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Un’ombra si stagliò contro l’orizzonte bianco, riempiendo le maniche di un familiare soprabito blu. Due mattine prima, Achmed avrebbe fatto un cenno con la mano al suo amico e gli sarebbe andato incontro per salutarlo. Avrebbe camminato finché le ombre si fossero sollevate dal viso di Chasan e poi avrebbe camminato ancora, per levare la voce, senza paura né esitazione, fosse stato due mattine prima. Ma ci ripensò solo dopo essere scappato nel bosco per nascondersi dietro un tronco grigio largo solo la metà di lui. Si accovacciò alla base del tronco e inghiottì l’aria dell’alba e sperò che Chasan, un cecchino nella Grande Guerra Patriottica, non l’avesse visto scappare. Appoggiò il mento sulle mani. Era così che avrebbe dovuto vivere? Scappando nel bosco al minimo fruscio?

Tre colpi risuonarono sul tronco di betulla. «C’è nessuno in casa?» chiese il vecchio. Achmed si alzò e si voltò mestamente. Le sue impronte portavano dritte a quel tronco. Chasan avrebbe potuto rintracciarlo persino guardando attraverso un binocolo al contrario.

«Fa freddo per essere in giro così presto» disse Achmed. Non riusciva ad alzare gli occhi più in alto delle spalle di Chasan mentre tornavano verso la strada forestale. La sagoma del vecchio riempiva ancora il soprabito e teneva un peso da due chili per mano. A settantanove anni – vent’anni buoni oltre l’aspettativa media di vita di un russo, come lui spesso sottolineava – Chasan continuava a osservare il regime di esercizio fisico che aveva cominciato nell’esercito mezzo secolo prima. Cinquanta piegamenti, addominali e flessioni, più cinque chilometri di corsa che nel corso dei decenni aveva rallentato fino a una camminata.

«Mi sono congelato le palle in Polonia e nella Germania nazista e nel Kazachstan. Me le sono congelate in nove fusi orari diversi. E adesso?» Sospirò e si guardò tristemente l’inguine. «Adesso sono troppo vecchio per averne bisogno, perciò chi se ne frega se si congelano?»

Da bambino e poi anche da grande, Achmed era rimasto affascinato dalle storie dei sedici anni di odissea di Chasan. Per uno che non era mai stato a Groznyj, i viaggi di Chasan assurgevano a leggenda. Nel 1941 l’Armata Rossa gli aveva consegnato cinque proiettili e l’ordine di procurarsi un fucile tra i cadaveri. Con un fucile strappato alla presa di dita congelate a Stalingrado, si era fatto strada sparando attraverso Ucraina, Polonia e Germania. Si era estratto due pallottole dalla coscia sinistra, aveva perso tre amici per ipotermia, ammazzato ventisette nazisti a fucilate, quattro a coltellate, tre a mani nude, combattuto sotto cinque generali, liberato due campi di concentramento, sentito le voci di innumerevoli angeli nel riverbero di un’esplosione di mortaio, e cacato in un gabinetto del Reichstag, un momento che avrebbe commemorato per sempre la conclusione vittoriosa della guerra. Dopo gli anni di servizio era tornato in una Cecenia senza ceceni. Mentre lui combatteva e uccideva e cacava per l’URSS, l’intera popolazione cecena era stata deportata in Kazachstan e in Siberia sulla base delle accuse di collaborazionismo etnico con il nemico fascista lanciate da Stalin. Il suo comandante, al quale Chasan aveva salvato la vita due volte, avrebbe trascorso i trentotto anni successivi a fare il facchino alla stazione di Liski, dove la vista dei binari ferroviari che trafiggevano il sole all’orizzonte gli avrebbe rammentato quotidianamente la disgraziata mattina in cui aveva spedito Chasan, il soldato più formidabile al quale avesse mai avuto il piacere di sbraitare ordini, in Kazachstan su un treno zeppo di medici russi, prigionieri di guerra tedeschi, soldati dell’Armia Krajowa polacco ed ebrei. I genitori di Chasan non erano sopravvissuti alla deportazione e, quando nel 1956 – tre anni dopo la morte di Stalin – Chruščëv aveva autorizzato il rimpatrio dei ceceni, Chasan aveva dissotterrato i loro resti e se li era portati a casa nella sua valigia marrone.

«Da quanto mi hai raccontato,» disse Achmed «non si sono certo congelate perché non le usavi.»

Chasan sorrise. «Grazie al cielo le frontiere sono chiuse. Altrimenti sai quante Fräulein verrebbero a perseguitarmi in cerca di dote?»

Una luce violetta venava le nuvole. Achmed cercò qualcosa da dire, una frase che servisse da cima di salvataggio per tirarli fuori dal pozzo della scomparsa di Dokka. «Come va il libro?»

Chasan fece una smorfia. Domanda sbagliata. «Sto per rinunciarci» disse.

«Non si scriveva da solo?»

«È la storia che si scrive da sola. Non ha certo bisogno di me.»

«Ma è il tuo lavoro di una vita.»

«Il lavoro di una vita potrebbe anche essere ripulire dal piscio la tazza di un cesso. Non è che un lavoro abbia più senso solo perché passi una vita a farlo.»

Per quarant’anni Chasan aveva scritto e riscritto i sei volumi, tremilatrecento pagine, del suo saggio storico sulla Cecenia. Achmed era un bambino quando aveva visto le pagine per la prima volta. Dopo che il cancro aveva mandato sottoterra sua madre, lui e il padre erano stati invitati tutte le settimane a cena da Chasan, nella casa di tre stanze che il padre di Chasan aveva costruito in un’epoca in cui ancora ci si aspettava che gli uomini coltivassero il loro grano, allevassero le loro pecore e si costruissero le loro case. Una stesura parziale, conservata in otto scatole sotto la scrivania di Chasan, era vergata nel corsivo meticoloso di una lettera di condoglianze. Achmed l’aveva trovata un pomeriggio, mentre suo padre e Chasan erano seduti fuori a spettegolare come due comari sotto il sole di giugno.

Ogni pomeriggio, quando Chasan era in città a insegnare all’università, Achmed si intrufolava in salotto e rubava una pagina. La leggeva la sera, dopo aver fatto i compiti, e il giorno dopo la scambiava con la pagina successiva. Chasan aveva cominciato la sua storia in un’epoca anteriore all’umanità, quando flora e fauna della Cecenia vivevano in un egualitarismo privo di classi. In venti pagine di trattazione della geologia del Caucaso, Chasan dimostrava che rocce e suolo aderivano allo stesso modello di materialismo dialettico propugnato da Marx. Una spiegazione di sette pagine della selezione naturale paragonava i kulàki a una specie che non era riuscita a adattarsi ai cambiamenti ambientali. Achmed aveva letto in totale settantatré pagine, arrivando appena al neolitico, prima che Chasan si accorgesse che ne mancavano alcune: le tre che Achmed aveva perso, le due che aveva usato per farci degli aeroplanini di carta e quella – una descrizione della foresta di Eldár prima che l’uomo inventasse la motosega – che gli era piaciuta troppo per restituirla. Convinto che il colpevole fosse un informatore della polizia segreta, Chasan aveva bruciato l’intero manoscritto nella stufa a legna.

«Ma devi finirlo» insistette Achmed, dubitando che Chasan dicesse sul serio. Il Chasan ossessionato da un libro di storia che, anche se pubblicato, nessuno avrebbe mai letto, era l’unico Chasan che conosceva. Chasan non sarebbe apparso più inverosimile se avesse rinunciato alle proprie gambe.

«Hai ragione» disse Chasan. Le labbra socchiuse rivelavano una chiostra di denti del colore dell’olio per friggere. Quel dentista tanto innamorato dei denti delle sue giovani pazienti non riusciva a guardare per più di pochi istanti nella bocca di un vecchio senza provare un senso di repulsione e tradimento; non aveva mai detto a Chasan di usare il filo interdentale. «E mi dispiace tanto, Achmed. Per Dokka.»

«L’hanno portato alla Discarica?»

Chasan scrollò le spalle incurvate. Conoscevano entrambi la risposta, ma questo non rendeva più facile ammetterlo. «Non lo so. Non so niente.»

«Potresti chiedere a Ramzan...» Chiedergli cosa? Ramzan non aveva risposte; l’oscurità in cui camminava era ancora più buia della loro. «Non puoi chiedergli di lasciar stare la bambina? Se n’è andata.»

«Ramzan non sente la mia voce da un anno, undici mesi e tre giorni, da quando si è messo a fare l’informatore. Ho contato ogni giorno di silenzio. Sarà stupido, lo so, ma il silenzio è l’unica autorità che mi resta.»

Ognuno guardò oltre l’altro, verso il bosco che si allargava ai due lati della strada, imbarazzati e vergognosi. «Sono un reietto. Il padre di un informatore» continuò Chasan. «Tu e mio figlio siete gli unici del paese cha ancora si degnano di parlare con me, e io non posso parlare con lui. In un anno, undici mesi e tre giorni le sole conversazioni le ho avute con te. Tu mi parli ancora. Perché?»

Achmed si concentrò sugli alberi. Non lo sapeva. Non sapeva che, dopo essere tornato a casa quella mattina, Chasan avrebbe scritto quello che ricordava della loro conversazione in una stenografia indecifrabile per suo figlio, o che più tardi Chasan l’avrebbe riletto in silenzio, senza pronunciare una sola parola ad alta voce, e persino sulla pagina il loro scambio avrebbe sollevato la coltre del silenzio come i pali di una tenda. Sapeva solo che Chasan era suo amico, un brav’uomo, cose rare quanto una nevicata in maggio.

«Hai appena cercato di sfuggirmi» disse Chasan prima che Achmed potesse rispondere. «Lo capisco, mio figlio è debole e crudele. Va bene così. Sai, ultimamente ho ripensato alla festa del Sacrificio. Nei campi di reinsediamento la celebrammo in segreto, sacrificando un cane selvatico anziché un agnello. Mi domando se a Ibrahim sudassero le mani mentre accompagnava il figlio sulla cima del monte. Gli aveva raccontato che andavano a fare una passeggiata? Si era portato dell’acqua? Credo che abbia fissato il coltello finché il suo riflesso è diventato parte della lama. Credo che il sollievo abbia rimpiazzato l’orrore quando ha sfoderato il coltello e riconosciuto la propria faccia. Doveva sapere che quello che stava per fare era così importante da essere già diventato ciò che lui era, e aveva così offerto sia il figlio sia se stesso alla lama del kinžal

Chasan si piegò in due e premette le mani nude nella neve. Poi le affondò fino agli avambracci, in quella che a un estraneo sarebbe potuta sembrare una dimostrazione di resistenza, ma in realtà era, Achmed lo sapeva, un suo personale rito di contrizione. Aveva un’espressione così distrutta che Achmed non riusciva neppure a guardarla, figuriamoci a capirla, figuriamoci a rasserenarla. «Cammina su tutt’e due i lati della forestale, in modo che non possano seguire le mie tracce» disse Achmed. «Starò via tutto il giorno. Assicurati che nessuno sappia dove vado. Fallo.»

La testa di Chasan fece segno di sì. Raccolse due manciate di neve e se le premette sugli occhi. Rivoli di neve sciolta gli colarono sui polsi. «Non è poi così difficile credere alla volontà di Ibrahim di sacrificare suo figlio. Suo figlio era innocente. È molto più difficile quando sai cosa ti farebbe tuo figlio se sopravvivesse. Quando sai cosa succederebbe se un angelo ti strappasse il coltello di mano.»

Falange distale, falange prossimale, metatarso, cuneiforme medio, scafoide, astragalo, calcagno. Achmed recitava le ossa dell’alluce risalendo verso la caviglia mentre camminava verso l’ospedale. Prima di uscire quella mattina aveva strappato una mezza dozzina di diagrammi dal suo vecchio testo di anatomia e si era messo a studiarli mentre camminava, alzando gli occhi a intervalli di pochi secondi per controllare che non ci fossero mine. Sarebbe stato pronto per gli eventuali quiz di Sonja. Il sole si era alzato del tutto quando entrò nell’ospedale e la guardia, il cui braccio sinistro finiva al gomito, lo fermò.

«Adesso?» chiese esasperato. «Sono arrivato quasi in Turchia scansando i posti di blocco.»

Il polsino della manica sinistra della guardia era cucito contro la spalla. La barba sottile che gli calava dal mento sembrava la coda di uno scoiattolo caduto in letargo nella sua bocca. «Deve togliere le schegge di vetro dalle suole» gli disse la guardia.

«Non si preoccupi» disse Achmed. «Sono il dottore.»

«No, il dottore è Sonja» lo corresse la guardia monca. «Lei è il cretino con le schegge di vetro sotto le suole delle scarpe. Adesso si sieda sulla panca, prenda quelle pinze e si tolga le schegge di vetro, se vuole entrare nell’ospedale.»

Nessuno poteva attraversare la città senza ritrovarsi con una vetrata intera incastrata nelle suole delle scarpe, e la guardia, che per diciotto durissimi mesi aveva combattuto con i ribelli e aveva assistito e partecipato a ogni genere di orrori, aveva il terrore di Sonja e di quello che avrebbe potuto fare se avesse trovato schegge di vetro in giro per l’ospedale. Osservò Achmed estrarre quattordici schegge e depositarle in un posacenere.

Achmed sospirò, mortificato. Il suo primo giorno come medico ospedaliero non cominciava bene. «Mi dica» chiese accennando al moncherino della guardia. «Le pagano metà stipendio?»

La guardia, a trentun anni, non aveva mai ricevuto uno stipendio, e non avrebbe saputo che farsene anche se gliel’avessero dato; tre anni dopo, quando l’ospedale avesse ripreso a pagare gli stipendi cominciando con un colossale arretrato di nove anni, la guardia avrebbe incorniciato il suo assegno e l’avrebbe appeso alla parete senza neppure depositarlo. Per il resto della vita non si sarebbe mai fidato dei numeri scritti sulla carta. «Dovrebbero pagarmi più di quanto paghino lei» disse la guardia sorridendo. «Persino io eviterei di dare un questionario da riempire a un paziente che non risponde agli stimoli.»

Il rossore di Achmed non si era ancora attenuato quando spinse il doppio battente. La testa di Havaa gli affondò nello stomaco come una palla di cannone.

«Sei tornato!» esclamò, senza fiato per la corsa attraverso la stanza. Achmed le passò le dita fra i capelli castano chiaro, quasi lo stesso colore del dorso della sua mano. Era così preso dalla terminologia anatomica che si era scordato di lei, e quando le braccia della bambina lo serrarono alla vita come un laccio emostatico, la stretta gli fece rallentare il respiro. Lei non lo aveva dimenticato neppure per un attimo.

«Ma certo che sono tornato. Dove volevi che andassi?»

«Lui è...» cominciò la bambina e Achmed le strinse la spalla nel modo più confortante possibile.

«Resteremo tutti e due qui un altro po’, va bene?»

«Credo di sì» disse lei. Allentò la stretta e fece un passo indietro, mentre l’entusiasmo iniziale sembrava defluirle dal viso. La valigia azzurra era accanto alla sedia pieghevole dov’era seduta.

«Avevi in mente di andare da qualche parte?»

«Casomai dovessimo tornare a casa» disse lei. Achmed le strinse di nuovo la spalla, ma il gesto era futile e vano, serviva solo a riconfermare l’inettitudine che lei gli attribuiva.

«Com’è andata la nottata?» le chiese sperando di tirarla su di morale. «Sonja si è trasformata in un pipistrello al tramontare del sole?»

Lei fece segno di no.

«Ne sei sicura?»

«Sì» disse Havaa abbassando la voce a un sussurro. «È solo diventata noiosa. Non la smetteva più di parlare della sua macchina del ghiaccio. E mi ha chiamata solipsista.»

Achmed attraversò con lei la sala d’attesa fino alla parete dov’erano allineate le sedie pieghevoli con la vernice scrostata, e si sedettero vicini. Havaa si tirò in grembo la valigia azzurra e la strinse fra le braccia. «Vuoi che la riporti in camera tua?» si offrì. Lei rifiutò con un cenno lento e scoraggiato della testa, raddrizzò la valigia e l’abbracciò stretta. «Sai cosa dovresti fare?» le disse girandosi verso di lei. «Dovresti insegnare alla guardia che c’è giù di sotto a fare il giocoliere.»

«Ma se ha un braccio solo.»

«Però gli piacerebbe tanto imparare. Avere un braccio solo lo mette in imbarazzo, quindi all’inizio rifiuterà. Ma tu devi insistere.»

«So essere insistente» disse lei.

«Ah sì?»

«Mio padre dice che l’insistenza è un modo gentile per essere irritante.»

«E tu sei brava in questo, vero?»

Con un lieve sorriso, Havaa ammise la sua notevole abilità. Ma il sorriso che Achmed aveva tanto faticato a ottenere si afflosciò quando il doppio battente di traumatologia si aprì e apparve Sonja. Ogni passo produceva un acciottolio dalla casacca bianchissima. Negli occhi aveva una ragnatela di venuzze rosse. «È in ritardo» sbottò Sonja, senza badare minimamente all’importante attività che si stava svolgendo fra loro, sulle sedie della sala d’attesa.

Achmed inarcò un sopracciglio all’indirizzo di Havaa e poi seguì Sonja in un corridoio ammantato di pesanti miasmi d’ammoniaca. Lei svoltò nella mensa del personale dove, in un angolo, borbottava la famosa macchina per il ghiaccio.

C’erano lenzuola e teli stesi su un filo da bucato e lucenti strumenti chirurgici sobbollivano in pentole d’acqua. Il nastro adesivo copriva i vetri delle finestre, e le luci d’emergenza sopra di loro gettavano un chiarore azzurrognolo sulle pareti. Persino in stato di guerra, Achmed si era aspettato che l’Ospedale n. 6 fosse in condizioni migliori.

«Stanotte è andato tutto bene con Havaa?» chiese.

Sonja non si voltò verso di lui. «Diciamo che non ha molta esperienza come ospite» disse lei tastando i panni stesi per sentire se erano asciutti. Gli porse una casacca da ospedale presa in fondo al filo. Ancora umida.

«E quella che avevo ieri?» chiese lui. «L’avevo lasciata in un armadio in fondo al corridoio.»

«No, la tenuta ospedaliera dev’essere pulita. Ed è altrettanto importante che sia bianca.»

«Perché bianca?»

Sonja si appoggiò alla parete e infilò le mani nelle profondità cavernose dei calzoni bianchi. Lui si concentrò sulla sua faccia, come se si preparasse a farle un ritratto – gli angoli, i rapporti e le proporzioni dei suoi lineamenti – tutto pur di non doverla guardare negli occhi.

«L’apparenza è importante quanto tutto quello che facciamo. I nostri pazienti devono essere convinti che operiamo proprio come si farebbe in un ospedale di Omsk» disse lei e, affondando la mano fino al gomito, estrasse di tasca una sigaretta.

«Cioè la percezione della professionalità è più importante dell’essere professionali?» Era un’idea che avrebbe anche potuto appoggiare.

Lei sollevò il mento per soffiare un filo di fumo verso il soffitto. «Siamo in tre a mandare avanti un ospedale che richiederebbe un organico di cinquecento persone. Dobbiamo apparire dei professionisti di grande esperienza, perché è l’unico modo per convincere la gente che lo siamo davvero.»

«Perciò ora, visto che lei sta fumando e io no, sarei io il più professionale dei due?»

Adesso che non era a sue spese, la risata di Sonja gli sembrò più gradevole, e la guardò compiaciuto spegnere la sigaretta in una pozza d’acqua che si era raccolta sotto il filo per stendere e buttare il mozzicone nel cestino dei rifiuti. «Lei cammina due passi più avanti della sua ombra.»

«A proposito, stavo pensando che, visto che è il mio primo giorno, forse sarebbe meglio che non cominciassi subito a lavorare da solo con i pazienti.»

«Potrebbe essere la migliore idea che abbia mai avuto» disse Sonja porgendogli anche i calzoni della divisa. Quando lui cominciò a spogliarsi, se la prese comoda a voltarsi dall’altra parte.

I pazienti cominciarono a sfilare nel reparto traumatologico – un ragazzo con una cavernosa tosse tubercolotica, una vecchia alla quale avevano preso fuoco i capelli, due ragazzi che si erano distrutti la faccia a botte per disputarsi la proprietà di un apparentemente fortunato artiglio di gallo – e Achmed, grato, non si occupò di nessuno di loro. Poteva anche essere bello ritrovarsi di nuovo fra gli auricolari di uno stetoscopio, ma era molto meglio ritrovarsi in mensa, dove non poteva capitargli niente di peggio di un cruciverba di Deši. Trascorse la mattinata seguendo proprio lei; annuiva cortesemente quando Deši accusava i russi di tutti i mali del mondo e anche di qualcuno – i vulcani, l’inverno, le sue anche artritiche – che cadeva più precisamente sotto la giurisdizione di Dio.

«Potessimo, daremmo la colpa ai russi anche della stitichezza» disse.

«Io lo faccio già: le fibre alimentari sono così rare.» Deši pescò un paio di calzoni marroni da una pila sul pavimento e ne svuotò le tasche sul bancone. Ne fuoriuscì una cascata di foglietti ripiegati, spiccioli, chiavi, tesserini di plastica e laniccio. Fece scivolare tutto nella spazzatura, tranne la carta d’identità e gli spiccioli.

«Niente di buono qui?» chiese lui. Era il quattordicesimo paio di calzoni che Deši faceva passare sul bancone quella mattina, il quattordicesimo che frugava alla ricerca di soldi, sigarette, qualunque cosa il defunto non si fosse preso la briga di usare prima di andarsene per la sua strada. «Magari un biglietto aereo?»

«Un biglietto aereo.» Deši agitò la mano a scacciare persino il fiato che trasportava una domanda così stupida. «E per andare dove?»

«Che ne so? Groznyj.»

«Groznyj?» Lo fissò a bocca aperta. Ogni sabato, dal 1976 al 1978, Deši si era incontrata con il settimo dei suoi dodici grandi amori, un geologo petrolifero, nella suite del Groznyj Inturist Hotel, fino al sabato sera in cui, entrando, lo aveva trovato occupato con un’altra infermiera; non avrebbe mai perdonato la città per aver dato ricetto a quell’uomo. «Ma dice sul serio?»

«Non sono mai stato a Groznyj» disse Achmed.

«Ma se questo tizio avesse potuto scegliere, sarebbe andato a Groznyj?»

«Non ci sono mai stato in vita mia» rispose lui a voce bassa. Nei quindici anni dopo la facoltà di medicina si era dimenticato quanto fosse grande il mondo oltre il suo paesino, quanto fosse provinciale e insignificante la sua vita meschina se paragonata a praticamente tutto il resto. Deši, che a giudicare dal tono di disapprovazione non si sarebbe lasciata impressionare da niente di meno di una circumnavigazione del globo, fu svelta a ricordarglielo.

«Incredibile» sospirò la donna, e gli voltò le spalle. Diede un’occhiata alla carta d’identità per vedere se quei pantaloni appartenevano per caso a qualcuno che conoscesse, poi la gettò in una scatola da scarpe che ne conteneva già molte altre decine. Un gesto semplice, poco più di un guizzo delle dita, compiuto senza cattiveria né disprezzo ma con il più assoluto disinteresse, che trafisse Achmed come una lama nel burro. Nella sua indifferenza vide la realtà di un mondo in cui non voleva credere, in cui un essere umano poteva venire eliminato come il laniccio nelle tasche. Ma già Deši non gli prestava più attenzione. «Groznyj» borbottò. «Un dottore idiota e pure di mente ristretta. Facile che prescriva bacche di kalina per la polmonite. E quella specie di doccione che ha al posto del naso: lungo abbastanza da tenergli i piedi all’asciutto quando piove.»

Deši rivoltò i calzoni e li distese sul banco; una specie di tasca sporgeva dalla cucitura interna della gamba, appena sotto il ginocchio, chiusa con filo nero. Fece scorrere la lama di un rasoio lungo l’imbastitura e tirò fuori qualche banconota spiegazzata e un foglietto di carta ripiegato. Ad Achmed si strinse lo stomaco quando le vide fare il gesto di gettare via il foglietto. «Aspetti» disse. Sapeva cosa c’era scritto, sapeva che era scaduto il tempo per soddisfare qualsiasi ultima richiesta, ma lo chiese lo stesso. «Cosa dice il biglietto?»

Deši si accigliò. «“Via Venticinque Ottobre 90, Šali”» lesse. «“Rimandatemi là per la sepoltura”. Troppo tardi, amico mio. Il biglietto, avresti dovuto fartelo cucire all’esterno dei calzoni.»

«Dov’è il corpo?»

«Già fra le nuvole. Lo so che è un sacrilegio, ma ormai quasi tutti i cadaveri non reclamati vengono cremati. Non c’è verso di trovare un sacco portasalme, ultimamente. Li requisiscono i Federali, per usarli come banja da campo quando sono di servizio. La cosa più bizzarra che mi sia capitato di vedere: trecento soldati nudi come il giorno in cui sono venuti al mondo che si raggomitolano in sacchi di plastica neri riempiti di vapore – se lo procurano rovesciando acqua fredda sulle pietre arroventate nel fuoco. Giusto un russo può trovare piacere in un sacco portasalma.»

Quando Deši ripiegò il biglietto e lo gettò nel cestino, Achmed provò l’impulso di allungare la mano per catturare quel rettangolino di carta prima che si perdesse tra le ultime parole di un’altra ventina di persone morte lontano dalle loro case, gettate nei forni da estranei, sepolte nelle nuvole e che non sarebbero più tornate ai loro paesi se non con la prossima nevicata. Anche Achmed aveva il suo indirizzo su un foglietto cucito all’interno della gamba sinistra dei calzoni: gli batteva sulla gamba a ogni passo, in attesa dell’anima pia che un giorno l’avrebbe riportato a casa, se mai fosse morto lontano.

«Come si chiama?» chiese. Quell’uomo aveva una sorella a Šali che avrebbe dato la sua agenzia di viaggi – ormai nient’altro che un nome un tempo di prestigio –, i suoi suoceri e nove decimi della sua anima immortale pur di stringere fra le mani il biglietto che giaceva adesso in fondo al cestino, anche solo per rispettare l’ultimo desiderio del fratello al quale rimpiangeva di aver dato così poco in vita.

Nella scatola da scarpe, le carte d’identità si sovrapponevano in otto strati. Deši ne pescò una e la osservò sotto la luce, poi la rimise a posto. «È uno di questi» disse.

Mentre Sonja trascorreva il pomeriggio in chirurgia, Achmed trascorse il suo nella mensa, a ripiegare lenzuola che presto riempirono i cesti di vimini della lavanderia. All’inizio aveva protestato, lagnandosi di un incarico che andava bene per una serva, finché Sonja gli aveva rammentato che era l’unico incarico per il quale fosse qualificato. Piegando i teli immaginava la moglie distesa su un lenzuolo più grigio, la testa appoggiata sul preferito tra i loro due cuscini, quello di gommapiuma spessa che a lui faceva venire i crampi al collo le rare volte che si addormentavano condividendolo. Se ne avesse avuto la forza, avrebbe potuto sollevare uno dei libri d’arte dalla pila accanto al letto. Quei volumi dalle rigide copertine telate racchiudevano mondi di statue di marmo, xilografie, ninfee, bouquet di fiori, generali da tempo defunti e placidi paesaggi in cui passeggiavano aristocratici dai buffi copricapi. La sera le raccontava quelle scene come se lei sapesse di cosa stava parlando, inventava biografie per ogni ritratto, intrighi per ogni sguardo incorniciato. Da quando aveva cominciato a disertare le lezioni di patologia del primo anno per seguire invece quelle di disegno dal vero, aveva conservato un durevole interesse per l’arte e, per essere uno che non era mai stato a Groznyj, aveva accumulato una rispettabile collezione di libri d’arte. Ogni mattina riordinava la pila, affinché il primo libro che capitava in mano a Ula fosse sempre nuovo per lei.

Finì di piegare il lenzuolo e lo mise insieme agli altri. Quand’era che le aveva cambiato le lenzuola? Almeno dieci giorni. Le succedeva di rado di spostarsi dalla sua metà del letto e, quando la trasportava sul divano del salotto e toglieva le lenzuola, trovava l’impronta bruna della sua sagoma che il sudore aveva impresso sulla tela. Quell’ombreggiatura muschiata era così intimamente, innegabilmente Ula che Achmed aveva un attimo di esitazione prima di lavarla via. Però poi, rimproverandosi per l’eccesso di sentimentalismo, riempiva il catino con la saponata e metteva a mollo la sindone, guardandola scomparire. La stava perdendo in maniera incrementale. Potevano essere pochi capelli appassiti sul cuscino, le lunette delle unghie che si mangiava e gettava dietro la testiera, una sagoma scura che si dissolveva nella saponata. Come una tela non è altro che una serie di buchi intessuti insieme, loro erano legati da qualcosa che non c’era più. Pasti non più preparati o consumati, nient’altro che pochi fogli con le ricette più semplici, ammucchiati sopra il fornello. Passeggiate non più passeggiate, boschi estivi e sottobosco non più percorsi dai loro stinchi. Litigi non più litigati; niente più scommesse, da vincere o perdere. Niente sesso, desiderato, immaginato, o rimpianto. La malattia aveva restituito alla moglie un’innocenza che lui non voleva inquinare. E il calore della carne di Ula che racchiudeva la sua era un frammento di vita ormai svincolato dai ricordi di entrambi.

Tutto era cominciato alla fine della primavera del 2002, un anno dopo la začistka che aveva reclamato le vite di quarantuno compaesani, la mattina che Ula aveva continuato a dormire ben oltre l’ora di colazione. «Non mi sento bene» aveva borbottato, e lui le aveva posato il tè sul comodino. Avesse saputo che era la prima di centinaia di tazze che avrebbe posato sul comodino, l’avrebbe fatto più amaro. Le aveva controllato la temperatura, il polso e la pressione: tutto normale. Gli occhi erano limpidi, il colorito buono. Quando gliel’aveva chiesto, lei non era riuscita a fornire una descrizione coerente del suo malessere. Era come se una rotella staccata rotolasse in giro dentro di lei, migrando dalla caviglia al ginocchio al fianco e ritorno. Certi giorni tutto il dolore era localizzato nelle dita dei piedi. O in quelle delle mani. O nei gomiti. O nella schiena. Alla fine si era piazzato da qualche parte fra il petto e lo stomaco, e di lunedì colava verso le gambe. Il dolore è sintomatico più che causale, lo sapeva persino lui, e l’unica conclusione possibile era che la malattia della moglie avesse origine nella mente. Ma pur non credendo che fosse fisicamente malata, non poteva negare la realtà della sua sofferenza. Un anno prima la začistka aveva eliminato un terzo del paese. Gli angeli erano discesi. I profeti avevano parlato. La verità era solo una delle molte allucinazioni.

Per le prime settimane aveva resistito all’impulso di portarla all’Ospedale n. 6. Poteva anche essersi laureato fra gli ultimi della sua classe, ma era pur sempre un medico abilitato, e anche un medico passabile, anche se non sempre sapeva quello che faceva. Cosa avrebbe detto la gente se avesse saputo che non riusciva a fare una diagnosi a sua moglie? Già i suoi pazienti gli pagavano di rado la parcella; se si fosse sparsa la notizia della sua inettitudine, loro due sarebbero morti di fame. Però era trascorso un mese senza declino né miglioramento e quella condizione statica, quel purgatorio senza progressione, lo convinsero infine che la malattia della moglie superava le sue capacità. Per tre volte si erano avventurati a Volčansk con il camioncino rosso di Ramzan, ma i posti di blocco dell’esercito presidiavano ogni accesso alla città. Aveva fantasticato e disegnato sul suo blocco per gli appunti diversi sistemi per trasportarla fino alla meta: una portantina, un tunnel, un aquilone abbastanza grande da sollevarla con il letto e tutto. Dopo il quarto tentativo, quando la scheggia di un proiettile d’artiglieria aveva fatto scoppiare uno pneumatico a Ramzan a dieci metri da casa, ci aveva rinunciato. E comunque, cosa avrebbero detto i medici dell’ospedale? Con tutte quelle ferite vere di cui occuparsi, avrebbero liquidato Ula e il suo malessere fantasma. Il solo pensiero di vederla costretta a difendere il suo dolore gli faceva serrare i pugni.

Per otto mesi e mezzo si era preso cura di lei con devozione paterna. Ma ogni mattina, mentre le posava la tazza di tè sul comodino, si chiedeva se la privazione fisica avrebbe potuto ridare vita alla mente sofferente e così, dieci giorni prima che Dokka perdesse le dita, Achmed aveva lasciato la tazza di tè in cucina. Col procedere della giornata, Ula lo aveva chiamato per nome, richiami sempre più confusi e disperati a ogni ripetizione, finché il suo nome non era più stato suo, ma solo un’espressione di dolore assoluto. Incapace di sopportare quei richiami, era rimasto con la moglie e la figlia di Dokka per tre notti. La mattina del quarto giorno era tornato e l’aveva trovata sul pavimento della camera. Un primo accenno di piaghe da decubito le arrossava le scapole. In quel momento aveva acquisito la consapevolezza che avrebbe trascorso il resto della vita a espiare quegli ultimi tre giorni, e che il resto della vita non sarebbe stato sufficiente. L’aveva sollevata da terra e rimessa a letto. Le aveva portato un bicchiere d’acqua dalla cucina, poi altri cinque. «Non dovrai alzarti mai più» le aveva promesso. Aveva posato la testa sul petto di Ula e aveva sentito il suo cuore contro la tempia. «Achmed» gli aveva detto lei. «Achmed.» Adesso il suo nome era una ninnananna.

Non aveva mai più tentato di costringere Ula a guarire. Sarebbe passato. Tutto passava. Ma quando svuotava la padella in cortile, o le lavava i denti nonostante le sue proteste, le ultime braci del risentimento covavano ancora. Se n’era andata ma era ancora lì, il dolore fantasma della moglie che la guerra gli aveva amputato e, incapace di piangerla o di amarla, se ne prendeva cura e la invidiava. E così il giorno prima, offrendosi di lavorare all’ospedale finché non fosse stato possibile trovare un’altra sistemazione per Havaa, aveva sperato che Sonja accettasse, tanto per il bene della bambina quanto per il suo. Quella mattina, quando aveva lasciato sola Ula con quattro bicchieri d’acqua e una ciotola di riso tiepido sul comodino, aveva chiuso la porta a doppia mandata e si era inoltrato nel gelo dell’alba con la certezza che il futuro di Havaa fosse più importante di quello della moglie, e aveva scarpinato per undici chilometri attraverso un giuramento infranto che solo la vita di una bambina poteva giustificare.

Dopo aver posato in cima alla pila l’ultimo lenzuolo, si chinò sotto il filo per stendere e aprì l’armadio. I suoi calzoni erano ripiegati sullo scaffale più basso. Lungo la cucitura interna della gamba ritrovò il gonfiore familiare. Se mai fosse morto lontano da casa, si augurava che a trovarlo fosse un’anima più gentile di Deši.

«Domani andremo a Groznyj» annunciò Sonja entrando decisa nella mensa e fermandosi a controllare i bisturi che Achmed aveva fatto bollire.

«Gliel’ha detto Deši?» chiese lui, incapace di nascondere il panico che gli si gonfiava dietro agli occhi. «Stavo solo scherzando. Ovviamente userei il biglietto aereo per andare da qualche altra parte. Tbilisi, perfino Istanbul.»

«Li ha fatti bollire per dieci minuti?»

«Sta scherzando, vero?»

Fece un gesto nella sua direzione con la lama del bisturi, un po’ troppo disinvolta per la tranquillità di Achmed. «Sul farli bollire dieci minuti? Mai stata più seria.»

«No, su Groznyj.»

«Li ha fatti bollire per dieci minuti, sì o no?»

«Sì, ma andiamo davvero a Groznyj?»

Sonja aggrottò la fronte, sembrava pensare che era lui quello che parlava per indovinelli.

«Basta con le domande» gli disse. «In bocca a lei, un punto interrogativo diventa un’arma pericolosa.»

«Allora ci andiamo?»

Sospirò, sconfitta. «Sì.»

«Perché?»

Tirò fuori un accendino dalla tasca. «Lei fuma?»

«Sono un ottimo fumatore di sigarette.» Erano passate sette settimane dalla sua ultima sigaretta, e altri due mesi dalla penultima, e tecnicamente si era trattato di papirosi, cilindri di cartoncino senza filtro riempiti di tabacco forte che gli avevano lasciato la nausea per il resto della giornata.

Forse ispirata dal precedente sfoggio di professionalità di Achmed, Sonja aspettò che avessero raggiunto il parcheggio prima di accendere. Gli passò il pacchetto quadrato. Lui l’alfabeto latino lo conosceva, ma non lo usava da anni. «Duh...»

«Dunhill» disse lei.

Ne scelse una dalle due file erette e si chinò sull’accendino di Sonja. La prima boccata gli scivolò nei polmoni senza l’asprezza da sverniciatore delle ultime due che aveva fumato; Achmed rimase a fissare la brace che bruciava lentamente, ammirando la qualità del tabacco e la qualità della fiamma, piacevolmente sorpreso di non sentirsi male. «Queste dove le ha prese?» chiese.

«A Groznyj.»

«Ci andiamo per prendere le sigarette?»

Lei sorrise. «Non ci posso credere, che davvero userebbe un biglietto aereo per andarci.»

«Non ci sono mai stato.»

«Straordinario.»

«Allora perché ci andiamo?»

Sulla strada, più avanti, il fianco di un palazzo era crollato schiacciando tutte le auto di un parcheggio. Achmed aveva trentanove anni e aveva sperato, a quell’età, di possedere un’auto.

«Ci vado una volta al mese per i rifornimenti» disse Sonja. «Quasi tutto quello che abbiamo all’ospedale arriva tramite un tizio che conosco a Groznyj, che ha contatti con l’esterno. Ne approfitto anche per telefonare a un amico che vive a Londra e mi aggiorna su quello che succede nel mondo.»

«Come va là fuori?» le chiese. In quel momento il mondo esterno era giusto una voce incontrollata, un miraggio che cominciava al confine. Trentadue anni prima, nell’aria rancida dell’aula delle elementari – nell’isolato delimitato da un impianto di trattamento dei liquami e da un bordello per taglialegna – la sua insegnante di geografia si aspettava che lui credesse a una terra fatta come un pallone da calcio. Era stato il primo della sua classe ad accettarlo, non perché sapesse qualcosa della gravità, ma perché quel pomeriggio l’aria era più nauseabonda del solito e lui voleva andarsene. Per il resto della sua carriera, quell’insegnante di geografia si era vantata di essere stata la prima a riconoscere la predisposizione di Achmed per le scienze.

«Il mese scorso mi ha detto che George Bush è stato rieletto» disse Sonja.

«E chi è?»

«Il presidente americano» disse Sonja distogliendo lo sguardo.

«Credevo che il presidente fosse Ronald McDonald.»

«Non dirà sul serio.» Rieccola, una degnazione così spessa che avrebbe potuto spalmarla sul pane. Sua madre era l’unica altra donna capace di parlargli in quel modo, e solo quando era piccolo... e solo quando non mangiava i cetrioli.

«Non era Ronald McDonald che ha detto a Gorbačëv di buttare giù il Muro?»

«Lei sta parlando di Ronald Reagan.»

«Questi nomi inglesi sembrano tutti uguali.»

«È stato quindici anni fa.»

«E allora? Brežnev è stato segretario generale per diciotto.»

«Da quelle parti non funziona così» spiegò lei. «Fanno le elezioni a intervalli di pochi anni. Se il presidente non le vince, un altro diventa presidente.»

«Assurdo.» Il vento sollevò la cenere dalla sua sigaretta e la disperse nel parcheggio deserto.

«E può restare presidente al massimo per dieci anni» aggiunse lei.

«E poi? Diventa primo ministro per un po’ e poi si ripresenta alle elezioni per diventare presidente?»

«Credo che si debba ritirare e basta.»

«Intende dire che dopo appena dieci anni Ronald Reagan si è ritirato?» chiese Achmed. Lo stava di sicuro prendendo in giro.

«Si è ritirato e George Bush è diventato presidente.»

«E poi George Bush ha sparato a Ronald Reagan per impedirgli di riprendere il potere?»

«No» disse lei. «Credo che fossero amici.»

«Amici? C’è da chiedersi come abbiamo fatto a perdere la Guerra Fredda.»

«In effetti.»

«E quindi George Bush è diventato presidente dopo Ronald Reagan?»

«Ce n’è stato un altro nel mezzo. Clinton.»

«Il donnaiolo. Me lo ricordo» disse lui, compiaciuto. «E poi è ridiventato presidente George Bush?»

«No. Il George Bush che è presidente adesso è il figlio del primo George Bush.»

«Ah, ecco perché non sparano al presidente che li precede. Sono tutti imparentati. Come i Romanov.»

«Una cosa del genere» disse lei distratta.

«E allora chi è Ronald McDonald?»

«Sa una cosa, Achmed?» disse Sonja guardandolo per la prima volta dopo diversi minuti. «Lei comincia a piacermi.»

«Non sono un idiota.»

«È stato lei a dirlo, non io.»

Un’esplosione si propagò da est, un’onda lunga che percorse il cielo.

«Una mina» commentò lei, come se non fosse niente di più di un colpo di tosse. «Meglio andare.»

Achmed lasciò cadere la sigaretta senza finirla – la prima volta che lo faceva in sei anni – ed evitò con cura le schegge di vetro seguendola verso l’ingresso.

«Domani mattina, prima di venire, si cucia le tasche dei pantaloni» lo avvisò. «Per arrivare a Groznyj dovremo superare una dozzina di posti di blocco e con quella barba sembra un fondamentalista. Non voglio che i soldati le infilino qualcosa in tasca.»

Achmed guardò le nuvole prima di seguirla nel corridoio. Anche se avesse trovato un biglietto aereo, non sarebbe servito a niente: erano passati dieci anni e mezzo dall’ultima volta che aveva visto in cielo un volo commerciale.

L’uomo che avevano trascinato nella sala d’attesa non era la prima vittima di una mina che Achmed avesse visto, neanche la prima accompagnata da una donna incomprensibile, e neppure la prima che avesse visto trascinare su una tela cerata che si lasciava dietro una scia viscida e scarlatta; non era il primo uomo che Achmed avesse visto contorcersi come uno spaghetto solitario in una pentola d’acqua bollente, neanche il primo che avesse visto con mezzo stinco ancora attaccato alla gamba solo con un brandello di tendine. Ma quando Achmed vide quell’uomo, fu come vedere la prima vittima per la prima volta: non riusciva a pensare, non riusciva a muoversi, riusciva solo a restare paralizzato dallo shock mentre l’aria dove avrebbe dovuto esserci la gamba dell’uomo riempiva il pavimento e la stanza e la sua bocca spalancata. La donna che trascinava un angolo del telo parlava una lingua fatta di urli e rantoli e lo guardava come se lui potesse capirla. E che volume riusciva a tirare fuori dai polmoni. Il sangue impediva di distinguere il vero colore del suo abito. Quando Achmed si ricordò finalmente a cosa gli servivano i piedi, passò in fretta davanti alla donna e all’uomo che si contorceva, per gettare un camice bianco da laboratorio sulla testa di Havaa.

Poi il polso dell’uomo divenne uno sforzo irregolare sotto il suo dito. La donna faceva una domanda dietro l’altra. Il vestito mostrava la curva delle sue gambe. Ne avvertiva il respiro sulla guancia sinistra. C’era un’arteria recisa. La faccia dell’uomo era giallo chiaro. Ecco Sonja. Stava stringendo un laccio di gomma appena sotto il ginocchio. Faceva rotolare l’uomo su una lettiga e poi nel corridoio. La lettiga svoltava in sala operatoria e Deši prendeva la pressione dell’uomo. «Sessanta su quaranta» gridava. Lo sfigmomanometro era stretto col velcro sul braccio del giovanotto. La pera di gomma oscillava sopra la ruota della barella. La ferita era irrorata di soluzione salina.

Con movimenti rapidi e collaudati, Sonja inserì flebo di glucosio e Polyglukin nelle braccia dell’uomo. Dall’armadietto tirò fuori una sega chirurgica e ne disinfettò la lama mentre Deši le strillava i dati della pressione sanguigna. A settanta su cinquanta iniettò la lidocaina appena sopra il laccio. Deši anticipò la sua richiesta e la pinza emostatica fu nella mano di Sonja ancora prima che la chiedesse. Lavorava senza guardare in faccia l’uomo e senza sentire i suoi urli, come se il paziente fosse solo la sua ferita più grave. Il sangue le arrivava ai gomiti, ma la divisa chirurgica era rimasta bianchissima. L’uomo, e di un uomo si trattava, anche se era difficile ricordarsene con tutta quella roba che gli colava fuori, si era laureato da poco in architettura ed era alla ricerca di un lavoro quando le prime bombe avevano cominciato a cadere. Quando la mina gli aveva portato via la gamba, aveva già passato nove anni alla ricerca del suo primo incarico di progettazione. Ne sarebbero passati altri sei e nove mesi prima di ottenerlo, all’età di trentotto anni. Con solo il venti per cento della città ancora in piedi, il lavoro non gli sarebbe mai più mancato.

«Venga qui» lo chiamò Sonja. Achmed si guardò alle spalle, per evocare uno spirito più capace di lui dalla parete beige-Brežnev. «Achmed, venga qui» ripeté lei. Fece un passo avanti, agitando le dita dei piedi dentro le scarpe. Un passo e poi un altro, con immensa gratitudine per ciascuno di essi. La pelle era stata rovesciata verso il ginocchio. Il muscolo del polpaccio reciso. L’osso non era più grande della gamba di una sedia.

Sonja fece un gesto col bisturi. «Nell’amputazione sotto il ginocchio bisogna tenere a mente che i moncherini troppo vicini all’articolazione si adattano con difficoltà alla protesi. Sono difficili a adattarsi anche i moncherini troppo lunghi, e possono creare problemi di circolazione. Innanzitutto si procede con un’incisione a doppio lembo con la parte anteriore prossimale rispetto al punto dell’amputazione, per ottenere un lembo posteriore lungo abbastanza da coprire il moncherino e garantire un cuscinetto protettivo di parti molli dopo la sutura.» Sonja descrisse come isolare i fasci muscolari anteriore, laterale e posteriore e sezionarli. Gli mostrò come legare le vene tibiali, peronea e safena, e fece notare che la pressione sanguigna sale sempre dopo la legatura dell’arteria peronea. Resecò il nervo surale sopra la linea di amputazione e lasciò che si ritraesse nel cuscino di tessuto molle per ridurre l’effetto dell’arto fantasma. Con un bisturi pulito incise il periostio. Impartiva istruzioni con il tono piatto e annoiato di un carpentiere che insegna al ragazzo di bottega come misurare e tagliare il legno, e Achmed la sentiva senza ascoltarla. Tutti quei termini latini e il gergo chirurgico non riuscivano a mitigare l’impotenza che provava mentre la guardava finire quello che la mina aveva cominciato.

«Le amputazioni degli arti sono normale amministrazione, qui» disse lei porgendogli la sega. Lui la prese, aspettandosi che gliela richiedesse indietro. Lei lo guardò e annuì. No, non può dire sul serio. Non si aspettava di certo quello, vero? A malapena si fidava di lui per fargli piegare le lenzuola. «Meglio che familiarizzi al più presto con questa procedura.»

Achmed spostò lo sguardo dalla lama all’osso. L’osso aveva una sconcertante tonalità di grigio rossastro; se lo era aspettato bianco. Aveva sei anni quando si era reso conto per la prima volta che la coscia di pollo di cui succhiava il grasso era, fondamentalmente, lo stesso osso che gli permetteva di camminare, correre, e vincere le partite di calcio dopo la scuola. Da allora, per due anni, non aveva più mangiato carne, tanta era stata la paura che un altro carnivoro divorasse la sua coscia per rappresaglia. «Non sono qualificato per questo» balbettò.

«L’accordo è questo» disse lei con calma. Tese la mano verso quella di Achmed. In quella stretta c’era più compassione che negli ultimi due giorni messi insieme, ma fu questione di un attimo, subito rimpiazzata dal solito pragmatismo mentre gli faceva stringere le dita attorno all’impugnatura della sega. «È quello che facciamo qui. Ed è quello che significa per lei lavorare qui.»

Gli tremavano le mani e fu lei a tenergliele ferme. La sua ultima operazione chirurgica su una gamba era stata dopo la začistka, su un ragazzo di nome Akim. Aveva fatto del suo meglio, davvero, ma non erano colpa sua la mancanza di attrezzature sanitarie e di esperienza, la mancanza di sangue nel corpo del ragazzo e la dovizia con cui aveva inzuppato il pavimento, il proiettile che non aveva sparato lui, né la guerra su cui non aveva voce in capitolo; se qualcuno si fosse mai degnato di chiedere la sua opinione, Achmed sarebbe stato ben felice di dire che la guerra, in generale, era un male da evitare e li avrebbe sconsigliati dall’intraprenderla; perché se avesse saputo che non una, ma ben due guerre stavano per piombargli addosso, avrebbe mollato la facoltà di medicina già dal primo anno, al diavolo la reputazione, per frequentare invece l’accademia d’arte; se avesse saputo che una prepotente dottoressa russa dal cuore di ghiaccio un giorno gli avrebbe chiesto di amputare la gamba di quel poveraccio, avrebbe studiato tecniche di natura morta, paesaggi a olio, scultura e ceramica, avrebbe sacrificato l’effimera gloria di cui aveva goduto in paese, pur di tenersi alla larga dalla gamba di quell’uomo.

«Per questa volta ci è toccata una sola amputazione, ma cosa succederà alla prossima?» disse Sonja. «Se ce ne arrivano cinque, dieci?»

Achmed buttò fuori il fiato. Il sudore oltrepassò la maschera chirurgica per colargli lungo le guance. Sonja gli spinse avanti la mano. La lama grattò contro l’osso. A ogni passaggio la vibrazione riverberava lungo la lama, attraverso l’impugnatura e nelle sue ossa. Quell’osso era la tibia, ed era collegato con fibula e patella. Aveva studiato quei nomi la mattina, ma quello che sapeva non serviva a spingere la sega.

«Prema più forte» suggerì lei tenendogli fermo l’osso. «Non è un’operazione delicata.»

A metà strada, inaspettatamente, la lama si arrossò di midollo. Achmed smise di segare.

«Cosa c’è?» chiese Sonja.

Avrebbe potuto rispondere in diversi modi, ma si limitò a scuotere la testa e continuò a segare. «Non sapevo che il midollo osseo umano è rosso. Credevo fosse dorato, come quello delle vacche.»

«Il midollo di un osso vivente è pieno di cellule sanguigne rosse. Mettendolo a cuocere in forno con un po’ di sale e pepe, diventerebbe dorato nel giro di un quarto d’ora» gli disse lei.

Rischiò di vomitare.

«Ottimo lavoro» commentò Sonja mentre lui finiva di segare la tibia. «Resta solo un altro osso.»

Achmed appoggiò la lama sulla fibula e i colpi decisi e rapidi sollevarono una lieve polvere bianca d’osso che fluttuò verso di lui, attirata dalle sue inspirazioni, per dissolversi infine nell’umidità della maschera chirurgica. Gli occhi scuri di Sonja lo sbirciavano in tralice dalla periferia del suo campo visivo, e allora mosse la sega più in fretta e con più forza, col desiderio che Sonja vedesse in lui qualcosa di più di un inetto, col desiderio di finire prima di svenire. Una dozzina di colpi più tardi, il piede cadde sul tavolo. Senza pensarci, lo afferrò per la caviglia e lo rovesciò. Sangue e midollo gli colarono sulle dita mentre contava sei schegge di vetro che luccicavano in quel che restava nella pianta del piede.

«Lo metta da parte» disse lei. «Lo avvolgeremo in un foglio di plastica e lo daremo alla famiglia per la sepoltura.» Gli mostrò come smussare l’osso e come rivestirlo con la massa muscolare. Tirò in avanti il lembo cutaneo posteriore a coprire il moncherino foderato di muscolo, regolarizzò la cute in eccesso e suturò con filo chirurgico nero.

Appena ebbero finito, Achmed si sfilò i guanti di gomma e si massaggiò il palmo destro arrossato e indolenzito, dove la pelle tra pollice e indice si era gonfiata a contatto con l’impugnatura della sega chirurgica. Sonja se ne accorse, sorrise e, quando lei sollevò la mano destra, Achmed desiderò di essere di nuovo nel letto con Ula, potersi tirare le coperte sopra la testa e nell’umidità dei loro aliti pesanti abbracciare l’unica persona che lo credeva intelligente, capace e forte.

Il palmo di Sonja era calloso.