25
Il martedì in cui Nataša era partita era stato il terzo giorno di dicembre più caldo a memoria d’uomo. Il cappotto di Sonja era ancora appeso all’attaccapanni dove l’aveva lasciato la mattina, dopo aver aperto la finestra per sentire la temperatura. Il malessere che Nataša aveva accampato quando Sonja aveva bussato alla sua porta con le dita ancora calde per averle tese al sole era, in realtà, una crisi d’astinenza. Da quando Maali era caduta insieme al quarto piano, Nataša si era stordita a botte di eroina. Escludendo la prima dose, rubata dalla siringa destinata al braccio di Maali, si limitava a sniffarla. Non più di una volta o due al mese per il primo anno, abbastanza di rado per riuscire a convincersi, con un minimo di credibilità, che fosse lei a controllare l’eroina e non il contrario. Poi c’era stato il periodo in cui aveva visto partorire tre bambini morti nel giro di una settimana, il periodo in cui il gelo invernale era penetrato fino alla terza settimana di maggio, il periodo in cui un dolore le si era insinuato nella caviglia sinistra e ci era rimasto per mesi, il periodo in cui si svegliava molle come una zucca fradicia e due volte più brutta. Il mondo doveva essere diventato più crudele, perché presto si ritrovò a sniffare su base quotidiana. La caduta di Maali, credeva Sonja, era stata la causa del suo malessere, come se Nataša fosse collegata all’infermiera, come se la sua regressione si potesse spiegare con quella precisione. Persino mentre Nataša infrangeva tutti i suoi standard prima ancora di poterli abbassare, uno era rimasto immutabile: non avrebbe mai più usato di nuovo un ago. Così la sera prima, sul tardi, quando si era ritrovata a piantarsi un ago in quel punto così familiare fra le dita dei piedi, si era ripromessa di partire il giorno dopo. Con sua grande sorpresa, la mattina si svegliò. Con sua ancor più grande sorpresa, mantenne la promessa.
Si rifece il letto, pulì la sua camera meglio che poteva, e mise quello che le serviva nella Samsonite nera di Sonja. Prima di andarsene si sedette al tavolo della cucina, di legno di betulla, che suo padre aveva costruito con le sue mani per loro. Era traballante, con i chiodi che gli impedivano di smontarsi e bustine di fiammiferi sotto due delle gambe, un tavolo che il rifugio per i poveri avrebbe rifiutato, ma sul quale aveva mangiato per tutta la vita, perché il tè rovesciato e il tetano non avrebbero ammazzato nessuno più in fretta dell’orgoglio ferito di un padre. Cercò di buttare giù un biglietto per Sonja ma l’intero alfabeto la tradì. Che poteva dire? Qualsiasi scusa non sarebbe forse sembrata un insulto alla sorella che aveva rinunciato – ora poteva ammetterlo – a una vita decente a Londra per lei? No, meglio non dire nulla, per adesso. Avrebbe mandato un messaggio a Sonja dai campi profughi, quando fosse arrivata troppo lontana per tornare indietro. Se avesse saputo quanto dolore avrebbe provocato la sua partenza senza parole, avrebbe scritto la frase che le pulsava in testa: Grazie, Sonja.
Si incamminò sulla strada forestale allontanandosi dalla città, verso il confine, sul sentiero battuto da cinquantamila profughi prima di lei. Dove sarebbe andata, dai campi? Probabilmente in Turchia, Armenia o Azerbajdžan, anche se avrebbe preferito la Cina o le Hawaii, qualche paese dove nessuno parlasse russo o ceceno. Voleva sillabe straniere da trattenere sulla lingua come mentine finché si fossero sciolte in scorrevolezza. Le foglie bagnate che coprivano la strada forestale si impigliavano nelle rotelle della valigia. Era una giornata caldissima, eppure lei aveva freddo. Al tramonto aveva percorso soltanto gli undici chilometri fino a Eldár.
L’ultima volta che era passata da Eldár era stato nel cassone di un camion coperto da un telone, con cinque donne. Allora non sapeva come si chiamava il paese. La strada forestale si allargava nel tratto che diventava la strada del paese, da cui le viuzze laterali si diramavano nell’oscurità. Anche se le linee elettriche sospese in aria portavano corrente, non c’erano lampioni a illuminare quelle fenditure strette. Arrivò a una veranda dove due donne sferruzzavano e spettegolavano nell’aria calda e chiese dove poteva trovare una stanza. Le fecero segno di proseguire.
Un terzo delle case era rovinata dal fuoco o dalle esplosioni, o addirittura dai precedenti occupanti che, come i contadini che spargevano il sale sui loro campi, sembravano convinti che la distruzione fosse l’ultimo atto del possesso. Alcuni ritratti pendevano inquietanti dai pali della luce e dalle porte, facce che la fissavano vuote. Chiese una stanza a una donna anziana e lei le indicò una casa ancora più avanti, con la porta verde, dove un uomo che si chiamava Dokka offriva posti letto ai profughi diretti verso il confine.
L’uomo di nome Dokka le aprì la porta con un piede. La guardò sospettoso e lei temette che la sua carnagione, diventata ancora più chiara da settembre, tradisse la sua origine etnica. Invece poi l’esitazione esplose in un fuoco d’artificio di riconoscimento. «Nataša!» esclamò spalancando le braccia per accoglierla. Attaccate a esse c’erano due mani orripilanti, senza dita. Lei fece un passo indietro. Lui la conosceva per nome, ma non si erano mai incontrati. Quelle cose che aveva in fondo alle braccia non se le sarebbe potute scordare.
Le chiese se si ricordava di lui.
«Mi dispiace. Come potrei?»
Rise, una risata rumorosa e viva, mentre lei gli fissava le mani. Quelle, se non altro, non facevano ridere. «L’ho conosciuta sette anni fa nel reparto maternità dell’Ospedale n. 6. Non mi scorderò mai di lei per tutta la vita. Sono Dokka. Lei ha fatto nascere mia figlia, Havaa.»
Nataša provò a ripetere il nome, ma senza riuscire ad abbinarlo alle centinaia di neonati che conservava nella memoria. Dietro di lui c’era una bambina con i capelli castano chiaro, gli occhi verdi, e dieci dita. Tutte al loro posto. Nataša cominciò a informarsi sui letti per i profughi, ma Dokka la interruppe. «Venga dentro. Può fermarsi tutto il tempo che vuole.»
Le stanze sembravano amputate all’altezza della vita: niente si trovava più in alto della portata di un bambino. Dokka, rifiutando cortese la sua offerta d’aiuto, utilizzò le mani come forcipi e si diede da fare in cucina. Prese un fiammifero fra i denti, lo strofinò contro il muro e lo sputò nella stufa aperta. Negli ultimi quattro anni aveva preparato il tè per forse duemila profughi, ma questa volta voleva che gli venisse speciale. Lei si offrì di nuovo di aiutarlo, ma lui aveva preparato tè per duemila persone senza mai sbagliare, e voleva il suo aiuto solo per berlo.
«È diretta ai campi profughi?» le chiese. Nataša annuì. Aveva sentito parlare di campi sovraffollati, dove un solo rubinetto doveva bastare per tremila anime. Ma il bello delle voci incontrollate era che non si potevano controllare, e questo le permetteva di non credere a quello che voleva. Nonostante tutto quello che era successo, la descrizione che Sonja aveva fatto di Londra l’attirava. Voleva vivere là.
«Non dovrebbe viaggiare sola. Ci sono soldati e banditi in giro, spesso sono la stessa cosa. Dovrebbe viaggiare in gruppo, con almeno un uomo.»
Non poté evitare di sorridere. «L’ho già fatto, in passato. Non ha funzionato.»
«Ed è anche russa? No, no, no.» Dopo un momento, Dokka accennò alla sedia vuota accanto a Nataša. «Prima che parta penseremo a qualcosa.»
Quando la bambina tornò, dopo una mezz’ora, con un bottino di pigne, piume d’uccello e foglie secche suddivise per colore, suo padre, con un tono di affettuosa esasperazione, le disse di levarsi quelle scarpe piene di fango. Lei posò con cura il suo tesoro sul tavolo della cucina e li seguì in camera. Non aveva ancora detto una parola a Nataša. In piedi davanti all’armadio aperto, Dokka spiegò che sua moglie era morta quella primavera. Gli mancava moltissimo, non ultimo perché la sua morte aveva lasciato la casa con un solo paio di mani funzionanti, ancora troppo piccole e deboli per tagliare la legna da ardere, però aveva un armadio pieno dei suoi vestiti, con cui le tarme avrebbero banchettato prima che Havaa fosse cresciuta abbastanza da poterli mettere quindi, disse lui prima di uscire dalla stanza, per farla breve, Nataša poteva scegliere quelli che voleva. Mentre si spogliava cercò di nascondere i segni delle bruciature, ma la bambina aveva visto di peggio e le osservò senza giudizio e senza disgusto. In mancanza di uno specchio, dovette chiedere alla bambina il parere su ogni abito. La bambina scuoteva la testa, no, no, no. Aveva visto sua madre con quel vestito, e quell’altro, e vedere ognuno di essi addosso a un’estranea le faceva male, e fece segno di sì solo quando Nataša si provò un vestito premaman. L’unico in tutto l’armadio che non aveva mai visto addosso alla madre.
Dopo cena, Dokka le diede delle lenzuola pulite e la condusse nella camera che era stata di sua figlia. Nel mondo esterno c’erano duemiladiciotto anime che avevano dormito in quella stanza e se la ricordavano e l’avrebbero conservata nei loro pensieri per non meno di novantanove anni, finché una bambina che una volta Havaa aveva visto dormire, l’ultima rimasta in vita dei duemila, avrebbe chiuso gli occhi per l’ultima volta.
Distesa sul lettino in fondo a quello di Nataša e appoggiata sui gomiti, Havaa guardava gli occhi capovolti di Nataša e le chiese di mostrarle le mani. «Tu ce le hai ancora» disse flettendo le dita di Nataša.
«E intendo conservarle.»
«Mia madre ha conservato le sue, eppure è morta.»
«Di solito non sono loro a decidere.»
La bambina non ne era altrettanto convinta. «Mio padre dice che le tue mani sono state le prime a tenermi.» Aveva smesso di piegarle le dita e adesso si limitava a stringerle forte.
«Ho aiutato tua madre a partorire. Ho fatto in modo che fosse pulita e comoda. E quando sei uscita, mi sono assicurata che lo fossi anche tu.»
«Una volta ho visto dei coniglietti appena nati» disse la bambina, orgogliosa. «Somigliavo a loro?»
«No, per niente. Eri bellissima.»
Una smorfia le comparve in faccia. «Io volevo sembrare strana.»
«Ma lo eri, strana» disse Nataša, un po’ troppo in fretta.
«Non ti credo.»
«Le gambe ti crescevano dalle spalle, le braccia sbucavano dalle ginocchia e respiravi dal culetto. Ho dovuto rimettere a posto tutto. Quel giorno ho dovuto saltare il pranzo per colpa tua.»
La bambina sorrise raggiante sopra di lei. «Nei campi farai nascere i bambini?»
«È stata una giornata lunga. Parliamone domani.»
La bambina spense la lampada e un filo di fumo sottile salì a spirale dallo stoppino, infilandosi nello sbadiglio di Nataša. Avrebbe potuto contare le assicelle del letto attraverso il materasso sottile. Le coperte pesanti, grigie, abbastanza ruvide da poterci raschiare una padella, conservavano l’odore di tutti quelli che avevano scaldato. Dove sarà stata sua sorella in quel momento? E si stava facendo la stessa domanda? Ci sarebbe stato il tempo per i sensi di colpa, per i ripensamenti, per i ritorni, ma adesso era il momento di riposare, e mentre scivolava nel sonno, un sonno così profondo che neppure le lunghe dita dei sogni potevano raggiungerla, sentì la bambina che diceva: «Sono contenta che tu ce le abbia ancora, le dita. Altrimenti sarei caduta».
A colazione, Dokka la invitò a fermarsi ancora una notte o due. Magari sarebbe arrivato un altro gruppo di profughi, al quale potersi unire. Una saggezza che persino una bambina avrebbe potuto elargire ma, poiché veniva da lui, dalla sua gentilezza e ospitalità, Nataša decise di restare anche se si trovava ad appena una dozzina di chilometri da casa. La bambina nascose il proprio sorriso dietro una cucchiaiata di kaša. Havaa voleva mostrarle il bosco e così, dopo aver lavato i piatti, tornarono in camera a vestirsi.
«Ti va di vedere la mia collezione di souvenir prima di andare?» chiese Havaa. «Ho una collezione di tutte le persone che sono passate di qui.»
Aprì il cassetto prima che Nataša potesse suggerire di guardarla quando non fossero coperte di così tanti strati di vestiti da poterci arrostire dentro. C’era la corolla di un fiore secco, raccolto in terra d’Ucraina ventidue anni prima, unica voce di un diario per il resto vuoto. Tre bottoni d’ottone che avevano chiuso la giacca di un uomo d’affari fallito tre volte che a Hoboken, New Jersey, aveva già cominciato a preparare i documenti per aprire un’agenzia di riscossione che lo avrebbe reso milionario nel giro di otto anni. Un anello portachiavi con due chiavi che aprivano la porta di una casa che non esisteva più.
«Devi darmi qualcosa prima di andartene» disse la bambina.
«Mi caverei persino un dente di bocca purché usciamo di qui. Mi si sta formando una palude nei vestiti, sento già i girini.»
Prendendola per mano, la bambina guidò Nataša attraverso le sterpaglie, finché il bosco dimenticò la strada forestale e i tronchi di betulla nascosero i camini del paese. La terra molle faceva uno strano effetto sotto le scarpe. Quand’era l’ultima volta che aveva sentito sotto i piedi qualcosa di diverso dall’asfalto, dal cemento e dal linoleum? Quando aveva oltrepassato il confine a piedi con altre cinque donne di cui continuava a ignorare i nomi. Ma adesso era meglio.
Nei mucchi di foglie fradice e marce trovarono vermi e larve e creature crostacee che, concordarono entrambe, sembravano più adatte agli abissi oceanici. Trovarono una catena montuosa di escrementi di cervo, scalata e perforata da una brigata di formiche rosse. Il sole stava bruciando uno squarcio al centro del cielo e Nataša si stava chiedendo se Dokka fosse in grado di impastare la farina per il siskal, quando la bambina si fermò di colpo. «Cosa c’è che non va?» chiese Nataša.
La bambina accennò a un’apertura fra gli alberi, a una ventina di metri di distanza, dove due bande color acquamarina sbucavano come due strisce di cielo fuori posto. Quando si avvicinarono, Nataša vide che quell’acquamarina non era del cielo, ma si trattava invece delle gambe riempite di paglia di un paio di calzoni azzurri.
«Uno spaventapasseri?» chiese Nataša. Una camicia sbiadita dell’Armata Rossa languiva sopra i calzoni. Nove soldati erano vissuti e morti dentro quella camicia. Lo spaventapasseri, che per la curvatura del tronco di betulla che gli faceva da spina dorsale pareva ubriaco, era stato decapitato. Inchiodata all’albero, dove avrebbe dovuto esserci la testa, c’era una tavola divorata dal muschio.
«No» disse la bambina. «È Akim.»
«Chi è Akim?»
Troppo piccola per spiegarlo a parole, la faccia della bambina era comunque abbastanza grande da esprimere la perdita che c’era in quel nome. Nataša, che non capì cosa volesse dire, per un attimo ne fu irritata, perché riteneva immorale sprecare la propria pietà quando c’erano forme di vita più meritevoli ma, del resto, di tutte le persone possibili, chi era mai lei per giudicare come la bambina elargisse la propria compassione? Cinse Havaa con un braccio. L’intera spalla ossuta della bambina le entrò nel palmo; la piccola alzò la mano e le si aggrappò alle dita. Se Akim avesse potuto vederle, le avrebbe prese in giro tutt’e due per settimane.
Quella sera, dopo cena, venne a trovarle un uomo alto, magro e barbuto, in presenza del quale Dokka divenne assai riservato. Si chiamava Achmed. Chiese notizie dell’ospedale, mostrandosi particolarmente interessato al reclutamento del personale. L’ospedale non aveva più rispettato certe formalità da prima dell’arrivo di Nataša – lei non aveva mai seguito un corso di pronto soccorso, gli confidò – e se lui voleva davvero andarci a lavorare, Sonja Andreevna Rabina l’avrebbe assunto di sicuro. La luce che aveva cominciato ad accendergli lo sguardo si attenuò quando Nataša aggiunse che nessuno dei dipendenti dell’ospedale percepiva un salario da anni. E poi le fece una strana domanda: aveva mai usato del filo interdentale per una sutura? Nataša stava dubitando della sua sanità mentale, quando l’uomo le descrisse un comandante ribelle che, due anni prima, era arrivato in paese con il torace ricucito con il filo interdentale. Poteva essere opera di Sonja, disse Nataša, che sarebbe stata capace di cucire un leone sulla schiena di uno gnu. Lui non aveva mai visto una sutura così perfetta, con nessun materiale, figurarsi con del filo interdentale, e si ricordava esattamente i ventitré punti che si incurvavano lungo la ferita a mezzaluna che il comandante aveva definito il sorriso del suo petto, e quel ricordo lo perseguitava, rammentandogli le inaspettate meraviglie che una mente brillante è in grado di partorire. Nataša concordò di tutto cuore, avallando il suo equivoco di una Sonja capace di fare miracoli, e non per cattiveria, ma per un senso di orgoglio che si estendeva per gli undici chilometri che la separavano da casa.
Dokka non disse una parola ad Achmed, nemmeno per salutarlo all’arrivo o al commiato, e quando se ne andò Nataša chiese se era stato invitato.
«Viene una volta alla settimana» spiegò Dokka. «Di solito quando qualche viaggiatore si ferma qui. Gli piace parlare con le persone, ottenere notizie da fuori. E ci aiuta con i lavori troppo gravosi per le mani di Havaa. Come tagliare la legna.»
«Ma a lei non piace?»
Dokka fece un sorriso triste. «Una volta era il mio migliore amico. Mi dispiace solo di non poter rifiutare il suo aiuto.»
In camera, Nataša si spogliò sotto lo sguardo inquisitorio della bambina. «Hanno portato anche te alla Discarica?»
«No» rispose Nataša.
«Allora perché hai quei segni sulle spalle?»
D’istinto, tese le mani a coprire le cicatrici in rilievo. Ce n’erano tre dozzine, sparpagliate sulla spalla sinistra e sul collo e, se Sergej non fosse passato alle gomme da masticare alla nicotina, ce ne sarebbero state almeno tre dozzine in più. «Non è niente» disse infilandosi in fretta una camicia da notte. «Una volta mi sono addormentata al sole. Dopo, per mesi, non sono più riuscita a dormire coricata sulla schiena. Solo un ricordo di quanto ero scema da giovane.» Dopo essersi lavata i denti, chiese: «Lo spaventapasseri è andato nel bosco da solo?».
«L’ho aiutato io» si vantò la bambina.
«Dev’essere stato pesante.»
«Mi ci sono voluti tre giorni. Lo trascinavo per strada e poi tutte le sere lo nascondevo, così nessuno lo prendeva.»
«Perché?» chiese Nataša.
«Per Akim.»
«L’hai nominato anche prima. Chi è?»
«Nessuno, in realtà.»
«È una specie di amico immaginario? Io e mia sorella, da piccole, facevamo finta di avere una sorella immaginaria.»
«No!» disse la bambina, orripilata all’idea. «Akim non è immaginario.»
«Scusami, chiedevo soltanto.»
«Sei cattiva.» A Nataša sembrò di essere entrata in un paese straniero di cui non capiva abitudini e usanze, dove i suoi gesti di compassione erano considerati offese. La Samsonite era rimasta aperta dopo che aveva tirato fuori i calzerotti di lana per la notte, e attraverso l’apertura si intravedeva il cappello nero di finta pelliccia dello schiaccianoci a forma di guardia di Buckingham Palace. Senza fermarsi a considerare le migliaia di chilometri che lo schiaccianoci aveva già percorso o la possibilità di averne bisogno per trarne conforto nei giorni difficili, lo tirò fuori dalla valigia e lo regalò alla bambina come pegno di pace.
«Tieni» le disse. «Un souvenir.»
Lo schiaccianoci era largo quanto la mano della bambina e due volte più lungo. Mentre lo studiava, la curiosità consumò la sua rabbia. «Chi è?» chiese.
Com’è che avevano chiamato quell’ometto di legno che non rideva mai? Si distese sul letto, più preoccupata di perdere quel nome che lo schiaccianoci stesso, e invece eccolo: dopo anni che l’aveva pronunciato era proprio lì.
«Alu» rispose.
Cinque notti, e i profughi promessi da Dokka ancora non erano arrivati; la mattina del sesto giorno, Nataša annunciò la propria partenza. Dopo colazione, Dokka le chiese di seguirlo in camera. Sei nastri chiusi ad anello penzolavano dai sei pomoli dei cassetti del canterano; Dokka infilò il polso nel primo e aprì un cassetto che conteneva gioielli, monete straniere, orologi e portafogli, una versione più stravagante della collezione di sua figlia.
«Proprio lì» le disse. «Lo vede quel fazzoletto rosso? Lo prenda.»
Il fazzoletto era avvolto attorno a un oggetto a forma di L. Il suo peso diede sostanza ai timori di Nataša quando lo sollevò.
«È una pistola semiautomatica Makarov» le disse. «Basta togliere la sicura, puntarla sul bersaglio e sparare.»
A eccezione dell’impugnatura beige, la pistola era tutta d’argento; una nuvola di passaggio ne attenuò lo splendore. Nataša aveva visto pistole alla televisione e al mercato, nelle mani dei ribelli, dei soldati e dei delinquenti, puntate contro di lei nel parco e al Campo Scuola, ma non si era mai trovata prima d’allora da questa parte della canna.
«Più facile che mi porti via la testa, prima di riuscire a colpire chi ho preso di mira» disse Nataša. Non voleva la pistola e glielo disse, ma lui insistette, spiegando che il compagno Makarov l’avrebbe protetta per quelle strade pericolose. «Fornite armi a tutti i vostri ospiti?» chiese lei con un sorriso.
«Lei è la prima.»
«Perché?»
«Dopo che ho perso le dita, ho pensato che Havaa dovesse imparare a sparare. Ma quando me la immagino che spara ai Federali, e penso a quello che succederebbe dopo... Sa che deve scappare. Meglio se non abbiamo una pistola.»
«Ma perché darla a me?»
«Perché voglio proteggere la persona che mi ha dato Havaa.» Non seppe cosa ribattere. Dokka insistette affinché se la tenesse addosso, e quando abbracciò Havaa per salutarla le premeva sul seno sinistro. La bambina si aggrappò alle dita di Nataša e Nataša se li staccò entrambi di dosso, grata, e si affrettò nella luce fredda del mattino prima che le loro manifestazioni di amicizia la paralizzassero. Il retro delle scarpe le feriva le caviglie, ma non si sarebbe fermata a infilare un altro paio di calzerotti finché non si fosse allontanata dalla casa di Dokka quanto bastava per precludere la possibilità di un ritorno. Le abitazioni di legno, mattoni e calcestruzzo rimpicciolirono mentre raggiungeva l’estremità meridionale del paese. Stoppie di vecchie erbacce coprivano i campi incolti. Il bosco si chiuse attorno alla strada. Appeso a un albero c’era l’ultimo ritratto, una donna con lunghi capelli scuri e il naso aquilino, che Nataša riconobbe ma non riuscì a identificare. Di tutti i ritratti del paese, era il più preciso e dettagliato. Al centro di un’immagine per il resto colma di serenità, le labbra della donna erano socchiuse, un centimetro appena, a rivelare non più di un’idea di lingua, il quarantaduesimo ritratto, se Nataša li avesse contati, l’unico in cui il soggetto apriva la bocca in una frase o un sospiro, una parola detta e ascoltata per l’eternità, o un’espressione di rimpianto – se della donna o dell’artista, Nataša non avrebbe saputo dirlo. Fissò il ritratto per diversi minuti prima di capire, in ritardo, perché la donna le sembrava tanto familiare. Forse quegli occhi grandi come castagne l’avevano riconosciuta. Dopotutto, Nataša aveva addosso il suo vestito premaman.
Percorse venti chilometri prima del tramonto. Aveva sperato di arrivare in qualche paese in cui godere anche solo di un assaggio dell’ospitalità di Dokka, ma i resti saccheggiati degli insediamenti dei taglialegna erano l’unico segno di presenza umana. Per il resto, solo boschi. Si inoltrò fra gli alberi abbastanza in profondità da non lasciare filtrare neppure un barlume del suo fuoco da campo fino alla strada. Ripensando agli insegnamenti del Profeta del parco, si fece un fuoco di rami secchi e foglie morte. Dokka le aveva dato una razione di emergenza umanitaria G-4: tre scatolette di latte condensato e una di carne. Secondo i Federali che le avevano distribuite, si trattava di cibo sufficiente a nutrire un uomo di corporatura media per tre giorni, il che corroborava il suo sospetto di lunga data che in Russia dovevano essere tutti nani o idioti. Allungò il latte con l’acqua di scorta, scuotendo il composto finché non fuoriuscirono spruzzi di schiuma lucente tinti dalle fiamme, che imperlarono il bordo della borraccia come minuscole uova dorate di pesce. Quando fu l’ora di dormire spense il fuoco e, come le aveva insegnato il Profeta del parco, srotolò il sacco a pelo sul terreno carbonizzato, che le avrebbe piacevolmente scaldato la schiena mentre si addormentava.
Il giorno dopo camminò per dieci o venti o quaranta chilometri. Il giorno successivo forse di più, forse di meno. Per mille volte considerò l’idea di tornare indietro, ma la minaccia di tutte le nuvole della Cecenia non poteva essere peggiore di un altro pomeriggio nel corridoio dell’ospedale, a lottare contro i dieci passi che la separavano dall’armadio della mensa. E santiddio, cosa le aveva fatto pensare che la Samsonite fosse una buona idea? Terra e ghiaia bloccavano le ruote e la trasformavano da una valigia a rotelle in una valigia da trascinare e infine in un’incudine con la maniglia estraibile. Chi poteva essere così folle da presentarsi in un campo profughi con una Samsonite? Concentrò tanta di quell’energia emotiva nella Samsonite che non gliene rimase più per valutare quello che aveva fatto a Sonja.
Ogni giorno le montagne diventavano più alte. Abbondavano i posti di blocco e di controllo, di solito presidiati da giovani soldati troppo timorosi per indagare sui movimenti nel bosco. Ma la sera del quarto giorno, con ventotto chilometri di fatica sulle spalle, Nataša arrivò a un posto di controllo più grande e meglio illuminato degli altri. La barriera metallica, coperta di filo spinato, si estendeva nei campi e nel bosco, e impediva la solita circumnavigazione. Fosse arrivata al posto di controllo quando ancora il sole le scaldava le ossa, sarebbe forse tornata indietro fino alla strada interna che aveva incrociato due ore prima. Fosse stata estate e non fosse stato necessario scaldare e asciugare il terreno con il fuoco, avrebbe potuto bivaccare nel bosco e aspettare la mattina per gettare più luce sulle sue opportunità. Ma non era né giorno né estate. Era notte; faceva freddo; le sue ossa la detestavano; voleva solo arrivare dall’altra parte, scaldare il terreno e dormire, dormire, dormire. Inoltre, era una profuga destinata a un campo profughi e, nella stanchezza che la ottenebrava, credette che i soldati avrebbero onorato le leggi internazionali che le garantivano il passaggio.
Un fascio di luce la inquadrò: non avrebbe saputo dire se la guidasse o la seguisse. Un megafono le ordinò di tenere le mani in vista. La fatica e la fretta avevano offuscato il suo giudizio e solo allora, mentre procedeva nel fascio di luce con una mano alzata e l’altra a trascinare la valigia, cominciò a preoccuparsi. Aveva immaginato che anche quel posto di blocco fosse presidiato da soldatini appena usciti da scuola e con la nostalgia di casa. Ma quando vide sulle loro mani i tatuaggi da galeotti, quando l’ufficiale occhialuto si accigliò alla vista della banconota da cinquanta rubli che aveva mostrato al posto del passaporto, si rese conto del suo errore al di là di ogni possibile dubbio. Questi erano kontraktniki e quella era la linea del fronte, non un posto di blocco. La Makarov le pesava addosso sempre di più a ogni secondo che passava inosservata. Gli uomini considerarono i suoi assorbenti igienici abbastanza sospetti da esaminarli, eppure non avevano ancora perquisito lei. Si raccolsero attorno alla sua sveglia da viaggio come indigeni di una tribù primitiva. E intanto la pistola era sempre più pesante sul suo seno.
Forzò la mente verso la clinica romana per donne che, nonostante tutte le maledizioni che le aveva lanciato, restava nel suo ricordo un sinonimo di salvezza. Le avevano prelevato il sangue e l’avevano fatto passare attraverso una specie di distributore automatico che lampeggiava cifre rosse e gialle. Era risultata positiva a una mezza dozzina di malattie veneree, tutte con nomi da manuali di geometria. In gruppo, ascoltando le confessioni di donne che avevano nostalgia dei loro papponi, che avevano il terrore di cos’avrebbero detto le loro famiglie, che non dormivano per la paura di risvegliarsi nel bordello, aveva annuito riconoscendosi. Estranee provenienti dalla Polonia e dalla Turchia e dalla Siberia avevano parlato con il suo fiato. La sua speranza di liberazione aveva resistito a lungo prima di morire. Era sopravvissuta al Campo Scuola, al Kosovo, alle botte, agli stupri e all’eroina. Era sopravvissuta più a lungo della negazione e dell’indignazione, più dei tre denti che aveva perso. Era sopravvissuta finché a un cliente era caduto dai pantaloni il portafogli e si era aperto sul pavimento. Nello scomparto di plastica trasparente c’era la foto di due bambini, maschio e femmina, con i maglioni coordinati e un sorriso imbarazzato. Aveva supplicato quell’uomo, un marito, un padre di famiglia, di liberarla. Ma lui si era limitato a guardarla come se gli avesse appena chiesto di appiccicarle delle penne sulle braccia. Quando era venuto il suo turno, lo aveva raccontato alle altre, e loro l’avevano guardata e avevano annuito.
Ma la salvezza era un altro paese, e lei non sapeva se ce l’avrebbe fatta ad arrivarci. I soldati continuarono a tirare fuori tutto e scuoterlo, a disfare e aprire, mentre sul suo seno la Makarov cresceva alle dimensioni di un Kalašnikov, poi di un lanciarazzi Katjuša. I soldati erano arrivati a strappare le ruote della Samsonite e ancora non l’avevano toccata. Mentre si raddrizzava il fazzoletto in testa, finalmente Nataša capì. L’avevano presa per una tradizionale donna cecena.
Un ufficiale più anziano, profumato con tanto dopobarba da ubriacare uomini di levatura inferiore, emerse dalla baracca mimetizzata che costituiva il posto di comando. Sulle spalline gli brillavano delle stellette d’oro. Un’aquila bicefala faceva capolino sul suo fermacravatta. Aveva la scriminatura a sinistra e un ampio riporto sulla calvizie incipiente. Niente sfuggiva ai suoi grandi occhi azzurri. I soldati lo chiamarono colonnello.
«Mi scuso per il fastidio» le disse in un russo pastoso. «Potrà tornare presto alla sua strada.»
Diede un ordine sommesso ai soldati. Non aveva motivo di dubitare di lui quando i soldati cominciarono a ripiegare i suoi vestiti e a richiudere la valigia legandola con lo spago.
«Da questa parte» disse il colonnello. Guidandola per un gomito come avrebbe fatto un gentiluomo, la indirizzò verso il bosco. «Deve firmare qualche documento prima che possiamo lasciarla passare. Sfortunatamente, i moduli si trovano in un avamposto a mezzo chilometro a ovest.»
Non sapeva in quale punto esatto la verità le si fosse cristallizzata nella mente, forse il quinto passo o il sesto, o l’ottavo o il diciottesimo, ma molto prima di raggiungere il bosco capì cosa stava per farle quell’uomo. Il colonnello, che incolpava la guerra del fatto che la sua prima moglie un tempo avesse vissuto lì, ancora non lo aveva deciso.
Per tutto il percorso, il colonnello continuò a parlarle con il tono comprensivo e mellifluo di una persona stufa della burocrazia quanto lo era lei: naturalmente sarebbe stato ben felice di lasciar passare una profuga graziosa come lei senza ulteriori indugi, se solo la decisione fosse dipesa da lui. Senza farfugliare. Il suo braccio la guidava con tanta cortesia che davvero avrebbe voluto credere che si stavano dirigendo verso un avamposto pieno di moduli nel bel mezzo del bosco. Di tanto in tanto le arrivava l’odore della sua gomma da masticare. Quando raggiunsero il margine del bosco, le disse di fermarsi. La luce del posto di blocco gli brillava negli occhi, ma erano lontani persino da quella discutibile società. Le sciolse il nodo del fazzoletto e le fece scivolare le dita fra i capelli. La sua prima moglie era stata la prima di cinque. Ciascuna di loro aveva conosciuto le altre dopo il divorzio e con ciascuna di loro avevano ricomposto pezzo per pezzo la propria vita. Le cinque mogli erano state damigelle d’onore al secondo matrimonio di ciascuna delle altre. I figli dei loro secondi mariti erano stati battezzati insieme e, molto dopo, due dei loro trentanove nipoti si sarebbero uniti in un matrimonio non destinato a concludersi con un divorzio. L’amicizia fra le sue ex mogli era l’unica cosa decente che il colonnello avesse creato nel corso dei suoi quarantasette anni di vita.
«Si tolga i vestiti» le disse stancamente il colonnello, come se si trattasse di un ulteriore dovere che la burocrazia gli imponeva.
«No» disse lei. Non aveva mai rifiutato così un uomo. Le si era seccata la bocca e tutto il corpo sembrava ronzarle quando lo ripeté. «No.»
«Togliteli» ripeté il colonnello.
«No.»
Il dorso della sua mano incontrò la guancia di Nataša con uno schiocco violento. Il colonnello si massaggiò le nocche. Fosse stato almeno rabbioso o eccitato, Nataša avrebbe anche potuto arrendersi, ma la sua faccia non rivelava alcuna emozione, niente che lasciasse intendere che anche solo uno di loro due era umano. In quattro bordelli aveva conosciuto qualsiasi forma di disperazione a cui Dio avesse attribuito i testicoli, e gli unici uomini che non riusciva a dimenticare erano quelli che avevano bisogno di provocare dolore anziché ricevere piacere. Il manrovescio del colonnello le bruciava sulla guancia. Sotto quei capelli impomatati, il colonnello era tutti gli uomini del Mediterraneo che ancora ricordava.
«Va bene» disse. «Lo farò.» Neppure la resa gli accese una scintilla negli occhi. Nataša allungò la mano verso i bottoni del cappotto. Nel petto le si era insediata una banda musicale. Le sue vene vibravano. Sbottonò il cappotto, ma non aveva intenzione, né in quel momento né mai, di toglierselo. Le occorse tutta la sua forza per sollevare la Makarov dalla tasca interna. Il suo palmo reggeva il fardello di battaglioni, la massa di centomila arti amputati, eppure la sua mano non tremò. Tolse la sicura e gli puntò la pistola alla radice del naso. A giudicare dall’espressione del colonnello, era come se gli puntasse contro un pasticcino. Le sorrise. Se non avesse già attraversato le fiamme dell’inferno, Nataša avrebbe anche potuto pensare di rinunciare alla propria dignità. Ma sapeva cosa voleva dire, e poi anche lui seppe che lei lo sapeva: lo sguardo di Nataša annientò l’aria fra loro e finalmente lui capì, una volta per tutte, che non sarebbe mai tornato indietro da lì.
«Io...» cominciò il colonnello, e lei tirò il grilletto senza la minima esitazione. Più che suscitarle rabbia o paura od odio, il tentativo del colonnello di parlare la deluse. Avrebbe dovuto sapere che le parole non li avrebbero condotti fuori da quel bosco. Era una pessima tiratrice. Benché Nataša avesse mirato alla fronte del colonnello, la pallottola gli rastrellò la tempia sinistra. Gli strappò l’orecchio, come fosse fatto di argilla molle. Del muco gli colò dal naso e si sciolse in sudore, sangue, lacrime e qualsiasi altra cosa incollasse alla sua pelle la luce della luna. Lui urlò, e lei sorrise al volume degli strilli che teneva nascosti nel petto. Il dolore spezzò il registro dell’espressione adulta, facendogli erompere dalle labbra i vagiti acuti e familiari di un neonato. Nataša si inginocchiò accanto a lui. Si chinò sul suo viso. Gli urli gli schizzavano dalle labbra in spruzzi di vapore. Allora è così che funziona. È questo che si può riuscire a far provare a qualcuno. Non sapeva di essere la realizzazione del desiderio più profondo di cinque donne che si trovavano a mezzo continente di distanza. Gli premette la pistola alla tempia e fissò la ferita profonda dei suoi occhi con l’equanimità di chi sta rendendo un servizio a un estraneo. Era paziente. Lui la guardò e lei aspettò che il terrore di quello che stava per succedere dissolvesse le pietre che erano i suoi occhi. Il sangue gli gorgogliò dalla ferita che era stato il suo orecchio ma i capelli, con la scriminatura appena sopra, non si erano mossi.
«Ti toccherà andarci da solo, nel bosco» gli disse. Lui agitò le braccia prima che tre scatti del grilletto gliele fermassero per sempre. Scese il silenzio. Lei chiuse gli occhi. Le mani cominciarono finalmente a tremarle.
Poi passi di corsa, voci che urlavano colonnello, parabole di torce elettriche che frugavano il terreno. I rami nudi la invitarono benevoli. Poteva fuggire, ma per quanto? Poche ore? Un giorno o due al massimo, fino a quando i cani avessero annusato la sua traccia a pieni polmoni dalla Samsonite e l’avessero ritrovata? No, basta scappare, basta mercanteggiare. Lo sapeva dal momento in cui aveva allungato la mano verso la pistola. Vivere con dignità significava una morte prematura. Uno dei fasci di luce delle torce catturò le dita del braccio teso del colonnello. Pochi istanti dopo, un’altra torcia li illuminò, e questa volta Nataša e il colonnello non passarono inosservati. Gli urli šachidka, šachidka la fecero sorridere. Rimase ferma, reggendosi a un tronco di quercia, e riuscì a sparare due volte prima che un colpo singolo di mitra le squarciasse lo stomaco e la facesse crollare in ginocchio. Sapeva che doveva far male, ma così tanto? Le madri primipare dicevano che faceva più male di quanto avessero mai immaginato. E ne valeva la pena? chiedeva lei. Oh sì, rispondevano. Oh sì. La torcia la illuminò di nuovo. La seconda pallottola le aprì un buco nel petto e lei lasciò che il fiato ne uscisse, ma la terza pallottola, e la quarta, e la quinta, e la sesta, e la settima, e l’ottava, e la nona, e la decima, e la undicesima, e la dodicesima, e la tredicesima, e la quattordicesima, e la quindicesima, e la sedicesima, e la diciassettesima, non le vide né le sentì.