22
Dai camini del paese il fumo si alzava fra i tronchi di betulla, quando Achmed sentì un fischio basso proveniente dal folto degli alberi. Chasan, circondato dalla sua scorta di cani feroci, sbucò sulla strada, con una mano arancione a nascondere la luce della torcia elettrica. I cani, attenti, le orecchie dritte, lo studiarono circospetti.
«Non volevo che Ramzan vedesse che ti aspettavo» disse Chasan. Le sue dita mandavano un bagliore fioco.
«Ieri sera mi aspettava lui, mi ha chiesto di Havaa.»
«Ci ho parlato oggi. Per la prima volta dopo due anni. Mio figlio. L’ho supplicato.»
L’affermazione fece indietreggiare Achmed d’un passo. Sorpreso, onorato, grato che quell’uomo avesse interrotto il suo silenzio per amore di Havaa, per amor suo. Appoggiò il palmo su quelle dita raggianti e la strada tornò buia. «È tutto a posto.»
«Mi dispiace, Achmed, io...» un singhiozzo spezzò la voce del vecchio e Achmed gli strinse le dita. Quando era morta sua madre, Chasan aveva pianto al funerale. Quando era morto suo padre, Chasan aveva fornito il sudario. Achmed non l’aveva mai dimenticato: Chasan aveva condiviso il suo dolore come se fosse della famiglia. Si sentiva il rumore delle zampe dei cani nel sottobosco.
«Allora verranno a cercarmi.» Per anni aveva vissuto con il timore di essere assassinato, torturato, di scomparire, come tutti gli uomini della sua età, ed era l’assoluta mancanza di senso a spaventarlo più di tutto: che la monumentale irrevocabilità della morte potesse arrivare in maniera così arbitraria era più terrificante dell’eternità che seguiva. Ma se la sua morte avesse interrotto il collegamento tra la città e il paese non sarebbe stata né futile né insignificante, rendendolo più fortunato di migliaia dei suoi compatrioti.
«Non lo so» disse Chasan. La sua mano tremava sotto quella di Achmed.
«E Ramzan non sa dove sono stato negli ultimi tre giorni?»
«Non credo che lo voglia sapere. Finché il fardello della rivelazione ricade su di te, un minuscolo recesso della sua coscienza può mantenersi pulito.»
Pensò subito a lei, che infastidiva Sonja, le chiedeva perché le facce sono marroncine, perché le orecchie sono piegate, così giovane e sciocca e intelligente. Era una bambina senza genitori, e lui un uomo senza figli. Dieci anni prima non avrebbe mai pensato di reclamarla per sé, ma le regole di quella società si erano infrante. Non c’era più nessuno a stabilire chi si poteva amare.
«Non dirò una parola» sussurrò Achmed.
«Mi dispiace.»
«Il mio dovere è solo nei confronti di Havaa.» La luna delineò la faccia di Chasan. Le lacrime gli indugiavano sulle ciglia; teneva le labbra serrate, ma non sembrava contrito. Se Achmed non lo avesse conosciuto bene, gli sarebbe sembrata un’espressione di sconfinato orgoglio.
«Ti ricordi che Dokka, durante la prima guerra, si portava sempre appresso un libro?» chiese Achmed. «Ogni volta che passavano i Federali, Dokka apriva il libro e si metteva a leggere.»
Chasan sorrise, sollevato. «I Federali erano convinti che i ribelli non sapessero leggere, così leggendo un libro, Dokka dimostrava di non essere un ribelle.»
«Però non era neanche un libro, vero?»
«No, era un diario. Con tutte le pagine bianche. Ma loro non potevano saperlo.» Risero insieme e il fascio della torcia tracciò dei cerchi fra le ombre.
«E non gli spararono» disse Chasan.
«No, quella volta no.»
Dal cappotto, Chasan tirò fuori una busta marrone e la porse ad Achmed. Lo scambio fu quanto di più simile a un servizio postale ci fosse stato da anni. «Speravo che potessi consegnarla ad Havaa. È una lettera, alcuni ricordi di Dokka prima che diventasse padre. Così avrà qualcosa da guardare quando sarà più grande.»
«Sono contento che tu sia ottimista» disse Achmed.
«Che vuoi che faccia? So cosa richiederebbe l’onore, ma questo? Al mio stesso figlio? Con le mie mani? Come si può pretendere che arrivi a fare questo? Dimmi cosa devo fare, Achmed. Lo sai che il prossimo nome che darà ai Federali è il tuo. Dimmelo tu, cosa dovrebbe fare un padre?» Chasan si era sporto in avanti, gli sbuffi del suo alito da vecchio intiepidivano la guancia di Achmed, le sue mani gli si aggrappavano alle spalle. Era una sensazione strana. Non si erano mai abbracciati prima.
«Non lo so» disse Achmed. Una risposta giusta non c’era e lui era troppo stanco, aveva troppo freddo ed era troppo vicino a casa sua per esaminare tutte quelle sbagliate. «Non sono mai stato padre. Non lo so cosa dovresti fare.»
«Non sto chiedendo la tua approvazione. Ti sto chiedendo un consiglio.»
Achmed annuì. «Ci penserò.»
Chasan fece un passo indietro e la sua faccia, pallida al chiaro di luna, cambiò bruscamente espressione. Aprì la bocca, ma per un attimo furono solo i suoi occhi a parlare. Achmed avrebbe colmato il fragile spazio fra loro con la sua gratitudine. Avrebbe ringraziato Chasan per i consigli, le storie, il cibo, le sigarette, i silenzi, tutto, persino le interminabili lezioni di storia che avevano condiviso nel corso degli anni. Avrebbe detto che Chasan era stato come un padre per lui, nei dieci anni trascorsi dalla morte del suo. L’avrebbe detto, ma Chasan parlò per primo. «Mi considero fortunato a sapere chi sei, Achmed. Te lo volevo dire da tanto tempo.» I loro occhi si incrociarono e subito si lasciarono. Un riconoscimento così aperto del rapporto che c’era fra loro imbarazzò entrambi e Achmed annuì, voltandosi verso il paese, e non disse nulla.
Entrò nell’oscurità pesante del salotto e avanzò piano verso la luce della lampada in camera. «Sono io» disse dalla porta. «Come stai?»
Sotto le coperte, Ula si voltò e gli sorrise pigramente. «Oh, benissimo. Proprio bene. È tornato tuo padre. Mi ha raccontato una favola.»
Preparò la cena, lenticchie e albicocche in scatola, si tirò una sedia vicino al letto e mangiò con lei. La sua povera Ula. Stava davvero perdendo la testa. Negli ultimi mesi la sua salute era migliorata, ma l’insistenza con cui sosteneva di passare le giornate con suo padre defunto ormai da dieci anni dissipava ogni speranza di una guarigione. Pazienza. La testa era una cosa in meno che le restava da perdere. In una scatola di sigari sotto il letto, Achmed aveva nascosto una siringa ipodermica e una fiala di eroina che aveva preso in ospedale.
Dopo aver lavato i piatti ritrovò la sua copia di Hadgi-Muràd, infilata come zeppa sotto il canterano traballante, e la mise vicino alla porta. Chiuse le tende da oscuramento della camera prima di aprire la busta di Chasan. Dei fermagli d’ottone tenevano insieme quaranta o cinquanta fogli. Aprì le pagine a caso. A tuo padre piaceva il naso di tua madre. Era un coso grosso e per niente grazioso, e secondo lui stava continuando a crescere, e pian piano si sarebbe impadronito delle guance e della fronte, cosicché tutta la sua faccia sarebbe finita sommersa sotto il naso. Non poteva cominciare, non adesso, e fece scivolare di nuovo i fogli dentro la busta.
Nel letto posò una mano sul fianco ossuto di Ula. Non era il fianco che aveva toccato la loro prima notte di nozze mentre armeggiava e grugniva, così impacciato nella sua impresa da non essere minimamente preparato all’imbarazzo che lo colse quando lei aveva girato il naso verso la finestra aperta. Ma lo amava ancora di più, gli sarebbe mancato ancora di più. Litigavano sempre su tutto, discussioni che li lasciavano rauchi fino al mattino seguente, quando si perdonavano a vicenda in silenzio, davanti a una tazza di tè, una mano sulla spalla dell’altro, liberi dal peso delle voci che li separavano. Più di tutto gli mancava il suo disprezzo. Il modo in cui lei lo guardava come se non ci fosse. Il modo in cui lei sapeva quello che tutto il paese sospettava: era un medico incompetente, un amministratore anche peggiore, un romantico, un uomo che era felice soltanto quando tratteggiava schizzi di uccelli nel bosco. Il modo in cui lei sapeva tutto questo e continuava ad amarlo. Le fece scorrere le dita fra i capelli. Erano trascorsi giorni dall’ultima volta che glieli aveva lavati eppure erano ancora puliti. Sia lodato Allah se Ula parla ancora con mio padre. Se riesce a guardare così lontano oltre l’orizzonte, non vedrà quello che ha davanti.
«Ti ricordi chi sono?» le chiese, ma lei si era già addormentata.
«Sai come è stato inventato, quello?» chiese Sonja con un cenno verso lo stetoscopio che la bambina stava usando per auscultarsi il cuore. «L’ha inventato un medico francese che aveva un paziente grassissimo. Era così grasso che il medico francese non riusciva a sentirgli il cuore attraverso il petto. Così ha inventato lo stetoscopio.»
«Che strano» disse la bambina, spostando la campana come un pezzo degli scacchi, titubante. «Non ho mai visto una persona grassa.»
«Mai?»
«Mai. Però fra i miei souvenir ho l’autografo di un uomo che una volta era grasso.»
La bambina annotò la frequenza del proprio battito sulla cartella che le aveva dato Sonja. In preda a un improvviso interesse per la medicina, Havaa, infagottata in un camice da laboratorio che strusciava in terra, continuava a seguire Sonja fin dalla cena. Sonja ci aveva impiegato quasi un’ora ad accorgersi che la imitava in tutto e per tutto. La sua esasperazione si era quindi addolcita in un più lieve disappunto quando la piccola aveva cominciato a sgridare l’aria perché trasportava il contagio. Povera bambina, pensò, speriamo che si trovi un modello migliore.
Havaa reggeva la campana dello stetoscopio come se fosse un microfono e, tirando calci a un lembo di lenzuolo penzolante, si mise a intervistare Sonja. «Com’è fare il chirurgo?» le chiese.
«Bellissimo. Prossima domanda.»
«Perché non hai figli?»
«Fanno troppe domande.»
«Chi hai pagato per entrare alla facoltà di medicina?»
«Incredibilmente, nessuno.»
«E sei l’unica donna chirurgo del mondo?»
«A volte sembra di sì.»
«Qual è la tua malattia preferita?»
«La clamidia.»
«Se loro ti hanno permesso di diventare un chirurgo anziché una moglie, mi permetteranno di diventare un’arboricoltrice anziché una moglie?»
«Loro chi?»
«Lo sai.»
«Dimmelo.»
L’espressione della bambina si afflosciò nella rassegnazione: era passato tanto tempo, ma Sonja sapeva com’era avere quella faccia, cosa si provava a sentirsi meno intelligente del più stupido degli uomini, meno forte del più debole dei ragazzi, e con quelle idee che ti riempivano la testa non c’era da stupirsi che la subordinazione fosse l’unico risultato possibile. Rimase seduta sul letto d’ospedale accanto alla piccola, a ricordare com’era avere quella faccia e a provare compassione. «Senti, Havaa» le disse cercando di raccogliere tutta la generosità di cui disponeva a quell’ora di notte. «Tu puoi essere esattamente la persona che vuoi essere, d’accordo? Adesso può sembrarti che non sia così, ma quando sarai un pochino più grande le cose cambieranno. Se lavori sodo, e rinunci a certe cose e sì, di tanto in tanto ricorri a qualche mancia, potrai diventare un’arboricoltrice, o un’anemonista di mare, o qualsiasi altra cosa.»
E continuarono a parlare, passandosi lo stetoscopio.
«Hai qualche domanda da farmi?» le chiese la bambina alla fine dell’intervista.
Da quando Achmed se n’era andato quella sera, Sonja aveva tenuto in serbo la domanda, come avrebbe fatto con una lettera attesa da tempo, nel terrore di quello che poteva esserci dentro la busta. «In casa tua si è mai fermata una donna russa?»
«Quale? Si sono fermate un sacco di persone, in casa nostra.»
«Si chiamava Nataša.»
«Almeno trenta Nataše.»
«Mi somigliava.»
Havaa la guardò, critica. «Allora no.»
«Come me, solo più bella.»
La bambina inclinò la testa di lato. «Non riesco a immaginarlo.»
E poi le venne in mente. Perché non ci aveva pensato prima? Il disegno di Achmed. Fu in piedi e fuori dalla stanza prima che Havaa potesse chiederle dove andava. Perché gli aveva chiesto di prendere lui il ritratto? Dove poteva averlo messo? Si inerpicò fino al quarto piano e si fece di nuovo strada fino alla sua stanza, controllando il vecchio reparto maternità e anche il nuovo, il campo minato del bagno degli uomini, gli uffici amministrativi vuoti, la sala d’attesa. Mentre cercava, la sua mente guizzò al giorno in cui aveva comprato lo schiaccianoci a forma di guardia di Buckingham Palace. All’altezza del suo compito, aveva sopportato i voli attraverso l’Europa, ogni colpo della Samsonite, e persino la vergogna del nome Alu, senza mai perdere la sua compostezza.
Aveva trovato lo schiaccianoci in un piccolo emporio appiccicoso di bibite rovesciate, dove si era fermata a prendere delle caramelle per la tosse prima di andare a una lezione. Mancavano quattro settimane a Natale. La prima guerra sarebbe cominciata ufficialmente dopo dodici giorni. L’aveva comprato senza pensare neppure per un attimo a Nataša, d’impulso, perché era Buckingham Palace che veniva in mente agli stranieri quando pensavano a Londra, e lei, Sonja con la j, non era altro che una straniera. Nuvole grigie riempivano l’orizzonte quando era salita sulla scala mobile della metro a Holborn e aveva attraversato Lincoln’s Inn Fields in direzione del Royal College of Surgeons. Lì, a una lezione di neurochirurgia, aveva trascritto la contorta sintassi accademica inglese in un blocco rosa carico che aveva pescato in un cesto di oggetti a cinquanta pence. Adiacente al Royal College c’era un museo dedicato alla storia dell’anatomia e della patologia. Dopo aver ringraziato il docente, ed essersi fermata nell’atrio per una sigaretta e una caramella per la tosse, aveva vagabondato tra le strane opere in mostra nel museo. C’era un diorama che dettagliava la storia della mummificazione non egiziana. Una sezione dedicata alla tibia. In una sala erano esposti i 1.474 crani raccolti nel XIX secolo dal dottor Joseph Barnard Davis. Il cranio in frantumi di una donna romana, rinvenuto a Pompei. I crani di nove pirati cinesi impiccati a Ningpo. Di congolesi dalle piantagioni di gomma di re Leopoldo. Ma il cranio che più l’aveva affascinata era stato quello di un cannibale bengalese. Assolutamente intatto, la mandibola ancora incernierata all’osso temporale, le ventidue ossa che compongono un cranio umano tutte presenti. Le otto ossa che formano la scatola cranica illuminate dalla luce alogena. Dalla loro dimensione, dalla prominenza delle arcate sopraccigliari e dalla morfologia del temporale, oltre che dalle dimensioni generali e dalla solidità del cranio, sapeva che era di un uomo. Non aveva niente di diverso da quelli dei pirati cinesi e dei braccianti congolesi. Aveva letto la targhetta scritta un secolo e mezzo prima da un frenologo vittoriano. Non ci sono caratteri particolari che distinguano il cranio di un cannibale da quello di un uomo normale. L’associazione morbosa tra il cannibale e lo schiaccianoci, di cui non aveva mai accennato a Nataša, era tutto quello a cui riusciva a pensare mentre cercava il ritratto. Alla fine trovò il blocco sul bancone della sala mensa, sotto una pila di lenzuola piegate. Dall’ultima pagina Nataša la osservava con calma, attraverso occhi che non recavano traccia di giudizio o risentimento, i capelli trattenuti all’indietro da una fascia che non aveva mai posseduto, le orecchie appesantite da orecchini inesistenti. Era evidente che Achmed non l’aveva mai conosciuta.
I suoi passi, rallentando fino a una velocità da processione quando si avvicinò alla sua stanza, sgocciolarono come le ultime gocce da un rubinetto chiuso. Voleva sapere e non voleva sapere: le due cose erano sempre presenti, la tiravano da una parte e dall’altra, in un tiro alla fune di cui lei era la corda. Ma andava bene così, si disse: la verità era un’altra delle voci che si trasmettevano lungo la catena dei profughi, un’altra allucinazione cui poteva scegliere di non credere. Quando entrò nella stanza, la bambina si era già addormentata. Fece scivolare il ritratto in uno dei cassetti, grata di poter rimandare la risposta ancora per una notte.