di non vendere, mi interessa piuttosto quello che hai già venduto. Vedi, il numero di serie della Makarov usata per uccidere il colonnello nel dicembre del 2003 fa parte della sequenza di numeri seriali delle Makarov trovate sul tuo camion quando i nostri coraggiosi soldati ti hanno teso un’imboscata e ti hanno portato alla Discarica nel gennaio del 2002.»
Silenzio.
«Sei ancora lì?»
«Sì.»
«Cosa?»
«Signore.»
«Questo ci pone in una situazione alquanto difficile. La ricerca di informazioni sull’origine di una pistola usata per assassinare un colonnello dell’FSB ci conduce immediatamente a una persona che paghiamo proprio per fornirci quell’informazione.»
«Giuro di non averci nulla a che fare, signore. Chi era l’assassino, signore?»
«Una Vedova Nera. Una šachidka. Una separatista addestrata e inviata da quegli animali che stanno fra le montagne.»
«L’hanno presa viva... signore?»
«La šachidka era detenuta in un campo di prigionia. Con astuzia ha sedotto il colonnello, un uomo, mi si dice, così ben dotato che solo la fica cavernosa di una cecena era grande abbastanza da contenerlo. Senza dubbio, dopo aver sentito parlare delle dimensioni del colonnello, la šachidka ha usato tutti i suoi poteri di seduzione. Mentre erano soli gli ha sparato.»
«Ma, signore, non l’avevano perquisita in cerca di armi?»
«Se tu avessi ancora un paio di palle fra le gambe sapresti che di media la fica delle puttane della tua gente è grande abbastanza da nasconderci un lanciarazzi. Il colonnello era un cretino, senza dubbio, ma era pur sempre un colonnello.»
«Sì, signore, ma non sarebbe più prudente rintracciare la šachidka, anziché la pistola?»
«È più facile identificare una pistola che una persona. C’è una lezione, in questo.»
«Ma la šachidka...»
«Irrilevante.»
«Farò quello che posso, signore.»
«No, non farai quello che puoi. Farai quello che ti è stato detto di fare.»
«Sì, signore.»
«I numeri sono il linguaggio amorale della verità assoluta. Quei numeri di serie non mentono. A un certo punto sei entrato in possesso di quella Makarov, e io saprò il nome e la posizione delle mani che l’hanno avuta dopo di te. Sono stato promosso per rimpiazzare il colonnello ucciso. Adesso ho il suo rango e il suo comando e perciò, comprensibilmente, la mia priorità è eliminare gli artefici del suo assassinio. Dovessi cadere vittima di un simile destino, e dovesse rimpiazzarmi il capitano cornuto, dovrei temere per il futuro della nazione russa.»
«Sì, signore.»
«Vedo dal tuo file che hai un padre.»
«Sì, signore.»
«E abita con te?»
«Sì, signore.»
«Ha appena compiuto settantanove anni?»
«Sì, signore.»
«È sopravvissuto alla Grande Guerra Patriottica?»
«Sì, signore.»
«E alla deportazione in Kazachstan?»
«Sì, signore.»
«E a undici anni nella steppa?»
«Dodici, signore.»
«E vuoi che arrivi a compiere ottant’anni?»
«Sì, signore.»
«Allora dammi i nomi, Ramzan.»
«Sì, signore.»
«O ti ricucirò le palle solo per tagliartele di nuovo.»
Il campo di detenzione della Discarica si chiamava così perché era stato costruito – o meglio, interrato – dove c’era prima una discarica di rifiuti solo parzialmente completata. Una volta, passandoci davanti da giovane, Ramzan aveva visto una scavatrice simile a un brontosauro che affondava i denti nel terreno e staccava un morso di terra che avrebbe riempito una vasca da bagno. Ma dopo il crollo e le successive guerre, i piani per completare la discarica erano stati dapprima differiti e poi abbandonati del tutto. Solo due delle otto fosse previste, profonde venti metri ciascuna e grandi quanto un campo di calcio, erano state scavate. Il rivestimento di cemento e plastica, che avrebbe dovuto convogliare il percolato, non era mai stato installato, e così neve e pioggia si scioglievano in una melma alta fino al ginocchio in fondo alle due fosse nel terreno. Quando Ramzan era stato portato lì durante la prima guerra, aveva trascorso tre giorni nel Pozzo A prima che le guardie calassero nella buca una scala con sessanta pioli, gli gettassero secchiate di acqua gelida sui piedi e le gambe e lo portassero nell’edificio bianco a due piani che sopra l’ingresso mostrava ancora la scritta IMPIANTO SMALTIMENTO RIFIUTI – AMMINISTRAZIONE. Petizioni per il riempimento dei due pozzi erano circolate dopo la prima guerra. Un infelice gruppetto di sedici donne che la Discarica aveva reso vedove avevano spalato terra per un mese, senza ottenere alcun risultato visibile sul panorama della discarica. Alla fine l’utilità simbolica di riempire le due fosse non eguagliò l’utilità reale di ricostruire strade, case, scuole, centrali elettriche, raffinerie e ospedali. Nessuno immaginava che quelle fosse si potessero riutilizzare. Nessuno immaginava che ci sarebbe stata una seconda guerra.
Invece la seconda guerra ci fu e adesso, nel gennaio del 2003, dopo aver incontrato la pattuglia di Federali perduti, Ramzan venne imprigionato per la seconda volta. Trascorse undici giorni là sotto, questa volta nel Pozzo B, mentre Dokka era stato calato nel Pozzo A. Finalmente le sue orecchie godevano di un meritato riposo. Scese i sessanta pioli ormai arrugginiti della scala e la guardia lo scrollò via prima che avesse raggiunto il fondo. La melma si era ghiacciata in una poltiglia di neve che gli arrivava appena alle caviglie. Nel pozzo c’erano altre ventiquattro persone. Nei giorni seguenti pregò rivolto al cielo con tutti loro, ma nella mente gli restarono impresse solo le conversazioni con l’imam dagli occhi azzurri. Le guardie calavano cibo e acqua fresca con secchi metallici attaccati a corde gialle che arrivavano a intervalli irregolari, o cinque volte in un giorno, o una volta sola, oppure nel bel mezzo della notte e allora gli uomini si svegliavano, si radunavano, e si dividevano le provviste. L’unica cosa che non mancava nella fossa era lo spazio. Ramzan trascorreva le ore di luce camminando lungo le pareti e chiedendosi se da qualche parte i Federali avessero anche una prigione moderna, con elettricità, cuccette, celle e tetti, in cui tenevano non solo i prigionieri ma anche bucce di banana, e di patate, e lacci da scarpe rotti, e torsoli di mele, e calendari dell’anno passato, e pneumatici sgonfi, e fogli di carta appallottolati, e fazzolettini usati, e mozziconi di sigaretta, e le ultime schegge inutili di sapone. Qualche guardia compassionevole, la cui anima l’iman gli aveva insegnato a onorare, aveva gettato nel Pozzo delle sottili assi di legno, e una passerella larga quanto un asse d’equilibrio percorreva il perimetro della fossa. I nomi dei prigionieri e dei loro paesi di provenienza erano incisi nelle pareti d’argilla. Gli uomini pressavano la neve sulle pareti, più in alto che potevano, per ammorbidire l’argilla, e dopo qualche minuto la grattavano via e si identificavano in grandi lettere a stampatello incise con un legnetto o con un dito. Informazioni per ottenere le quali i Federali li avrebbero torturati, erano scritte là, visibili a tutti. Era opinione condivisa fra i prigionieri che i Federali avessero tanto buonsenso quanto un paio di mattoni battuti insieme. Era anche opinione condivisa che il vero scopo degli interrogatori fosse il dolore, più che le informazioni.
Nel pomeriggio del quarto giorno, Ramzan procedeva in equilibrio sulla passerella sottile quando l’imam dagli occhi azzurri lo fermò.
«Dammi una spinta» chiese l’imam accennando con il mento barbuto alla parete dove aveva scritto metà del suo nome. All’inizio Ramzan si rifiutò. Da quando era arrivato aveva fatto del suo meglio per mantenere le distanze da quegli uomini sudici e abbrutiti, come se il rifiuto di considerarli fosse una fune su cui tenersi in equilibrio per non cadere fra loro e diventarne parte.
«Sei forse un generale, eh?» chiese l’imam. «Un principe persiano? Hai le mani troppo delicate per aiutare un imam abbastanza vecchio da essere tuo zio?»
«Non sono un principe persiano.»
«Allora scendi dal trono e aiutami.»
L’imam appoggiò lo scarpone fangoso nella staffa formata dalle dita intrecciate di Ramzan. Sollevò l’imam, il cui peso, ora sostenuto dalle sue mani indolenzite, era maggiore di quanto la sua corporatura lasciasse pensare. Dopo un lunghissimo momento l’imam gli diede un colpetto sulla fronte con il dito fangoso e Ramzan lasciò ricadere a terra l’uomo più anziano.
«Guardalo bene» disse l’imam indicandogli il suo nome e quello del suo paese. «Se viene fuori che sei un principe persiano e ti lasciano andare, devi ricordarti di me.»
«Se mi lasciano andare mi scorderò tutto di questo posto.»
«No» protestò l’imam, minacciando Ramzan con il mignolo coperto di fango. «Devi ricordarti.»
«Perché?»
«Perché così i miei nipoti sapranno dove riscattare il mio cadavere.»
Ramzan annuì.
«Me lo posso permettere, sai» disse orgogliosamente l’imam. «Ho ancora il mio anticipo della pensione.»
Quando Ramzan si voltò, l’imam gli chiese: «Perché ti hanno portato qui?».
«Per contrabbando d’armi. E tu?»
«Per altezza.»
«Altezza?»
«Be’, per mancanza di altezza. I Federali sono venuti in paese per un’operazione di controterrorismo. Cercavano un cervellone wahabita che secondo loro si nascondeva lì, ma l’unica descrizione fisica che avevano era che si trattava di un uomo con la barba e alto meno di due metri. Allora hanno radunato tutti gli uomini bassi di statura e con la barba, e molti adolescenti che non avevano la barba però erano della statura giusta. Sulla riga del motivo di arresto del mio modulo hanno scritto troppo basso.» L’iman scosse la testa e alzò gli occhi verso il suo nome inciso sulla parete d’argilla, adesso oltre la sua portata. Ramzan era contento di essersi fermato ad aiutarlo.
«Buffo» disse l’imam. «La mia generazione è cresciuta nei campi di reinsediamento del Kazachstan e, per via della scarsità di proteine, non è strano per le persone della mia età essere basse di statura, però io me ne sono sempre vergognato. Il mio fratello minore mi diceva sempre che essere basso non mi avrebbe certo ammazzato. Lui era di soli due centimetri più alto di me, ma lo giuro: tutta la sua vita l’ha vissuta in quei due centimetri, imponendosi su di me, sempre a chiedermi se avevo bisogno d’aiuto per arrivare ai ripiani più alti. Avrei voluto che fosse ancora vivo solo perché i Federali arrestassero anche lui perché era troppo basso.»
«Che ci si può fare?» disse Ramzan alzando le spalle.
«Pregare.»
L’imam teneva corte nell’angolo sudovest del Pozzo B, appollaiato sul seggio d’onore, vale a dire un secchio rovesciato che si era staccato dalla corda. Ogni mattina guidava la preghiera e faceva le abluzioni con la neve, che gli intorpidiva le mani fino a farle diventare bianche. Insisteva che Dio, nella sua compassione, avrebbe perdonato la loro involontaria sporcizia. Sapeva a memoria l’intero Corano e predicava sulla natura del male che, come un’ombra, non può esistere indipendentemente dal bene che delinea. Diversamente dallo sceicco e dai mujāhidīn, non legava mai la politica ai versetti del Corano, e spiegava invece la rettitudine del fedele e la saggezza del Profeta e la gioia di un Paradiso che è l’estate rispetto all’inverno del mondo. Soprattutto, parlava della fine dei tempi e del giudizio di Dio.
Ma l’inquisitore avrebbe giudicato Ramzan prima di Dio, ed era il giudizio dell’inquisitore quello che lui temeva. Ogni giorno osservava il rituale degli uomini che venivano chiamati. Prima la scala da sessanta pioli veniva calata lungo la parete del pozzo, e poi il nome del prescelto risuonava, amplificato da un megafono, così forte e distorto che sembrava rimbombasse davvero dal cielo. Se il convocato esitava, arrivava un colpo di avvertimento. Il convocato si arrampicava per i sessanta pioli della scala fino al sessantunesimo, il livello del terreno, un punto così remoto che il cielo sembrava più vicino. Nessuno dei convocati tornava. Un ottimista avrebbe potuto pensare che fossero stati ritenuti innocenti e rilasciati, rimandati a casa dalle loro famiglie; ma nemmeno Dokka, nonostante la relativa dannazione in cui viveva, sarebbe stato capace di tanto ottimismo. Non appena il convocato raggiungeva la sommità della scala e metteva piede sul terreno coperto di neve del sessantunesimo piolo, l’imam cominciava il suo funerale. Il servizio funebre non somigliava a nessuno cui Ramzan avesse mai assistito. Niente cadavere. Niente sudario. Niente amici o vicini che avessero conosciuto il convocato in condizioni meno disperate di quelle. Erano tutti morti, solo qualche piolo più indietro del convocato, e lo onoravano non come qualcuno che era partito, ma come uno che era finalmente entrato del tutto. L’imam riuniva gli altri attorno alla chiazza umida dove il convocato aveva inciso il suo nome e il luogo di provenienza. Leggevano insieme il nome, a voce alta, dapprima piano, poi innalzando la voce in un canto che rivaleggiava con uno zikr, trasformava il nome in una preghiera e la mandava in cielo. Per ventiquattro ore, o quanto di più vicino a quel periodo riuscissero a calcolare, il nome e il paese di provenienza del convocato restavano sulla parete d’argilla. Alla venticinquesima ora gli uomini tornavano a riunirsi attorno all’iscrizione. Ciascuno di loro prendeva dal suolo molle una manciata di terra e la premeva contro la parete. In mancanza del corpo potevano seppellire solo il nome e, quando non riuscivano più a leggerlo, sapevano che quell’uomo se n’era andato.
«Secondo gli adīth, a
colui che ogni notte recita la sura 67 sarà risparmiata una morte
straziante» predicò una sera l’imam dal suo secchio capovolto.
«Tutti voi dovete saperlo. Tutti voi dovete contarci. La sura
descrive la misericordiosa creazione dei sette cieli, ciascuno
superiore all’altro. Il Trono di Dio si trova nel cielo più alto, e
lanterne adornano il più basso. Le lanterne sono le nostre stelle e
comete, questo stesso firmamento che abbiamo sopra la testa.»
Alzò gli occhi al cielo e riabbassò il viso. Trasse di tasca una bustina di fiammiferi e ne accese uno. Una morbida luce gialla gli inguantò la mano. «Rincuoratevi, amici miei, perché siamo già fra i giusti. Siamo già con Dio.» Sollevò il fiammifero accanto alla faccia, e la sua ombra venne proiettata sull’argilla della Discarica. «Ecco la lanterna del nostro primo cielo.»
Da qualche parte sopra di loro un nome venne scandito dal megafono. L’imam scese dal secchio e camminò verso la scala. «Con Dio» disse mentre saliva sul primo e più basso dei pioli.
Scese la notte. Il chiarore della luna copriva Ramzan come un lenzuolo leggero. Era disteso su un brandello di tappeto un tempo bordò, che si sarebbe capovolto nel fango se solo si fosse messo a sedere, rigirato, o anche solo avesse sbadigliato troppo energicamente. Qui le stelle splendevano molto più brillanti. La luce garzata della Via Lattea si allargava sopra il Pozzo B, quanto di più simile ci fosse a un tetto. Niente, in questo mondo o nel prossimo, era peggio del dolore fisico. Nell’aldilà, ormai pura anima, non avrebbe più avuto un corpo da picchiare, epidermide da spellare, sangue da far scorrere, occhi da cavare, unghie da strappare, polmoni da far affogare, ventricoli da fermare, e così il castigo di Dio sarebbe stato comunque più mite del castigo dell’uomo. Si aggrappò a quella sua personale verità la mattina dopo, quando il suo nome risuonò dal megafono. Ci si aggrappò mentre saliva la scala e vedeva, incorniciati fra i pioli, i nomi di coloro che l’avrebbero seguito. Quando gli ordinarono di spogliarsi, ubbidì. Quando uno degli inquisitori che lo interrogavano volle vedere meglio la pelle devastata che un tempo era stata il suo scroto, ubbidì. Quelle cicatrici avevano sette anni. Durante la prima detenzione nella Discarica, nel 1995, durante la prima guerra, si era rifiutato di fornire informazioni. Gli avevano calato i calzoni a forza, gli avevano mostrato il troncabulloni e ancora aveva detto no. Urlando, dibattendosi, la virilità già mezza amputata, aveva detto no. Lo aveva fatto, e adesso era pronto a cominciare a dire sì.
Avrebbe confessato qualsiasi cosa, ma non gli chiesero niente, non erano interessati, lo minacciarono di tagliargli la lingua e strappargli i denti con le tenaglie se avesse detto un’altra cazzo di parola. Gli avvolsero fili elettrici attorno alle dita. Gli scaricarono nelle ossa la batteria di un’auto. Dio forse lo stava guardando, ma non era il dito di Dio quello sull’interruttore. I suoi inquisitori non parlavano. Ramzan era lo strumento che suonavano, in un duetto, e a modo loro conversavano tramite i suoi singhiozzi. Portavano entrambi scarpe lucide. Era tutto quello che avrebbe ricordato.
Perse conoscenza e venne risvegliato a secchiate d’acqua gelata così spesso che neppure l’elettricità che gli scorreva nelle vene riusciva più a riscaldarlo. Gli inquisitori uscirono dalla stanza per riposarsi, e ne entrarono altri. Era sotto interrogatorio da tre ore e non gli avevano ancora fatto una sola domanda. In un momento di pausa, mentre gli inquisitori chiacchieravano fra loro dei piani per il fine settimana, cercò di ritrovare il battito del proprio cuore tra i rutti e i gorgoglii, veri o immaginari, emessi dal suo corpo martoriato. Prima che collegassero la seconda batteria d’auto, il nuovo inquisitore condusse Ramzan in un’altra stanza. Faceva fatica a camminare. Aveva dimenticato quanto fosse spossante la tortura. Il nuovo inquisitore, quello con le scarpe meno lucide, lo sostenne usando il proprio corpo come una gruccia, e lo aiutò a camminare. Pulì con cura la fronte di Ramzan con un fazzoletto prima di aprirgli la porta per la stanza successiva. Al centro c’era un tavolo di legno bianco segnato da graffi di unghie. In quel regno di speranze esaurite, l’acquario dalla parte opposta della stanza non lo sorprese. L’imam con gli occhi azzurri venne introdotto da un’altra porta. Non riconobbe Ramzan e, se anche l’aveva riconosciuto, rifiutò di riconoscere la propria vergogna davanti a un discepolo. L’imam venne immobilizzato sul tavolo. Una delle guardie gli calò calzoni e mutande. L’inquisitore con le scarpe meno lucide, che solo pochi minuti prima aveva così teneramente sostenuto Ramzan lungo il corridoio, si avvicinò all’acquario. Si infilò un paio di guanti di gomma spessa e infilò la mano nell’acquario. L’imam dagli occhi azzurri non sapeva cosa stesse succedendo. Dalla sua posizione poteva vedere solo il muro e le mani che lo tenevano fermo. L’imam non poteva vedere quello che vide Ramzan. Non poteva vedere l’inquisitore con le scarpe meno lucide che si avvicinava con una cintura nera che sussultava e si agitava, e l’inquisitore non poteva vedere la faccia dell’imam. L’imam non capiva cosa stesse succedendo, e neppure Ramzan. Ma quando l’inquisitore con le scarpe meno lucide premette l’anguilla, a fauci aperte, tra le chiappe pallide dell’imam, non poteva essere nient’altro. La stanza diventò indistinta, poi nera, e l’urlo dell’imam seguì Ramzan nell’incoscienza. Quando si svegliò, era di nuovo nella prima stanza degli interrogatori. L’inquisitore con le scarpe meno lucide era accovacciato dietro di lui. Aveva le mani bagnate. Ramzan promise di tutto e l’inquisitore, come il genitore di un bambino troppo grande per credere ancora ai fantasmi, lo guardò deluso, gli occhi chiari rattristati per la sincerità di Ramzan. L’inquisitore si tolse la giacca, si arrotolò le maniche, attaccò i cavi elettrici al petto di Ramzan e tracciò i confini della loro umanità condivisa. Ramzan gli offrì l’anima. Supplicò di essere reso schiavo. L’universo conosciuto si contrasse nei confini del pavimento di cemento, in cui l’inquisitore era insieme umano e divino, profeta e dio. Alle dieci in punto l’inquisitore con le scarpe meno lucide gli fece la prima domanda. Alle undici i fili elettrici vennero sciolti dalle dita di Ramzan. A mezzogiorno gli permisero di rivestirsi. All’una era sul libro paga dell’FSB. Continuò a ringraziare l’inquisitore con le scarpe meno lucide. Ancora e ancora, ringraziò quell’uomo, e mai la sua gratitudine era stata così sincera. Avrebbe seguito l’inquisitore con le scarpe meno lucide ovunque. Era Dio quello che aveva trovato all’altro capo dei cavi elettrici. Gli vennero affidati un telefono satellitare e un manuale di trecento pagine scritto in tedesco, francese, inglese e giapponese. Chiese di Dokka, e gli dissero che poteva comprare la vita del suo amico. Sì, gli disse l’inquisitore con le scarpe meno lucide, purché i suoi compaesani riuscissero a mettere insieme entro una settimana un riscatto di cinquantamila rubli; altrimenti il riscatto sarebbe balzato a settantacinquemila rubli per il suo cadavere. Ramzan infilò la mano in una delle molte tasche della giacca che gli avevano restituito e timidamente tirò fuori le banconote avvolte nella plastica. Nessuno aveva pensato di perquisirgli le tasche. «Questi sono solo la metà» disse l’inquisitore con le scarpe meno lustre. «Ma io sono prima di tutto un uomo ragionevole.»
Ramzan aspettò Dokka sulle scale di cemento dell’Amministrazione dell’impianto smaltimento rifiuti. A cento metri di distanza, sul fondo del Pozzo B, si stava svolgendo il suo funerale. Forse uno degli altri si era seduto sul secchio capovolto dell’imam, a intonare il nome di Ramzan Gešilov, l’uomo buono e giusto che aveva rifiutato di diventare un informatore e per questo era morto nella Discarica sette anni prima, e solo adesso aveva il suo funerale.
I ciottoli ai suoi piedi erano tondeggianti e maculati. Le dita dei piedi nudi ci si aggrapparono. Nessun senso di colpa, nessuna vergogna: sarebbero venuti in seguito; per adesso c’era solo il soverchiante rumore bianco del sollievo, del respiro, dell’assenza di dolore. Sulle dita portava gli anelli di dieci bruciature. Per la prima volta in vita sua credette senza riserve all’esistenza di un Dio benevolo e generoso, così come la sete del deserto insegna a volte a credere nella pioggia. Dopo un’ora il suo camioncino rosso girò l’angolo, seguito da una nuvola di polvere che rimase ad aleggiare nell’aria quando il camion si fermò. I singhiozzi di Dokka riempivano il finestrino aperto del passeggero. Lasciando il motore acceso, l’inquisitore con le scarpe meno lucide scese dalla parte del guidatore. Teneva in mano un sacchetto di plastica, come un pesce che era fiero di aver catturato. Nel sangue galleggiavano dieci dita. «Il tuo amico le riavrà quando io avrò gli altri venticinquemila rubli» disse l’inquisitore con le scarpe meno lucide.
Dopo essersi inerpicato sul sedile del guidatore, dopo aver bendato le mani di Dokka con fazzoletti e nastro adesivo, guardò il cruscotto e vide che l’inquisitore – le cui scarpe, bagnate di sangue, risplendevano ora nel sole pomeridiano – gli aveva lasciato il serbatoio pieno di benzina.
E adesso, due anni dopo, nel dicembre 2004, due settimane prima della scomparsa di Dokka, quando il segnale di linea libera interruppe la minaccia del colonnello cosacco e Ramzan ritirò il telefono satellitare e scese dalla cabina del camion abbandonato, lo fece con lo stesso stordimento che gli aveva permesso di allontanarsi dalla Discarica due anni prima. Tutt’e due le volte aveva sentito la voce supplichevole di Dokka, e tutt’e due le volte aveva fatto del proprio meglio per ignorarla. Per le due settimane successive alla telefonata del colonnello cosacco, le due settimane in cui i suoi intestini si erano serrati in un pugno di stitichezza, Dokka, non ancora fantasma, lo aveva perseguitato. Ramzan aveva ripercorso i dodici nomi già forniti ai Federali, i dodici che erano scomparsi perché due anni prima, alla Discarica, era diventato un informatore. Che importanza poteva avere un tredicesimo? Che importanza poteva avere una persona sola sull’incudine della storia? Rimase seduto in silenzio a ricordare Dokka come se se ne fosse già andato. Dokka che concludeva sempre le sue domande con o, come se sapesse già di ricevere una risposta negativa: «Ti andrebbe di giocare a scacchi o...? Le razioni G-3 arriveranno domani o...?» La generosità nell’aprire casa sua ai profughi e l’intransigenza che gli faceva pretendere un affitto, pur se dietro pagamento di un bottone, o di una graffetta, o di qualche aggeggio insignificante per la collezione di sua figlia. I suoi occhi scuri che si erano spenti due volte: la prima quando aveva perso le dita, la seconda quando aveva perso sua moglie. Le sue mani a pagaia. Le dita sottili dei piedi che avevano acquisito l’abilità di una mano sinistra. Riusciva a tenere una penna fra l’alluce e il secondo dito del piede, e scriveva in lettere così grandi che una sola frase riempiva una pagina. Il suo genio per gli scacchi.
Più Ramzan ci pensava, più orrendo diventava. Il Dokka rivelato in non più di una palettata di ricordi era sufficiente a spezzargli il cuore. Dokka che insisteva a portare camicie abbottonate e si vestiva ogni mattina: se la bambina lo aiutasse, se fosse troppo orgoglioso per chiedere aiuto alla figlia, se si svegliasse prima dell’alba per cominciare l’estenuante impresa di abbottonarsi la camicia con le dita dei piedi, Ramzan non lo sapeva. In quel frenetico tragitto di ritorno dalla Discarica, Dokka aveva ringraziato Ramzan per avergli salvato la vita. In un modo o nell’altro erano sopravvissuti, e neppure il dolore delle dieci dita amputate era bastato a fargli dimenticare le buone maniere.
Due mesi dopo la sua prima conversazione con il colonnello cosacco, Ramzan era tornato a piedi nel bosco, si era infilato di nuovo sotto i rami incastonati nel gelo, fino alla cabina del camion arrugginito. Aveva chiamato il colonnello e gli aveva consegnato Dokka, spiegando che Dokka dava asilo ai profughi e probabilmente anche a simpatizzanti dei ribelli, anche se non aggiunse che la maggior parte dei ceceni erano simpatizzanti. Riferì fedelmente che tornando dalla Discarica Dokka gli aveva chiesto un’arma perché temeva di non poter difendere la sua famiglia, che lui aveva insegnato ad Havaa a usare la Makarov perché Dokka non aveva più le dita per tirare il grilletto. Era stato il primo resoconto fornito senza abbellimenti. La Makarov cromata era l’unica prova, e per quanto avesse fornito circostanze attenuanti, spiegazioni dei fatti e ragionevoli dubbi, il colonnello non aveva interesse a portare Dokka davanti a un tribunale. Il colonnello chiese di Havaa, e Ramzan, con una contrazione nel ventre che non prometteva nulla di buono per il suo intestino bloccato, comprese che, quando un uomo è implicato nell’omicidio di un colonnello, è tutta la sua famiglia che deve sparire, anche se tutta la sua famiglia è solo una bambina di otto anni.
Quando ebbe finito e riemerse dal bosco dopo aver parlato per la seconda volta con il colonnello cosacco, Ramzan si costrinse ad andare a casa di Dokka. Un dolore gli si irradiava dalle tempie. Chiuse gli occhi. Cos’hai fatto con quella pistola, Dokka? Maledetto stupido, stavolta non posso comprare la tua vita. A ogni passo lasciava cadere un pezzo di sé. Persino mentre tradiva i suoi vicini, si era sempre cullato nella scusa della necessità. Che fosse mangiando cibo razziato o tradendo un amico, tutti loro si erano disonorati per sopravvivere. Non era l’avidità il motivo della sua attività di informatore, o almeno non il principale; principalmente faceva l’informatore per necessità, per sopravvivere, per l’amore e l’odio e soprattutto la soggezione che provava nei confronti del potere detenuto dall’ufficiale inquisitore con le scarpe meno lucide. Ma tradendo Dokka e la bambina si era preso la piena responsabilità, aveva perso le ombre che lo avevano protetto.
Pochi secondi dopo aver bussato, la porta si aprì grazie all’ingegnoso sistema di apertura a pedale che Dokka aveva progettato con il nastro di una sega da legno, la ruota di un carrello della spesa e una staffa.
Dokka gli diede il benvenuto, lo fece entrare. Senza alcuna traccia di sospetto. Dokka – se ne rese conto con dolorosa evidenza – era l’unica persona a parte i Federali che parlava con lui. L’unica persona che tollerava la sua voce, che lo ascoltava e gli rispondeva, e fu in quel momento – se ne sarebbe reso conto in seguito – che l’universo diventò silenzioso. Avrebbe potuto attribuire la pistola ad Achmed, a chiunque altro. Perché, proprio quell’unica volta, aveva detto la verità? Dokka lo invitò di nuovo a entrare. Solo allora, davanti alla sua ospitalità, all’amicizia e alla conversazione, Ramzan capì davvero perché si era inflitto quella visita.
«Oh no», disse Ramzan quando Dokka lo invitò a sedersi al tavolo della cucina. «Mi sono fermato solo per vedere se ti serviva della legna da ardere.»
«Me ne hai lasciata una catasta in cortile appena l’altro giorno.»
«Sì, lo so, volevo solo vedere se...» Si morse il labbro e gettò uno sguardo verso la soglia, consumata e segnata dai piedi di centinaia di profughi di passaggio. Avrebbe registrato anche i passi di chi quella notte sarebbe venuto a far sparire Dokka e sua figlia. Alzò lo sguardo verso gli occhi scuri di Dokka.
«Ti senti bene?» gli chiese Dokka. «Sembri malato.»
Mi dispiace, Dokka. Ma guardati. Mi dispiace tanto.
«Ramzan?»
“Sono passato per dirti addio” pensò. «Sono passato solo per salutarti» disse.