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Per diciotto giorni Nataša dormì come se il mondo dei sogni chiuso dietro le palpebre fosse la sua vera casa, in cui rimpatriava per quindici ore al giorno. E allora cosa poteva farci Sonja? Nataša era lì, sana e salva, e reale quanto bastava perché lei cominciasse a risentirsi. Nella luce bianca del mattino che inondava l’appartamento entrò in camera, una tazza di tè bollente in mano, e ispezionò il corpo di sua sorella come avrebbe fatto con un cadavere, o con un paziente comatoso, o qualcuno che avesse, tanto tempo prima, invidiato. Il suo sguardo percorse le curve dei fianchi di Nataša, lo strano angolo del gomito che riusciva a piegare a suo piacere, come disarticolato, i bordi rosicchiati delle unghie, le gambe ancora lunghe, ancora affusolate, e la lieve peluria scura sugli avambracci, che alla loro prima comparsa nella pubertà Sonja aveva sfruttato per convincere Nataša che stava diventando un maschio. La pelle di Nataša raccontava quello che lei non avrebbe mai raccontato. Le cicatrici per l’uso abituale di eroina le segnavano le dita dei piedi. Una rosa di bruciature le incideva la spalla sinistra. Se Sonja avesse trovato quelle cicatrici su un paziente all’ospedale non avrebbe provato pietà, ma nella camera di Nataša le facevano tutto un altro effetto. Per diciotto giorni era entrata per svegliare Nataša e aveva lasciato perdere, timorosa del sogno dal quale sua sorella si sarebbe svegliata, lasciandosi dietro una sveglia non più rumorosa di una tazza di tè che si raffreddava sul comodino.

Ma Nataša non stava bene. La diciottesima sera, mentre davanti al tagliere affettava due cipolle e una patata, Sonja affrontò l’argomento. «Credo che dovresti parlare con uno psichiatra o con qualcuno.»

Dall’occhiata che le scoccò la sorella, era come averle annunciato che quella sera per cena avrebbero mangiato il tagliere.

«Credo che ti farebbe bene parlare con qualcuno. Di quello che è successo in Italia. Dell’effetto che fa essere a casa» disse Sonja.

«Parlare non serve a niente.»

«Potrebbe servire a un paio di cose.» Sonja sottolineava le sue parole con i colpi del coltello.

«Tutte le parole del mondo non faranno tornare intere quelle cipolle.»

«La mente umana è un pochino più complessa di una cipolla dorata.»

Nataša tirò indietro i capelli con la mano mentre si accendeva una sigaretta al fornello che suo padre aveva comprato dodici anni prima, usato, da una donna che non avrebbe mai più ritrovato una fiamma altrettanto buona per cuocere un uovo come si doveva. «Alcuni di noi dovrebbero ritenersi fortunati ad avere fra le orecchie qualcosa grande almeno quanto una cipolla dorata.»

Sonja si era accorta del modo in cui la sorella si ritraeva da lei, dall’argomento, da tutto quello che era successo in Italia. «Pensa piuttosto al cervello come a un muscolo, un osso» disse abbassando lo sguardo sul più rispettoso pubblico di patate a dadini. «I traumi emotivi e mentali non guariscono da soli più di un osso rotto e non curato.»

Nataša accennò al tagliere. «Tu convinci quelle patate e quelle cipolle a saltare da sole nella padella, e io parlerò con uno psichiatra.»

Nonostante l’esasperazione, la resistenza di Nataša era un buon segno, o no? L’ostinazione era come un pilastro nella schiena che l’avrebbe sostenuta anche quando non fosse più stata saldamente piantata sul groppone di Sonja. E pur desiderando ardentemente che un minimo di gentilezza potesse oliare i meccanismi arrugginiti della loro relazione, sopportava di buona grazia rispostacce e occhiatacce a dimostrazione che Nataša non aveva perso la capacità di farla imbestialire. Sua sorella era un paguro bernardo stizzoso con una sigaretta perennemente fra le labbra, che di tanto in tanto emergeva dal guscio alla rassicurante presenza di Sonja. Quando Nataša credeva di essere sola – nei giorni in cui Sonja sbatteva la porta e poi restava lì dietro a spiarla – sembrava volersi ricreare gusci ancora più spessi. Era stato terribile vedere dal buco della serratura Nataša che suddivideva la stanza in minuscoli ripari incrementali. Spostava scrivania, letto e cassettone come un bambino che sistema i mobili a simulare un castello, circondando persino la struttura con un bastione di bicchieri da acqua. Dall’altra parte del buco della serratura, Sonja pregava che tenesse lontani i draghi; il suo cuore, come fosse disegnato su un pezzo di carta nel petto, si accartocciava ogni volta. Quando la sera rientrava, la fortezza era stata smantellata e i pezzi d’arredamento erano tornati a coprire i loro rettangoli bianchi contro le pareti. Non aveva mai accennato a quello che aveva visto, lo aveva considerato un promemoria per mantenersi gentile e paziente mentre preparava la cena. Sussurrava dolci sciocchezze a patate e cipolle, ma quelle stronzette erano testarde come sua sorella, la grande stronza.

Nataša cominciò a cedere quando Sonja le fece notare che, rispetto alle sue incessanti insistenze, una chiacchierata con uno psichiatra sarebbe stata piacevole come un picnic estivo. Ammise di aver già parlato con una psichiatra al rifugio delle donne di Roma, quella che le aveva fornito una scorta per sei mesi di Ribavirin, che Sonja aveva scoperto nel bagno, che di solito si usava per curare l’epatite, che Nataša non volle ammettere di avere, che Sonja giudicò un’emerita stronzata.

«Parlava russo con quell’assurdo accento italiano» disse Nataša. «Avevo il terrore che si sarebbe messa a cantare l’opera.»

«Non faccio mai promesse ai miei pazienti, ma ti prometto che, chiunque troverò, non parlerà una parola di italiano.»

E ci provò. Passò in rassegna tutti i suoi contatti solo per scoprire che ogni psichiatra in città era morto, o in esilio, o scomparso. Nei ranghi dell’ospedale cittadino non c’era un solo specialista di salute mentale. Un pomeriggio, nel parcheggio dell’ospedale, era così furibonda che avrebbe voluto far saltare le nuvole dal cielo a forza di cazzotti, ma si sfogò invece su un oggetto più a portata di mano: il cofano di una Volga del 1983 così decrepita da darle l’impressione di picchiare un animale ferito per reiterare il suo dolore. Com’era arrivata a quel punto? Parlava correntemente quattro lingue, eppure i pugni contro quel cofano arrugginito erano il modo migliore per articolare la sua sconfitta. Nei mesi precedenti il rimpatrio, il cuore le si era indurito per l’assenza della sorella, si era concessa di amare la memoria di Nataša come non aveva mai amato lei nella realtà. Il fatto era che proprio il suo esilio aveva provocato quello di Nataša. Il fatto era che lei per prima aveva lasciato la Cecenia. Il fatto era che lei aveva scansato la guerra che Nataša aveva dovuto sopportare da sola. Era semplicemente sensato che sua sorella avesse tentato di fare lo stesso con l’unica valuta che possedeva: il proprio corpo. Però adesso era a casa e aveva bisogno di cure mediche che Sonja non poteva offrirle. Essere una cattiva sorella era una cosa, essere un cattivo medico era un peccato molto più grave. Deši la trovò fuori nel parcheggio, che picchiava sul cofano della Volga fino a farle saltare la ruggine. Le lacrime diventarono marroni quando se le asciugò con le nocche. «Ti va di parlarne?» chiese Deši. «Va’ al diavolo» rispose lei.

A cena, Nataša accolse la notizia con l’abituale compiacimento. «Meglio così» disse. «I dottori del cervello rappresentano un decadentismo poco adatto a un paese come il nostro. Sono i bidè della professione medica.»

«Potresti parlarne con me» offrì Sonja con una voce abbastanza ringhiosa da garantirsi che Nataša si sarebbe tirata indietro. Come in effetti aveva fatto. Per sette anni e tre settimane, dopo la seconda scomparsa di Nataša, Sonja avrebbe orbitato attorno a quel momento, sfiorandone ogni angolo senza mai posarsi: e se ci avesse provato con più forza, se fosse stata più gentile, più disponibile?

Mentre il rumore della strada riempiva i vuoti della conversazione, Sonja si era arresa. Se il mondo era deciso ad affogarla, avrebbe smesso di nuotare. Prolungò l’orario di lavoro, poi il tragitto fino a casa. Al bazaar gli ambulanti vendevano qualunque cosa potesse essere sollevata e portata via: razioni d’emergenza, sacchi di grano, rotoli di stoffa non tagliata, lana grezza, assi da pavimenti, pezzi di cucine industriali, munizioni abbandonate dall’Armata Rossa, semafori, macchinari per la raffinazione del petrolio. Passava davanti a scaffali di scarpe usate che avevano percorso più chilometri di un aereo a reazione dei Federali, a isolati con più buchi della spalla sinistra di sua sorella, a esoscheletri di ponteggi, a muratori che issavano carriole piene di mattoni, lungo la strada per l’Ospedale n. 6.

E mentre diciotto giorni diventavano venti, quaranta, sessanta, il reparto traumatologico divenne la capitale della ricostruita repubblica. Ogni giorno arrivavano pazienti con attacchi di cuore e calcoli renali, le emergenze minori in tempo di pace. Quando un uomo arrivò zoppicando con un trauma che si era procurato giocando a pallone, lo baciò sulla guancia; quell’uomo e sua moglie avrebbero poi creato la targa in onore del personale ospedaliero del periodo bellico, che avrebbero incassato nel marciapiede undici anni più tardi, quasi senza cerimonie ufficiali. La guerra era finita; nessuno sapeva che era stata solo la prima. Eppure la carenza di forniture sanitarie rimaneva un problema costante.

Si era messa in contatto con il fratello di un tizio con i baffi fatti di zampe di ragni morti, al quale aveva salvato la vita quando una mina gli aveva infilato otto sfere da cuscinetti, quattro viti e tre monete da dieci copechi nella gamba sinistra. Il fratello l’aveva accolta sul sedile posteriore di una Mercedes che girava in cerchio su una striscia d’asfalto grande quanto un campo da tennis appena fuori dal suo garage a Volčansk, l’unico pezzo di strada abbastanza intatto da essere degno di un’auto occidentale così bella. Stringeva tra le dita perfettamente curate il filtro di una Marlboro. Già uno sguardo limitato alla sua prima nocca le era bastato per sapere che quell’uomo aveva accesso alle rotte dei contrabbandieri che serpeggiavano a sud fra le montagne.

«Lei ha salvato la vita di Alu» disse il fratello portandosi la sigaretta alle labbra delicate, che ogni sera idratava con un balsamo all’aloe. «Per questo le devo un favore. Un favore piccolo, perché, dei miei sei fratelli, Alu è quello che mi piace meno.»

Lei gli aveva consegnato una lista limitata a forniture mediche facili da procurare: compresse di garza sterile, cerotto a nastro, pomate antisettiche, maschere da respirazione artificiale, guanti di lattice, rotoli di garza, termometri, forbici, bisturi, aspirina, antibiotici, lame per seghe chirurgiche e antidolorifici. «Sono attrezzature di base. Qualunque distributore di forniture sanitarie le avrà. È tutta roba che di solito si trova in una normale cassetta di pronto soccorso, solo che me ne serve in quantità.»

«Alu mi ha parlato molto bene di lei» si lagnò il fratello. «Avrei dovuto saperlo che sarebbe stata una scocciatura. Nient’altro?»

«Non avevo un solo favore a disposizione?»

«Lasci che le racconti una storia» disse il fratello, tenendo la sigaretta come la bacchetta di un direttore d’orchestra. «Quando ero piccolo avevo una tartaruga che avevo chiamato Alu, perché condividevano una certa – come definirla – idiozia animale. Una volta andai a Groznyj con mio padre e cinque dei miei fratelli, per il funerale di uno zio di mio padre, e partimmo così in fretta da non avere il tempo di dare da mangiare ad Alu la Tartaruga. Mio fratello Alu l’Idiota aveva la febbre e rimase a casa con mia madre. In un momento così arduo per il suo misero intelletto che di sicuro doveva fumargli il cervello, Alu l’Idiota si ricordò di dare da mangiare alla mia tartaruga. Catturò bruchi e grilli; probabile che li abbia anche assaggiati prima di darli al mio amato crostaceo. Da allora Alu l’Idiota è diventato un’emorroide grande quanto Gibilterra, ma da bambino ha sfruttato l’unica buona idea che la vita gli aveva concesso per dare da mangiare alla mia tartaruga, ed è per questo che a lei tocca un secondo favore.»

«Le tartarughe non sono crostacei» disse Sonja.

«Mi scusi, mezzo crostaceo.»

«Sono rettili purosangue.»

Il fratello la guardò a bocca aperta. «Dovrebbe sentirsi. È ridicola.»

«La tartaruga è un rettile al cento per cento» disse lei. «Credo che lo sappia persino Alu.»

«Non mi insulti. Lo sanno tutti che la tartaruga è un crostaceo per parte di madre.»

«Questa me la deve spiegare» disse lei, sistemandosi meglio sul sedile mentre l’auto continuava a girare in cerchio.

«Una lucertola si scopa un granchio e nove mesi dopo schizza fuori una tartaruga. Si chiama evoluzione.»

«Spero che il suo insegnante di biologia sia finito in un gulag» disse lei. Incrociò lo sguardo dell’autista nello specchietto retrovisore. L’autista era cresciuto in un borgo di montagna dove c’era più gente che credeva ai troll che alle automobili. La prima guerra l’aveva catapultato dal dorso di un mulo all’abitacolo di una Mercedes, e in retrospettiva avrebbe considerato la guerra l’unico colpo di fortuna in un’esistenza per il resto zeppa di delusioni.

«Non posso credere che le permettano di operare la gente, con una comprensione così limitata della natura» disse il fratello.

«Ci sono altri animali che vengono al mondo in questo modo?»

Il fratello sporse le labbra. «La balena.»

«Mi lasci indovinare. Un pesce che si scopa un’ippopotama.»

«Quasi. Un’elefantessa» sghignazzò il fratello.

«Ma certo» disse Sonja. «Come ho fatto a scordarmi delle mandrie di elefanti che vagano in mare aperto?»

«Non mancherei mai di rispetto a mia madre, ma qualcuno meno nobile di me potrebbe suggerire che Alu è per metà scimmia. Allora, vuole che inserisca Darwin come suo secondo favore?»

Sonja aggiunse diversi titoli alla lista e gliela riconsegnò.

«Mio Dio» disse lui. «È peggio di quanto immaginassi. Non c’è da stupirsi che lei e Alu andiate d’accordo. Metodi moderni di indagine psicologica. Stress post-traumatico: cause, sintomi e terapia. Da vittima a sopravvissuta: superare lo stupro. È questo che vuole? Pensavo piuttosto a cocaina, o una prostituta, o roba del genere.»

«Le sembro forse una che ha bisogno di una prostituta?»

Il fratello era tutto un sorriso. «Mai conosciuto nessuno che ne avesse più bisogno» disse.

«Se li può procurare o no?»

«Vedremo. Pistole, droghe, uranio, puttane, ostaggi: nessun problema. Ma non mi hanno mai chiesto di procurare libri o roba sanitaria. Sarà una sfida.»

La Mercedes continuava a girare in cerchi da capogiro. Sonja voleva uscire da quell’affare che le faceva venire la nausea. E poi cos’aveva Alu che non andava? In confronto a questo tizio ridicolo che parlava come se fosse il genio della lampada, Alu era un cittadino modello. Ma d’altra parte lei che poteva fare? Chi aveva le armi aveva anche le bende.

«Se li può procurare, sì o no?»

«Non mi insulti» disse lui. «Posso rubare le macchie a un leopardo delle nevi.»

«Allora grazie.»

«Tutto qui? Nient’altro? Quando sarà scesa da quest’auto non mi rivedrà mai più.»

Poteva chiederglielo? Un passaggio in Georgia? Un biglietto aereo da Tbilisi a Londra? Un visto sul passaporto che portava sempre con sé ogni volta che usciva di casa, nella cintura portasoldi attorno alla vita?

«Sì» rispose. L’aria ronzava. Le nuvole gialle osservavano indifferenti. «Vorrei una delle sue sigarette.»

Prese la sigaretta e la fumò mentre tornava a piedi verso il bazaar, dove diversi giorni dopo, nel corso di una spedizione alla ricerca di tessuti, si imbatté in una macchina industriale per il ghiaccio in vendita da un mercante d’armi wahabita. Era una grossa macchina grigia con l’interno in plastica del colore della minestra di patate, e una griglia di ventilazione dietro. Il coperchio d’acciaio rimandava il suo riflesso deformato dentro un logo del Soviet Inturist Hotel. Tre fratellastri, ora di sedici, undici e otto anni, erano stati concepiti su quel coperchio d’acciaio, e nessuno era a conoscenza dell’esistenza degli altri. Un mercante con le dita macchiate di nicotina, gli occhiali con la montatura metallica e la lunga barba da wahabita le aveva descritto il macchinario. «Gorbačëv, Brežnev e i Bee Gees hanno rinfrescato le loro bibite con il ghiaccio proveniente da questa meravigliosa macchina. È una celebrità fra le macchine per il ghiaccio, invidiata e ammirata fra le sue simili. In tutta la Cecenia i vassoi portacubetti tengono le foto della macchina del ghiaccio dell’Inturist Hotel attaccata alla parete interna del loro freezer, e a tutti loro si racconta che, se lavorano sodo e credono con tutto il cuore all’ideologia del ghiaccio, un giorno potrebbero anche raggiungere quel livello. Potresti anche dirmi: “Ma mullah Abdul, a me non serve una macchina per il ghiaccio industriale capace di produrre venti metri cubi di ghiaccio in un’ora, quando necessario”. E io ti risponderò: e l’acqua potabile? Vedi, la pura e incontaminata H2O si congela esattamente a zero gradi, la temperatura alla quale è accuratamente calibrato il termometro di questo magnifico colosso. L’acqua che contiene minerali e sedimenti e batteri e parassiti, invece, congela a temperature leggermente inferiori, e perciò rimane allo stato liquido e scorre via dallo scarico. L’acqua congelata che rimane è pura come le vergini del Paradiso, con cui spero di fare presto conoscenza, sempre che Dio mi consideri degno.»

Sonja annuì, alquanto colpita. Sui tavoli accanto alla macchina del ghiaccio erano disposte armi di tutti i calibri e misure, cartucciere piene, tubi metallici trasformati in lanciarazzi RPG Stinger casalinghi, mine antiuomo e registrazioni su VHS di Baywatch.

«Cosa cerchi?» continuò il mercante. «Bombe a mano? Pallottole a punta cava? Se mi dai qualche giorno ti procuro un giubbotto esplosivo al C4 che ti sta a pennello.» Sonja si ricordava di lui, il professore di chimica che le aveva dato tre pacche sul sedere in altrettanti mesi, e si aspettava da lei – all’epoca matricola universitaria – che lo ringraziasse per averla salvata da un’ape invisibile che infestava l’ufficio. Era un altro uomo, allora, arrivava in classe tutte le mattine con le guance appena sbarbate e una giacca di velluto che puzzava di stantio, ma riconobbe ugualmente le delicate manine schiaccia-api, ora strette attorno al calcio di un fucile. «Forse sarebbe meglio parlare con tuo marito» le disse. «Mi piacerebbe dirgli due paroline su come ti permette di vestirti.»

«Vaffanculo, disgustoso ometto» disse Sonja in inglese.

«Sa anche le lingue» borbottò fra sé il mercante. «Un altro segno della fine dei tempi. Stammi a sentire, donna. Adesso sono serio: se continui ad andartene in giro con i capelli e la faccia scoperta che anche il diavolo in persona può vedere, i russi torneranno, non c’è dubbio, e sarà tutta colpa di voi donne.»

Se lui non avesse avuto il contenuto di un piccolo arsenale a portata di mano, Sonja gli avrebbe tirato un calcio dritto su quegli improvvisamente devoti coglioni. Invece scosse la testa e si voltò verso la bancarella dei tessuti.

Tornò a casa con pezze di stoffa verdi e viola, che allargò sul pavimento della sua camera. Da ragazzina aveva sempre svicolato quando sua madre si era offerta di insegnarle a cucirsi i vestiti; persino a quell’età un’occupazione così domestica era un insulto alle sue ambizioni. Adesso, con gli occhi bassi, mentre fissava quella stoffa come se un paio di pantaloni potesse materializzarsi con la sola forza della sua concentrazione, si sentì Sonja l’Idiota. Riuscì a farsi venire solo un’idea. Si prese le misure con un righello e le riportò sulla stoffa, tagliando il contorno delle sue gambe con delle forbicine da unghie. Per la successiva mezz’ora cucì insieme i due ritagli di stoffa con gli stessi punti che usava per richiudere le ferite. Quando ebbe finito esaminò la sua creazione. Le cuciture ressero bene quando le mise alla prova, e il mignolo passava di preciso nelle asole della patta. Immaginò delle tasche, forse anche dei passanti per la cintura. Se l’esperimento funzionava, poteva farsi anche una giacca e una camicia. Forse poteva addirittura buttarsi in una linea di abbigliamento – haute couture de guerre-zone, con tutti gli introiti destinati al sostegno dell’ospedale – ed esportare moda realizzata a mano nelle strade delle boutique di Londra, dove aveva potuto verificare il consumismo consolatorio degli occidentali nei confronti di arte e cheeseburger benefici per il Terzo Mondo.

Fu solo provandosi i pantaloni che si rese conto dell’errore. Aveva riportato la misura esatta delle gambe senza aggiungere un minimo spazio di manovra, e così si ritrovò a lottare per infilarli, fino a lasciarsi cadere sul letto e sollevare i piedi verso il soffitto, nella vana speranza che la forza di gravità si impietosisse di lei. Uno sforzo massacrante. Erano anni che non si agitava in quel modo, quanto meno senza la prospettiva di un orgasmo. Quando riuscì infine a far salire i pantaloni oltre i fianchi, scoprì il sorriso a cento watt di Nataša sulla soglia. «Da quant’è che sei lì a guardarmi?» le chiese.

«Non abbastanza, nemmeno lontanamente.»

«Cazzo, ma se dormi sempre! Quando preparo la cena o spazzo il pavimento o cerco batterie da automobile o piango o faccio qualsiasi altra cosa utile e matura non fai altro che dormire e poi, appena riesco a rendermi ridicola, ti svegli giusto in tempo per guardarmi. Cosa sei, una veggente? Se lo sei, dovresti sapere cosa sto pensando, e se non lo sei, sto pensando a un gesto molto volgare.»

«Prova ad alzarti» suggerì Nataša, fin troppo allegra. Sonja avrebbe preferito amputarsi tutt’e due le gambe con le forbicine da unghie piuttosto che umiliarsi ancora di più, ma che poteva fare? Rifiutarsi? Ammettere il fallimento? No. Appoggiò i palmi sul bordo del letto. Si spinse in avanti. Mentre agitava le braccia, le gambe che non volevano saperne di piegarsi, avrebbe lasciato che quel satiro del professore di chimica le scacciasse a sberle api invisibili dal didietro per tutto il giorno, in cambio di un paio di pantaloni della misura giusta. All’apice dell’ascesa, quando vide Nataša, la fissò con occhi trasformati in carboni ardenti: sarebbe stato chiedere troppo pretendere un ringraziamento? Sentirsi apprezzata? Farsi rassicurare che tutti gli scones d’Inghilterra non valevano patate e cipolle con la sua unica sorella? “Sì, evidentemente è chiedere troppo,” si disse Sonja “o almeno è troppo chiederlo a te, mia cara mangiapatate, tu che sei convinta di essere l’unica al mondo che può capire la perdita, e nemmeno quello vuoi condividerlo con me.”

Ma con quell’occhiataccia compromise il suo equilibrio. Le due assi di legno che erano le gambe dei pantaloni la spinsero in avanti: agitando le braccia, Sonja cercò di aggrapparsi a Nataša. Non c’era nessun altro ad aiutarla.

E Nataša la prese. L’impatto si propagò lungo la spina dorsale di Sonja, allentando la tensione accumulata fra ogni vertebra. Com’è che erano scese così in basso? Come avevano fatto a inacidirsi al punto che il gesto di Nataša per impedire alla sorella di battere una nasata in terra diventava un atto di smisurato amore sororale? Le lacrime filtrarono sotto le palpebre chiuse di Sonja. Come se dal centro del pavimento avessero tolto il tappo per far defluire la tensione.

«Sono i pantaloni più brutti che abbia mai visto» disse Nataša continuando a sorreggerla. Era la prima volta che si abbracciavano, da quando era tornata. Sarebbero trascorsi altri due anni e tre mesi, prima che accadesse di nuovo. «Sembrano dipinti addosso.»

«Non mi sento più le dita dei piedi» strillò Sonja. «Credo che il sangue non riesca a circolare oltre le ginocchia.»

«Potresti usarli come lacci emostatici in ospedale.»

«Non voglio stare qui, Nataša. Sono così infelice. Voglio tornare a Londra.»

«È tutto a posto. Sono solo pantaloni. Guarda come si fa.» Afferrandoli alla cintura, Nataša li divise a metà in un colpo solo. Sonja sfilò il fondo dai calcagni e distese le cosce indolenzite. Raccolse i pezzi di stoffa su cui era disegnata la sagoma delle sue gambe e inclinò la testa per guardare Nataša attraverso il ritaglio.

«Credo che questo sia il mio ginocchio.»

«È un gran bel ginocchio.»

«Che ci dovrei fare?»

«Non credo che tu abbia mai chiesto la mia opinione in proposito.»

«Non diventerà un’abitudine.»

«Nessuno te lo impedisce.»

«Dimmi cosa devo fare.»

Nataša guardò la stoffa. «Un paio di pantaloni nuovi farebbe comodo anche a me.»

Sonja sorrise e porse a Nataša le forbicine da unghie.

Nonostante il momento di riconciliazione, tornarono presto a una politica di cortese elusione. Quando, dopo il lavoro, Sonja avvertiva il bisogno di una compagnia meno complicata, andava a trovare Laina alla porta accanto. Laina non sembrava mai particolarmente contenta di vederla, ma ultimamente non sembrava mai particolarmente contenta di niente, perciò Sonja non la prendeva sul personale. L’anziana donna riceveva visite quotidiane di fantasmi, angeli, profeti e mostri, e certe sere Sonja si chiedeva se lei stessa, per quella donna, non fosse altro che una semplice allucinazione.

«L’altro giorno ho visto una macchina per il ghiaccio al mercato» disse. Laina non alzò gli occhi dalla sciarpa che stava sferruzzando, timorosa di sollevare lo sguardo con tutti quei visitatori che affollavano l’aria. «Una volta è servita a rinfrescare i bicchieri dei Bee Gees, almeno così ha detto il venditore. Non voltargli mai le spalle, Laina. Api non ce ne sono.»

«Da come cammino si vede che sono fatto per le donne» disse Laina senza alzare gli occhi dai ferri.

«La conosci anche tu quella canzone?»

«Ma certo. Durante la guerra la gente la recitava. Non sapevo neppure che fosse una canzone. Per molto tempo ho creduto fosse una citazione dal Corano.»

Sonja sorrise, contenta di riuscire ancora a sorprendersi. «Non sapevo che i Bee Gees fossero così profondi.»

«Oggi ho visto sei carri nel cielo. Avrei preferito vedere una macchina per il ghiaccio.»

Per tutta l’ora successiva, Laina descrisse copiosi fenomeni soprannaturali. L’angelo Gabriele era arrivato sbattendo le ali in un pollaio senza gallo a Zebir-Yurt, e la mattina dopo un contadino aveva trovato otto uova frutto di immacolata concezione. Un ragazzino di Groznyj aveva sconfitto il nonno, un maestro di scacchi di terza classe, numero milleseicentottantaquattro nella classifica mondiale, dopo una partita proseguita per nove giorni e nove notti insonni che aveva lasciato il nonno così sbalordito, orgoglioso ed esausto che subito dopo era morto. Una banda di diavoli-fantasma erano scaturiti dal terreno al confine con il Dagestan per rubare tre camion della Croce Rossa, lasciando gli autisti incaprettati e bendati e magicamente sospesi a tre metri d’altezza.

«Stalin è stato resuscitato» disse Laina.

«Lo so» rispose Sonja. «È primo ministro della Russia.»

Quando una settimana più tardi, mentre andava al lavoro, la Mercedes nera la trovò, credette di essere piombata in uno dei deliri di Laina. La Mercedes inchiodò sollevando una cortina di polvere attraverso la strada. Gli pneumatici – prima così raffinati da poter solo girare in cerchio su un campo da tennis – erano stati sostituiti con quelli di una jeep corazzata, sollevando il telaio dell’auto di mezzo metro. C’erano ancora, notò, le targhe svedesi. Il vetro del finestrino si abbassò e quelle unghiette delicate le fecero segno di avvicinarsi.

«Credevo che non ci saremmo mai più rivisti» disse lei chiudendo la portiera.

«E io continuo a dire che non voglio più rivedere Alu e lui continua a essere mio fratello. Lei mi incuriosisce. Ha vissuto a Londra per diversi anni, se le mie informazioni sono corrette, e lo sono sempre. Se ci fosse rimasta, a questo punto avrebbe potuto ottenere la cittadinanza. Neppure io riesco a far mettere il mio nome su uno di quei meravigliosi passaporti bordò. Eppure è tornata.»

«Ho una famiglia qui» disse lei a disagio.

«Io nascondo la carta igienica, quando la mia famiglia viene a trovarmi, così non si fermano troppo a lungo.»

«Potrebbe farmi tornare a Londra?»

«Potrebbe chiedermelo. Ma poi con chi parlerei? Nessuno con la sua intelligenza tornerebbe mai da Londra, il che significa che lei è uno di quegli idiot savant, con pochissima enfasi sul savant, oppure qualcosa di completamente diverso. Gli unici che tornano sono quelli come me, quelli che sanno quanti soldi si possono fare qui.»

Oltre il finestrino, la periferia della città lasciò spazio ai campi marroni solcati dalle tracce dei carri armati. Erano sulla strada per Groznyj. «Io non sono qui per fare soldi.»

«Ecco perché mi incuriosisce.»

Raggiunsero il garage di Groznyj due ore dopo. Due tizi dall’aria feroce li accolsero sulla porta imbracciando i Kalašnikov – di lì a tre settimane uno di loro avrebbe ammazzato l’altro durante un litigio nato per una questione di indicazioni stradali – e Sonja sperò con tutto il cuore che l’affetto del contrabbandiere per Alu la Tartaruga prevalesse sull’odio per Alu il Fratello Minore Più Sfortunato della Storia. In fondo alla piazzola di cemento erano parcheggiati tre camion. Il fratello la condusse verso il primo di essi, con la serratura che ciondolava da un luccicante gancio fracassato da un proiettile. Sollevò la serranda e illuminò l’interno del rimorchio con il fascio di una torcia elettrica. Nel cerchio di luce c’era un kit di pronto soccorso della Croce Rossa. Il cerchio si allargò a includere degli scatoloni aperti e centinaia, no, migliaia, di kit di pronto soccorso. «Questi sono rubati» disse lei.

«Certo che sono rubati, e non senza difficoltà, se vuole saperlo. Ma come ha detto lei, quasi tutto quello che aveva chiesto lo si può trovare in un kit di pronto soccorso.»

«Che ne è stato degli autisti?»

«Cosa gliene importa?»

Sapeva che la stava mettendo alla prova, pronto a spuntare il filo di qualsiasi oltraggio morale con un pistolotto sul relativismo in guerra, o forse con un altro esempio del suo disprezzo per Alu. Sonja aprì il primo kit di pronto soccorso e controllò il contenuto. Quattro compresse di garza sterile, otto cerotti a nastro, un tubetto di pomata antisettica, una mascherina per la respirazione artificiale, un paio di guanti di lattice, un rotolo di garza, un termometro, un pacchetto di aspirina, un paio di forbici. Riabbassò il coperchio, fece scattare i ganci di chiusura, non aveva altro da dargli che la sua gratitudine. Per quanto gliene importava, gli autisti potevano essere stati picchiati e incaprettati, dato che lei adesso aveva la pomata per disinfettare i loro tagli, la garza per bendare le loro ferite, persino le forbici per tagliare qualsiasi filo magico li tenesse sospesi a tre metri da terra.

«E la morfina?»

«Quasi me ne scordavo.» Dal sedile anteriore prese una borsa sportiva di nylon, l’appoggiò sul paraurti e aprì la lampo. Sul fondo c’era un mattoncino di polvere bianca avvolto nella plastica. «La morfina costa troppo» le disse, porgendogliela.

«E questa cos’è?»

«Eroina.»

Già la parola da sola pesava dieci chili. Quella polvere era stata bollita e iniettata tra le dita dei piedi di Nataša due volte al giorno per otto mesi. Dio mio. E per la prima volta da chissà quanti giorni sospirò di sollievo sapendo che Nataša era al sicuro a casa, barricata dietro un bastione di bicchieri, al riparo dalle fauci del drago. «È pura?»

«Lo zucchero che c’è lì dentro non basterebbe per una tazza di tè.»

«Avevo chiesto della morfina.»

«E io neppure se mi avesse fatto il favore di lobotomizzare Alu quando ce l’aveva sotto i ferri avrei potuto procurarle della morfina. L’eroina costa molto meno.»

«Allora voglio qualcos’altro.»

«Anch’io. Nel suo ospedale ci sono solo pochi reparti funzionanti, giusto? Se mi affitta un po’ di spazio inutilizzato possiamo continuare con il nostro accordo.»

«Per farci cosa?»

«Per la mia roba.»

«Niente armi, droghe o persone.»

«Certo che no» disse lui. «Quella è roba che tengo a casa. No, più che altro tesori nazionali razziati dai musei cittadini, che si possono vendere all’estero.»

«Bene. Voglio una macchina per il ghiaccio. L’ospedale è senza già da diversi mesi. Al mercato c’è un tizio con la barba che vende una bella macchina dell’Inturist Hotel. Può anche trattarlo male. E dove sono i libri che avevo chiesto?»

«Lei ha sbagliato mestiere» disse lui, godendosi la testardaggine di Sonja. «È una truffatrice di talento. Sarebbe capace di mandarmi in rovina. Ho avuto qualche problema a reperirli, ma dovrebbero arrivare presto. Un terzo cugino che sta in Occidente li ha ordinati via Amazon.»

«Cosa sarebbe?»

«Non ne ho idea. Quel ragazzo è capace di far comparire i suoi libri dal nulla. Anche lui mi manderà in rovina.» Scosse la testa. «Il mondo intero sta cospirando per mandarmi in rovina.»

«E un’altra cosa.»

«Adesso comincia a seccarmi. Se continua così, la prossima volta dovrò portarmi dietro mio fratello.»

«Voglio dei vestiti nuovi.»

E lui si mise a ridere, ridere, ridere.

Due settimane dopo, Sonja tornò dall’ospedale con addosso un maglione di cachemire bordò, stivali di pelle marrone chiaro e un paio di jeans di una misura sotto la sua che mostravano curve sulle quali il professore di chimica avrebbe trovato un intero alveare di api, se ancora gli avessero funzionato gli occhi. Il peso dei libri di psicologia tendeva le cinghie dello zaino che portava in spalla. La mano sinistra, stretta attorno a un bicchiere pieno di ghiaccio, era diventata insensibile.

In corridoio si fermò davanti alla porta di Laina, voleva lasciare il ghiaccio alla vicina. Il mormorio di voci all’interno la fermò. Si accovacciò davanti al buco della serratura. Che le allucinazioni di Laina avessero cominciato a risponderle?

«C’erano dodici carri oggi nel cielo? Sono due più di ieri.» La voce di Nataša si crogiolava sotto un sole che non splendeva mai quando parlava con Sonja. Era bello sentire che Nataša si preoccupava di qualcuno, anche se non di lei.

«Dodici» disse Laina. «Credo che stiano macchinando qualcosa.»

«Tipo cosa?»

«Chi lo sa? Rubare la luna per rivenderla al mercato. Proteggere il cielo dagli aerei dei Federali. Forse cercano un modo per tirare giù dalle nuvole i loro cavalli.»

La voce di Nataša si addolcì. «L’inverno della guerra, prima di andare in Italia, quando i bombardamenti erano al massimo, avevo paura che colpissero il palazzo. Così abitavo nel parco cittadino. Mi ricordo che il Profeta del parco una volta disse che tutto quello che non è oscurità o morte è una visione. Disse anche che siamo tutti allucinazioni di Dio.»

«Ricordo che una volta da bambina, era il mio compleanno, entrai in cucina e vidi un’enorme scatola di legno sul tavolo» disse Laina. «Ero così contenta. Non riuscivo a immaginare che meraviglioso regalo potesse esserci dentro una scatola così grossa.»

«Cos’era?»

«Una bara. Dentro c’era mia zia.»

Sonja si morse una nocca. Quando erano piccole fingevano di avere una terza sorella, una bambina dai capelli neri che si chiamava Lidija. Come Alu, la sorella fantasma non stava mai con loro, e in sua assenza potevano prenderla in giro, lagnarsi di lei, schernirla, incolparla di tutto e detestarla, e loro due potevano così volersi bene più semplicemente.

«Ho paura di uscire di casa» stava dicendo Nataša. «La città mi fa paura. C’è troppa aria aperta. Ho paura praticamente di tutti. Non so perché. Tutti mi fanno paura tranne lei. Persino Sonja mi fa paura. A volte, se mi lascio andare a pensare all’Italia, è come se smettessi di funzionare. È come se non potessi più controllare il mio corpo, mi si spegne il cervello, e devo chiudermi in camera e barricarmi dietro i mobili. Mi sento così stupida. Sono proprio un’idiota.»

«Li vedi i carri?»

«No, non ancora. Però vedo un portafoglio.»

«Un portafoglio?»

«Sì, c’era questo tizio che si stava vestendo, e gli è caduto il portafoglio dalla tasca dei calzoni, e in uno di quegli scomparti di plastica per le carte di credito aveva una foto dei suoi figli. Quello è stato il giorno in cui ho smesso.»

«Parlare di queste cose fa bene. Terrò sul chi vive i carri e i portafogli del mondo. Sapranno che li vediamo e che non abbiamo paura di passare per pazze.»

«Sì, mi piace parlare con lei.»

«Ci teniamo vive.»

Sonja si alzò ed entrò nel suo appartamento, timorosa di quello che avrebbe potuto sentire. Al tavolo della cucina esaminò il bicchiere di ghiaccio. Ogni cubetto si era arrotondato per la temperatura ambiente, dissolvendosi nei suoi stessi resti, e per quanto in ritardo comprese che era quello il modo in cui scompariva una persona amata. Nonostante lo shock che si prova entrando in un appartamento vuoto, l’assenza non è immediata, è più uno sbiadire del presente che si è condiviso, un fondersi con il passato, non una cancellazione ma un cambiamento di forma, dalla presenza al ricordo, da solido a liquido, e la persona che un tempo toccavi adesso ti scorre sulla pelle, ti scroscia lungo la schiena, e ti ci puoi bagnare, puoi immergerti, puoi annegare nel ricordo, ma le tue dita non possono afferrarla. Si portò il bicchiere alle labbra. L’acqua era pulita.