L’alba del 26 febbraio lo trovò sveglio e immerso nella calma tesa, quasi un letargo, di chi forse respira l’ultima aria della sua vita. Juan Belmonte conosceva quella sensazione di vivere affidandosi non ai palpiti del cuore ma al lento scorrere dei secondi.
Salamendi telefonò alle sette del mattino per fissare l’appuntamento che Belmonte aspettava con ansia.
«La tua compagna sta bene e dipende da te che continui così. Ci vediamo alle cinque davanti all’ingresso del Museo de Bellas Artes, alle cinque in punto, un’ora familiare per uno con un nome da torero. Niente armi, compagno, niente sorprese» disse con voce stanca.
Belmonte aspettò guardando le montagne senza vederle. Per la mente non gli passava altro che una serie di immagini, come foto di un album perduto, e in tutte c’era Verónica. La mattina in cui nel corso di una manifestazione si era avvicinato a lei sotto gli alberi frondosi di un parco e aveva capito di non volersi più allontanare. Il pomeriggio in cui aveva preso tra le mani il suo viso, l’aveva avvicinato a sé fino a sfiorarle le labbra rosse e aveva sentito che l’amore era possibile. La notte in cui aveva visto i suoi occhi chiudersi nell’istante supremo dell’amore mentre la luce della luna, come un’intrusa, le accarezzava il corpo nudo. L’ora amara in cui avevano pianto abbracciati i primi compagni morti. L’ora odiosa in cui si erano separati, lui e Verónica in una stanza estranea dove erano arrivati cambiando più volte autobus, camminando guardinghi, fermandosi a spiare nei riflessi delle vetrine o negli specchietti laterali delle auto parcheggiate l’eventuale presenza di pedinatori. L’ora maledetta delle sue lacrime ribelli il giorno in cui avevano deciso di non vedersi più perché la clandestinità lo imponeva. L’immagine di un uomo solo, armato, che la cercava per le strade di Santiago, vagando intorno a caserme e commissariati, accumulando dentro di sé odio e tristezza finché l’odio e la tristezza non erano diventati tatuaggi sulla pelle dell’uomo che era passato dall’Algeria e da Mosca, che aveva imparato a uccidere con efficienza senza trovare sfogo a tutta quella rabbia, e così era andato a cercarsi una rivincita nelle selve del Nicaragua. L’immagine di un uomo che stringeva nella mano un telefono in una casa di Amburgo il giorno in cui lei era tornata dalla morte. L’immagine di un uomo che entrava in una casa modesta di Santiago dove una donna umile e buona lo accompagnava da Verónica, seduta su una sedia con lo sguardo perso oltre i muri, l’aria, l’amore, la presenza dell’uomo che la baciava sulla fronte accarezzandole i lunghi capelli neri. Verónica accanto all’uomo che le teneva la mano durante il volo per Amburgo, il suo sguardo sul mare grigio di Copenaghen prima di entrare nella clinica del dottor Christiansen, specializzata in vittime di tortura, i suoi piccoli gesti ritrovati, i «sa chi sei», i «basta nominarti e cambia espressione», i «sì, la notte grida e si lamenta, ma quando si sveglia stringe la tua fotografia». L’immagine di un silenzio di oltre trent’anni appena incrinato dalla mano di Verónica che cercava la sua, dalla testa di lei che gli si appoggiava sulla spalla, dal lieve sorriso che le incurvava le labbra quando ascoltava le poesie di Juan Gelman o di Mario Benedetti davanti al mare freddo di Puerto Carmen. L’immagine di Verónica con lo sguardo fisso sul vulcano Corcovado, come se sulla cima innevata del gigante si trovasse la chiave per aprire la porta e tornare per sempre.
Belmonte lasciò la Beretta nell’appartamento e uscì. Alle quattro del pomeriggio si notava un gran viavai di auto che se ne andavano dalla città per un fine settimana sulla costa o in campagna. Febbraio si congedava, di lì a pochi giorni sarebbe arrivato il cambio di governo, Michelle Bachelet avrebbe consegnato la fascia tricolore delle promesse non mantenute a Sebastián Piñera perché lui continuasse sulla stessa strada, gli studenti sarebbero tornati a lezione e l’autunno, giorno dopo giorno, avrebbe bandito il caldo.
Fermo all’entrata del Museo de Bellas Artes lo vide arrivare da uno dei ponti sul fiume Mapocho. Aveva una barba di diversi giorni e in testa un berretto da baseball. Apparentemente non era armato.
«Non è necessario abbracciarci, Belmonte. Camminiamo, ho lasciato l’auto dall’altra parte del fiume. Sei pulito?» lo salutò Salamendi.
«Niente armi, niente sorprese» rispose lui.
Doveva avere la sua età o un paio di anni meno. Il modo di muoversi, una certa rigidità e i lievi movimenti della testa che abbracciavano con la vista il più ampio campo possibile dicevano che era ancora in forma, ma le borse sotto gli occhi tradivano la fatica accumulata.
«Suppongo che il nostro vecchio Slava sia ormai tornato nella madre Russia e che in qualche ufficio di Mosca stiano studiando il modo più discreto per eliminarci. Era la tua missione?» gli domandò una volta seduti nella Kia metallizzata.
«Siamo diversi, Igor. Io non sono un mercenario di merda» sputò fuori Belmonte.
«Igor. Mi piaceva quel nome. Eri o sei al servizio di Slava e questo ci rende uguali. La morale è crollata con il muro di Berlino, compagno.»
Salamendi mise in moto l’auto. Belmonte, allacciandosi la cintura di sicurezza, vide un cacciavite nel vano portaoggetti. Lo prese di nascosto e gli premette la punta contro il collo.
«Ora affondo e ti trapasso la giugulare. Dove tenete la mia compagna?»
«Così non la rivedrai mai più. Stiamo andando da lei e se non siamo lì all’ora prevista il mio socio farà quello che deve fare. Smettila adesso, non attiriamo l’attenzione.»
«Mi avevate a tiro. Dimmi perché non mi avete ammazzato il pomeriggio che vi ho trovati.»
«Ora ci arriviamo. Stai calmo e metti via quel cacciavite.»
Salamendi si diresse verso avenida Vicuña MacKenna e si scusò perché passava dalle strade che ricordava anziché dai nuovi viali.
«Suppongo che tu sappia come abbiamo scoperto il tuo rifugio.»
«Figueroa. Il sesto morto, o ce ne sono altri?»
«Per il momento no. Accendimi una sigaretta. Ti ricordi le papirosas che fumavamo a Mosca? Sì, Figueroa.»
Guidando gli raccontò che a metà degli anni Ottanta anche Figueroa era passato dal KGB e aveva stretto con loro un rapporto che, nel 1989, al momento del suo ritorno in Cile, era diventato proficuo. Lui ed Espinoza gli fornivano informazioni sui cileni rientrati in patria che l’Oficina voleva tenere sotto controllo. La nuova democrazia si proteggeva in quel modo da ogni velleità rivoluzionaria o contestataria: bastava un semplice rapporto, inesistente quanto inconfutabile, per impedire l’accesso a un posto nell’apparato burocratico, nel comitato direttivo di un partito, o per assicurare fedeltà a un modello economico vincente come quello cileno. Non erano l’unica fonte d’informazione dell’Oficina, dopo la caduta del muro altri esuli della Repubblica Democratica Tedesca avevano trafficato con i dettagliati documenti della Stasi.
«Abbiamo capito che Slava si sarebbe servito di un cileno per trovarci. Abbiamo ipotizzato che fossi tu perché ci avevi visto all’Accademia Malinovskij, ma non ne avevamo la certezza finché non ci siamo incontrati. Abbiamo fatto pressione su Figueroa e ci ha consegnato il tuo fascicolo. Tutto il resto lo sai già» concluse.
«Vi ho trovato e devo pagare per questo. Che cosa volete da me e perché avete coinvolto la mia compagna in questa faccenda?»
«Non avere fretta, Belmonte. Non ci sono conti in sospeso fra noi. È stata una bella mossa quella di far venire un fattorino della pizza. Un buon trucco che ha mandato all’aria i nostri piani e ci ha costretto ad ammazzare i tre russi. Abbiamo bisogno di te, tutto qui. E per il momento non ci sono altre informazioni, compagno.»
«Avete bisogno di me per liberare Krassnoff?»
«Te l’ho detto. Non ci sono altre informazioni, compagno.»
Anche per Belmonte, Santiago era una città estranea. Della cartina che conservava nella memoria riconobbe avenida Irarrázaval, ma non le diagonali che li portarono a sudest fino a imboccare avenida José Arrieta. Salamendi notò la sua espressione quando passarono davanti a quello che era stato chiamato «Parco della Pace», davanti al portone conservato per non dimenticare l’orrore, perché era l’ingresso di Villa Grimaldi.
Da quel portone Verónica era entrata con le mani legate e gli occhi bendati. In mezzo a quei giardini, adesso pieni di rose in fiore, aveva sopportato l’inimmaginabile ed era rimasta in silenzio. Da quello stesso portone un giorno l’avevano fatta uscire, credendola morta, insieme ai corpi senza vita di altre donne e uomini giovani come lei, e li avevano gettati tutti in una discarica per seminare il terrore su cui si reggeva la dittatura.
Tra sé, Belmonte maledisse Kramer e Slava. Se gli avessero detto fin dal primo momento che la missione di Espinoza, di Salamendi e dei tre russi era di liberare Krassnoff non avrebbe esitato ad ammazzarli.
«Proprio così, Belmonte. Villa Grimaldi. Non ci manca molto» disse Salamendi.
Proseguirono in silenzio per un altro quarto d’ora e poi si fermarono davanti a una villetta a due piani con una mansarda di legno. Di fronte alla villetta, dall’altra parte della strada, si innalzavano i muri gialli e l’alta recinzione coronata di filo spinato del penitenziario Cordillera. Dietro quei muri c’era Miguel Krassnoff, il cosacco, sorvegliato da guardie armate fino ai denti.
Salamendi aprì il portone con il telecomando e l’auto scomparve in un garage attiguo alla villetta.
Espinoza lo accolse puntandogli addosso una mitraglietta Uzi col silenziatore. Era più vecchio di Salamendi. I radi capelli grigi mettevano in risalto il volto sciupato e le occhiaie violacee sottolineavano la stanchezza.
«Controllalo. Non voglio sorprese» disse al suo socio, e Salamendi ordinò a Belmonte di appoggiare le mani contro il muro per fargli una perquisizione rigorosa.
«Vieni con me, compagno, ma ti avverto che alla prima mossa falsa sei un uomo morto» ordinò Espinoza.
Scesero nel seminterrato. In fondo a una scaffalatura piena di barattoli, bottiglie e attrezzi c’era una porta metallica. Espinoza la aprì e Belmonte vide Verónica. Non era sola: per terra, legati, c’erano un uomo e una donna di mezza età, le bocche e gli occhi tappati con nastro adesivo. Verónica aveva i polsi ammanettati a dei tubi, ma dalla cassa di legno su cui era seduta gli rivolse uno sguardo sereno, senza paura. Uno sguardo di altri tempi.
Belmonte la abbracciò e chiese che le togliessero le manette.
«Ecco le chiavi. Levagliele tu e poi torniamo di sopra» disse Espinoza.
«A loro che farete?» domandò Belmonte abbracciato a Verónica guardando i due per terra.
«Niente. Gli abbiamo iniettato del Dormicum, un sonnifero leggero, e dormiranno per ore. Andiamo» ordinò Espinoza.
In salotto Salamendi gli indicò il divano. Anche lui aveva una mitraglietta Uzi. Espinoza arrivò con una caffettiera e delle tazze che posò sul tavolino in mezzo. Belmonte sentiva le mani di Verónica che gli stringevano senza violenza il braccio e la testa che gli si appoggiava sulla spalla.
«Quanti anni sono passati, Belmonte. Non ricordo l’ultima volta che ci siamo visti nel cortile della Rodion Malinovskij, immagino che non ci siamo mai scambiati più di un saluto e mi dispiace. Se avessimo scoperto che cosa davvero ci legava, adesso non saremmo in questa situazione» disse Espinoza.
«Noi non abbiamo niente in comune, niente che ci lega. Né adesso né allora.»
«Ti sbagli, compagno.»
Espinoza, con la Uzi sulle gambe, cominciò a parlare della loro giovinezza, dei sogni simili, della donna che lui aveva amato e perduto, del figlio perduto anche quello e nel modo peggiore. Quando intorno a lui il cerchio aveva cominciato a stringersi, gli era arrivato l’ordine di andare in esilio, prima in Messico e un mese dopo in Unione Sovietica, per ricevere una formazione da quadro militare di alto livello. La dittatura si serviva di consulenti statunitensi, ufficiali di intelligence che per lo più si erano formati alla Escuela de las Américas di Panama, e il partito lo aveva scelto per i servizi di intelligence del futuro esercito rivoluzionario. La compartimentazione era assoluta. Non doveva preoccuparsi della famiglia perché il partito copriva tutte le spese. Era ormai da due anni all’Accademia Rodion Malinovskij, sotto la tutela del colonnello del KGB Stanislav Sokolov, quando grazie a un altro cileno appena arrivato a Mosca aveva saputo quale destino atroce era toccato alla sua famiglia. Sua moglie e suo figlio erano caduti nelle mani di un commando delle operazioni speciali. Lei era stata legata e obbligata ad assistere alle torture inflitte al figlio. All’inizio non l’avevano toccata, ma avevano ridotto il bambino a un mucchietto di carne e sangue, finché era morto durante una seduta di tortura. Allora si erano occupati di lei e, dopo averle tirato fuori le poche informazioni che poteva dare, l’avevano fatta sparire.
«Sai chi era il capo dei torturatori in una casa di calle Londres numero 38? Miguel Krassnoff. E adesso lo abbiamo a meno di cento metri da noi, Belmonte. La storia di liberarlo era solo una balla, un modo per avvicinarlo e rendere possibile il castigo. Quei tre cosacchi erano esseri primitivi, barbari, istupiditi dalla guerra di Cecenia, dei fanatici. Avevamo bisogno di loro per l’operazione, ma nessuno, né i cosacchi né noi, ne sarebbe uscito vivo. Slava e i servizi segreti russi hanno scoperto il piano dell’organizzazione cosacca per liberare Krassnoff, l’hanno fatto saltare e noi abbiamo ricevuto l’incarico di eliminare i russi in Cile. Per Slava non eravamo altro che paria, scarti del crollo dell’Unione Sovietica, veterani sacrificabili. A San Paolo abbiamo eliminato quello che ci avrebbe fatto fuori una volta risolto il problema dei tre russi. Avremmo seguito il nostro piano ma a quel punto ci hai teso la trappola ed è cambiato tutto. Sapevamo poco di te, però dopo aver letto il tuo fascicolo, molto esaustivo fra l’altro, abbiamo scoperto che ci unisce lo stesso odio. Guarda la tua compagna e non azzardarti a contraddirmi. Abbiamo bisogno di te. Sei uno dei migliori cecchini addestrati in Unione Sovietica. Se fai bene il tuo lavoro, compagno, possiamo uscirne tutti vivi.»
Belmonte lo lasciava parlare senza interromperlo. Nella pressione delle mani di Verónica che gli stringeva un braccio e nel respiro di lei vicinissimo al viso sentiva la forte lotta interiore che la tormentava. Il racconto di Espinoza era un viaggio nel mondo dell’orrore che Verónica aveva sperimentato sulla propria carne, e Belmonte desiderava quasi vederla cadere nel vuoto dell’assenza, di quello sguardo perso anche se ancora pieno di luce.
Era ormai sera quando Espinoza terminò di raccontare la sua vita in Unione Sovietica, l’esperienza dell’Afghanistan, la delusione generalizzata, l’odio inestinguibile e il desiderio di vendetta come unica causa ancora degna, anche se sterile per via della distanza, dei fatti della storia. Lui e Salamendi avevano cercato in tutti i modi di unirsi ai compagni del Frente Patriótico Manuel Rodríguez che dopo l’addestramento in Unione Sovietica, a Cuba e nella Repubblica Democratica Tedesca tornavano a combattere in Cile. Non ci erano riusciti, erano stati rifiutati con tatto, adducendo come motivazione la disciplina del partito, ma entrambi sapevano bene che il vero motivo era la diffidenza. Non conoscevano i codici di quella nuova infornata di combattenti, erano veterani di un’enorme sconfitta e la loro vicinanza al KGB non aiutava a stringere legami. Avevano perso tutto, gli restava solo la ferma determinazione a non morire vegetando all’ombra dei nuovi padroni della Russia, il desiderio di mettere fine alla storia.
«È il tuo turno, Igor, digli perché ti sei cacciato in questo pasticcio» ordinò Espinoza.
La rabbia di Salamendi non aveva radici molto diverse. Figlio di una madre di umili origini, rimasto orfano di padre da bambino, fin dall’adolescenza aveva militato instancabilmente nelle Juventudes Comunistas. Pervaso dalla mistica dei giovani comunisti, si era dedicato all’attività sindacale nella fabbrica dove lavorava, si era diplomato frequentando una scuola serale, perché dai suoi sacrifici dipendevano sia la madre sia un fratello minore. Aveva vissuto la gioia e la speranza legate alla conquista della presidenza da parte di Salvador Allende. Nel 1972 la sua tenacia di militante era stata premiata con una borsa di studio a Mosca, all’Università dell’amicizia tra i popoli Patrice Lumumba. Da Mosca aveva saputo del colpo di Stato, dell’inizio della dittatura, del sequestro del fratello, anche lui militante, e della sua scomparsa, forse il suo corpo era stato gettato in mare o fatto esplodere, il sistema usato dai militari per non lasciare la minima traccia, nemmeno un frammento di osso, nulla che permettesse di identificare le persone assassinate. Suo fratello era stato visto per l’ultima volta in un centro di tortura di calle José Domingo Cañas, al numero 1367. Più di cinquanta prigionieri politici erano stati assassinati e fatti sparire in quella casa che i militari chiamavano Caserma Ollagüe. Krassnoff e Osvaldo Romo, insieme a una ventina di ufficiali dell’esercito e dei carabineros, si erano diplomati come torturatori proprio lì, nell’abitazione sottratta al sociologo brasiliano Theotonio Dos Santos, e quando qualche tempo dopo il principale centro di tortura era diventato Villa Grimaldi, loro erano ormai maestri nell’arte del dolore.
«Mia madre è morta cercandolo alla fine degli anni Settanta. Come vedi, Belmonte, sono molte le cose che legano le quattro persone presenti in questo salotto» concluse Salamendi.
La notte avvolse Santiago e un’enorme luna piena salì dalla Cordigliera delle Ande. Una luce irreale inondava la strada e alle undici Espinoza annunciò che era arrivata l’ora della vendetta.
Perché no?, si chiese Belmonte quando venne separato da Verónica e salì nella mansarda, seguito da Espinoza che gli puntava addosso la Uzi col silenziatore.
Verónica rimase seduta davanti a Salamendi con lo sguardo fisso negli occhi dell’uomo armato. Salamendi vide che non c’era paura nelle pupille di lei, che una luce passava dall’odio alla compassione segnando, come le lancette di un orologio, l’ora finale del cosacco.
Nella mansarda, Espinoza ordinò a Belmonte di sistemarsi su una coperta stesa davanti alla parete di legno inclinata. Mancavano varie assi e attraverso il buco si vedeva la parte superiore del muro del penitenziario Cordillera, le torrette di sorveglianza e i bungalow che alloggiavano i militari detenuti.
Espinoza aprì una borsa di tela e tirò fuori un fucile. Lo posò accanto a Belmonte e gli appoggiò la canna della Uzi alla nuca.
«Tieni. È un’arma che conosci, un AK-47, e nel caricatore ci sono dieci proiettili esplosivi. Come ai vecchi tempi. Metti una pallottola nella camera di scoppio e regola il selettore di tiro. Senza barare, compagno. Se non lo fai tu lo farò io, ma non potrai vederlo.»
Belmonte prese il fucile, impugnò con la mano destra il calcio e con la sinistra il guardamano. Fece scorrere la leva di armamento e sentì l’inconfondibile aroma di olio e silicone di un’arma appena lubrificata. Quando la prima pallottola entrò dolcemente nella camera di scoppio, spostò di lato il fucile e con il pollice destro regolò il selettore su un tiro per volta. Poi allineò l’occhio destro finché l’altezza di mira non coincise con il bersaglio.
«Respira, Belmonte. Rilassati come facevi alla Rodion Malinovskij, fai scendere le pulsazioni. Abbiamo tempo. Senza barare, compagno. Niente deve distrarti, perciò adesso rispondo a tutte le domande che possono interferire con la tua calma. Questa casa l’abbiamo scelta per la mansarda, a caso. Non sapevamo quante persone ci avremmo trovato dentro ma abbiamo avuto fortuna. Ho suonato, ho immobilizzato l’uomo che ha aperto e in pochi minuti ci siamo sistemati. È una coppia di professori senza figli. Dipende da te che ne escano vivi.»
Belmonte mosse lentamente il fucile facendo perno sulla mano sinistra. Il suo sguardo in linea retta superava la tacca di mira e attraversava il cerchio di acciaio del mirino. La luna piena illuminava perfettamente le guardie sulle torrette e quelle che si spostavano fra i bungalow.
«So che hai bisogno di altri dati, Belmonte. Calma. Krassnoff occupa il bungalow alla tua sinistra, nella parte posteriore. Ci sono circa duecentocinquanta metri fra te e l’obiettivo. Si ritira presto ma dorme poco. Probabilmente soffre di insonnia e si alza a fare una passeggiatina o si siede sotto il pergolato davanti al suo alloggio. Di solito indossa un giubbotto di pelle marrone chiaro, ha i capelli grigi, i baffi, è magro e alto un po’ più di un metro e ottanta. Non è un’informazione attendibile al cento per cento, ce l’hanno data i russi e noi non l’abbiamo verificata. Bella la luna piena, compagno. Non staccare gli occhi dall’obiettivo.»
Passarono le ore e quando erano quasi le tre del mattino Belmonte sentì freddo, un freddo strano per una notte estiva. A tratti avvertiva la canna della Uzi che gli sfiorava la nuca e aveva il braccio sinistro mezzo intorpidito, con il gomito appoggiato a terra per reggere il fucile.
Perché no?, si ripeteva tenendo sempre sotto mira il bungalow di Krassnoff. Ricordò l’ultima volta in cui si era trovato in una situazione simile, e ormai erano passati più di trent’anni. Era successo in Nicaragua, un 18 luglio, il giorno prima dell’ingresso vittorioso delle colonne guerrigliere sandiniste a Managua. Un plotone della guardia personale di Somoza si era trincerato in mezzo alle macerie vicino al centro della città e aveva una mitragliatrice pesante, una Browning M2 calibro .50 smontata da un carro armato. Belmonte si era piazzato a trecento metri dall’obiettivo, sopra un muretto, al riparo dietro dei sacchi di iuta. Aveva preso la mira col Garand M1 e aveva aspettato. Ben presto sarebbero arrivate le forze del Frente Sur e la missione dei combattenti della Brigada Internacional Simón Bolívar era evitare sorprese nell’avanzata fino al centro di Managua. I tafani gli si accanivano sul collo e sulle mani ma lui non muoveva un muscolo. Il respiro lento e ritmato faceva dell’uomo e dell’arma una cosa sola. A tratti si passava la lingua sulle labbra per allontanare gli insetti e sentiva sapore di sangue, oppure sbatteva con forza le palpebre per scacciarli dagli occhi. Tre ore dopo arrivò il rumore dei mezzi sandinisti che si avvicinavano e il mitragliere corse al suo posto. Un colpo in mezzo al petto lo gettò a terra e tutte le altre guardie nazionali abbandonarono la postazione.
«È strano che faccia così freddo» commentò Espinoza e guardò l’orologio. Erano le tre e mezzo del mattino, nel giro di un paio d’ore avrebbe cominciato ad albeggiare. L’ululato di un cane rompeva la tranquillità e il silenzio della notte.
In quel momento lo vide. Capelli grigi e lisci, baffi, alto, indossava un giubbotto di pelle e si era buttato una coperta sulle spalle. Stava sulla soglia del bungalow e non si decideva a fare il primo passo. Krassnoff era nel mirino. Quante volte Belmonte l’aveva sognato? Senza battere ciglio osservò il bersaglio, nessun sentimento, nemmeno l’odio doveva turbarlo. All’ingresso della sala degli ufficiali dell’Accademia Rodion Malinovskij c’era una fotografia del generale Vasilij Zajcev, il miglior cecchino russo di tutti i tempi, scattata nel 1942 durante la battaglia di Stalingrado. Zajcev aveva eliminato più di duecento ufficiali tedeschi e quando gli era stato chiesto da un corrispondente di guerra che cosa sentiva premendo il grilletto aveva risposto: il rinculo, l’unica cosa che sento è il rinculo dell’arma. Perché no? La mira, fissa sulla testa di Krassnoff, si spostò lenta accompagnando il primo passo del cosacco fuori dal bungalow.
Belmonte misurò mentalmente la distanza con l’indice che sfiorava il grilletto, perché no?, si rallegrò che non soffiasse nemmeno un alito di vento, perché no?, abbassò leggermente la mira dalla testa al petto del cosacco, perché no?, considerò che se la prima pallottola deviava sfiorando la recinzione metallica, la seconda sparata immediatamente dopo non avrebbe incontrato ostacoli. In nome del popolo, avevano detto gli uomini della Resistenza ceca mentre crivellavano di colpi Heydrich nel 1942, perché no?
Allora gli arrivò nelle orecchie, penetrando fino all’ultimo angolo del suo corpo, la voce più desiderata, la voce che voleva risentire a qualunque costo, perché avrebbe dato la vita se necessario pur di riascoltare una sola parola di Verónica.
«Non ucciderlo, Juan!» gridò Verónica dalla scala che saliva nella mansarda, tenendo la Uzi puntata alla testa di Salamendi.
«Spara!» gridò Espinoza premendo la canna dell’arma contro la nuca di Belmonte.
In quel momento la casa fu attraversata da un fremito violento che aumentava d’intensità, rovesciava gli oggetti e crepava i muri. Un lampadario si staccò dal soffitto del salotto ma lo schianto venne soffocato dal boato che usciva dalle viscere del mondo sintetizzando tutte le parole in una: terremoto.
Belmonte riuscì a vedere Krassnoff che fuggiva dal bungalow, si girò, libero dalla pressione della Uzi contro la nuca, e accettò la mano di Espinoza che lo aiutava a rialzarsi mentre la casa era scossa con forza sempre maggiore. Lottando per restare in piedi i due videro Verónica e Salamendi che sbattevano contro i muri mentre scendevano le scale per mettere in salvo la coppia nel seminterrato.
Il terremoto, grado 8,8 della scala Richter, durò quattro minuti.1 Calle José Arrieta si riempì di gente che fuggiva dalle case e nel penitenziario Cordillera scattarono gli allarmi antincendio.
«Ce l’avevo a tiro» mormorò Belmonte abbracciando Verónica mentre la terra continuava a sussultare.
«Che soffra. Che viva mille anni rinchiuso» mormorò Verónica cercandogli le labbra mentre la casa tremava e l’ira della terra era l’eco della sua voce ritrovata.
La Kia metallizzata avanzò evitando le crepe aperte nelle strade, i pali e gli alberi caduti. Ovunque si vedevano muri lesionati o crollati e la paura era la maschera che copriva tutti i volti.
Si fermarono nelle vicinanze del colle Santa Lucía. Verónica e Belmonte scesero dall’auto.
«Non ci siamo mai visti né ci rivedremo più» disse Espinoza.
«È stato un piacere, compagni» aggiunse Salamendi.
Verónica e Belmonte aspettarono abbracciati finché l’auto non scomparve alla vista.
«A casa, compagna mia» mormorò lui.
«Sì, a casa, compagno mio» rispose lei.
E si avviarono nella città ferita senza curarsi degli spasmi continui della terra.