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33º Latitudine Sud

 

Mi svegliai prestissimo quella mattina, e non perché il caldo di febbraio si stesse attenuando, la giornata si annunciava a rischio di temperature estreme, incendi forestali e siccità. Qualcosa non quadrava e, per quanto pensassi e ripensassi a cosa era successo, al rompicapo mancava sempre un pezzo.

Con i Bravi Ragazzi passammo ore ad analizzare la situazione e a sforzarci di trarre conclusioni. Riuscimmo a formulare solo un’ipotesi: Espinoza e Salamendi avevano lasciato il paese e da dove si trovavano avrebbero cercato il modo di vendere le informazioni in loro possesso. Qualunque giornale europeo sarebbe stato felice di pubblicare le confessioni di due mercenari che avevano tentato di liberare un criminale condannato per aver torturato e ucciso centinaia di persone sotto la dittatura di Pinochet, senza contare vari cadaveri a carico dei servizi segreti russi. Quello che sarebbe successo a loro non ci riguardava e la storia non poteva finire meglio. Eppure l’immagine fulminea di Espinoza e Salamendi in fuga a bordo del fuoristrada non smetteva di gridarmi che qualcosa non quadrava.

Mentre prendevo un caffè sul balcone passai di nuovo in rassegna le cose da sbrigare. Avevo dato appuntamento alla ragazza che mi aveva consegnato le chiavi dell’appartamento alle otto nello stesso posto per restituirgliele, dopo sarei passato dall’officina dei Bravi Ragazzi a lasciare l’auto, a ringraziarli per il loro aiuto e affidargli la Beretta, poi dall’aeroporto avrei chiamato Eladio e avrei cercato di convincerlo a trascorrere qualche giorno con me a Puerto Carmen. Nel pomeriggio sarei volato a Puerto Montt, avrei attraversato in traghetto il canale di Chacao, sarei arrivato a Quellón e al tramonto, insieme a Verónica e al Petiso, avrei acceso il fuoco in casa. Come sempre, ci saremmo bevuti un bicchiere di vino per il semplice motivo che eravamo vivi.

Stavo mettendo le mie cose nella borsa da viaggio quando di colpo vidi che il cellulare di Kramer si muoveva, vibrava sul letto. Era quasi scarico ma riuscii a leggere il messaggio: Chiama.

Esitai. La sensazione che qualcosa non quadrasse si trasformò in certezza, collegai il cellulare alla presa elettrica e composi l’unico numero in memoria.

«Sono successe cose preoccupanti, Belmonte. Uno dei miei contatti fra quelli che contano in Cile mi ha passato delle informazioni confidenziali che ti riguardano.»

«Aveva promesso che nessuno mi avrebbe infastidito. Caso chiuso, sono state le sue parole.»

«E non mi rimangio la promessa. Cinque giorni fa un tizio legato all’Oficina non si è presentato a un appuntamento, i suoi compagni hanno fatto ricerche e ieri lo hanno trovato, morto, con un buco in mezzo alla fronte. Credo che quel marchio ci sia familiare, Belmonte.»

«Lei lo sapeva, Kramer. Perciò ha insistito che tenessi il telefono.»

«No, ti sbagli. È vero che sono una carogna, ma sono leale e se parlo con te è per lealtà. Insomma, visto che l’Oficina non è mai esistita, ci mettono un po’ a individuare eventuali falle nella sicurezza, perché si coprono le spalle a vicenda. È il potere, Belmonte. La cosa grave è che il tizio morto era quello che si occupava del tuo caso.»

«Il nome, Kramer. Mi dica il nome.»

«Ma sì. Dopotutto un morto si declassifica da solo. Si chiamava Antonio Figueroa. Non posso esserti di maggiore aiuto. Sinceramente pensavo che i tuoi due ex compagni avessero lasciato il paese, sanno che la mano dei servizi segreti russi è lunga, ma sono uomini navigati e l’America Latina continua a offrire foreste in cui nascondersi. Se fra di voi ci sono dei conti aperti, qualche vecchia offesa da vendicare, non è un problema mio. Per me il caso è chiuso. Buona fortuna, Belmonte.»

Scagliai via il telefono e mi venne la nausea, come ogni volta che leggo o sento il nome di un cialtrone. Così ricordavo Figueroa, un maledetto buffone che ai tempi della militanza dura si faceva vedere sempre insieme ai dirigenti, con vestiti impeccabili e un’arma che non aveva mai usato. L’avevo rincontrato a Cuba alla fine del 1979, io uscivo dall’ospedale delle Forze Armate Rivoluzionarie dove mi avevano tolto una pallottola che mi ero beccato in Nicaragua, e un compagno, un ufficiale cubano, mi aveva invitato a una festa del Minin, il ministero dell’Interno. Là vidi Figueroa con la sua uniforme verde oliva immacolata, senza una grinza e con dei galloni da tenente guadagnati in qualche videogioco di guerra. Non era l’unico cileno a indossare un’uniforme cucita su misura, fra quelli che erano vicini ai ministri e non mancavano mai ai cocktail delle ambasciate. Erano i quadri politici di fiducia, gente che non aveva mai preso in mano un machete per tagliare canna da zucchero, che non aveva mai sentito l’odore maledetto della foresta, né visto sangue se non al cinema. Figueroa si vantava di essere passato da Cottbus, nella Repubblica Democratica Tedesca, la miglior scuola per ciarlatani del socialismo. Da Cottbus uscivano gli esperti in statistiche destinate a dimostrare che nei paesi socialisti il sole migliorava la pelle delle donne e la pioggia preveniva l’alopecia. Tornati in Cile, alcuni avevano rinnegato il loro passato e bruciato l’uniforme verde oliva in cerimonie pubbliche per mettersi a fare i pagliacci ben pagati della destra, mentre altri erano diventati esperti di repressione al servizio di fogne come l’Oficina.

Le cose cominciavano a quadrare. Espinoza e Salamendi mi avevano trasformato da inseguitore in inseguito.

Presi uno dei cellulari che mi aveva fornito l’hacker di La Legua e chiamai Quellón. Doña Anita, non appena sentì la mia voce, scoppiò a piangere.

«Sono venuti ieri sera, si sono portati via Verónica e Pedro.»

«Anita, si calmi. È molto importante che mi dica cosa è successo.»

«Erano in due. Sono arrivati di notte ed è successo tutto molto in fretta. Quando ha sentito che buttavano giù la porta, Pedro è uscito col fucile e loro gli hanno sparato.»

«Hanno ammazzato Pedro?»

«No, l’hanno colpito a una gamba. Verónica si è difesa, ha sparato anche lei e ha ferito uno dei due. Se li sono portati via in macchina, andavano a casa vostra, a Puerto Carmen. Così hanno detto. E mi hanno lasciato un numero che lei deve chiamare. Che faccio? Avviso i carabineros

«No, Anita, non avvisi nessuno, nemmeno don Silva. Non ne parli con nessuno e faccia finta che non sia successo nulla. Mi dica il numero.»

Riuscii a calmare doña Anita. Dopo aver salvato la vita a Verónica aveva imparato il valore del silenzio.

Verónica li aveva affrontati e ne aveva ferito uno. Qualche mese dopo il nostro ritorno in Cile mi ero azzardato a metterle in mano la Makarov e, anche se speravo che non si trovasse mai nella necessità di usarla, le avevo insegnato come si maneggia.

Così, amore mio, chiudi ben stretta la mano intorno all’impugnatura, il pollice alza o abbassa la sicura e preme l’estrattore del caricatore, così, amore mio, l’indice parallelo alla canna mentre fai scorrere il carrello e metti il colpo nella camera di scoppio, così, amore mio, tira piano il grilletto e spara con l’arma sempre dritta in modo che i bossoli roventi saltino via di fianco, non sparare mai con l’arma di lato perché i bossoli ti possono schizzare in faccia. Così, amore mio. E Verónica eseguiva.

Composi il numero che mi aveva dato doña Anita e aspettai.

«Belmonte?»

«Chi sei, Espinoza o l’altro?»

«L’altro. È un piacere sentire la tua voce, compagno. Hai una compagna molto coraggiosa, ieri sera per poco non mi manda all’altro mondo.»

«Fammi parlare con Pedro.»

«Più tardi. La tua compagna e il tuo aiutante stanno bene, lui ha preso un colpo pulito alla coscia, non volevamo ammazzare nessuno. Era solo un modo per trovarti. A proposito, vivi in un gran bel posto e i tuoi cani sono magnifici. Ci sono saltati addosso ma è bastato un cenno della tua compagna per calmarli.»

«C’è qualche conto in sospeso fra noi?»

«Che io sappia no, compagno. Niente di personale.»

«Allora cosa volete da me?»

«Per il momento non muoverti da Santiago. Fisseremo un appuntamento, presto. Parleremo da bravi compagni e ti renderai conto che stiamo dalla stessa parte, come ai vecchi tempi. Ti passo il tuo segretario, ma prima un consiglio: non ci fare sorprese o diventerà una faccenda personale.»

Il Petiso aveva la voce roca per la rabbia. Ripeteva che aveva sbagliato e se ne vergognava. Gli dissi di smetterla. Salamendi gli aveva passato il telefono con il vivavoce attivo e sentii il respiro di Verónica. La mia compagna. Si era messa vicino a Pedro per farmi sentire nell’aria che entrava e usciva dal suo corpo i versi di Mario Benedetti che mi faceva ripetere stringendomi la mano nei pomeriggi davanti al mare: Che l’aria sia di nuovo respirabile per tutti / e che tu ragazzina resti allegra e dolente / mettendo nei tuoi occhi l’anima / e la tua mano nella mia mano. La mia compagna.

«Stai calmo, se obbedite ai loro ordini non vi faranno nulla.»

«Ho sbagliato, capo. Dovevo restare vicino alla porta di ingresso, non in cucina, accanto a quella meno sicura. Sono stato un coglione, capo.»

«Pedro, amico, sta’ tranquillo. Dì a Verónica che sto bene.»

«Come vedi, Belmonte, i tuoi sono in buone mani. Non ti muovere da Santiago e andrà a finire bene per tutti. Né sorprese, né telefonate, compagno, abbiamo noi il controllo della situazione» interruppe Salamendi.

La comunicazione cadde. Ero nelle loro mani e questo mi obbligava a pensare in fretta. Potevo chiedere aiuto ai Bravi Ragazzi, sicuramente Eladio, Ciro, Marcos e Braulio non avrebbero esitato a schierarsi al mio fianco. Potevamo prendere un aereo per Puerto Montt quel giorno stesso e la sera assaltare la casa, ma saremmo stati abbastanza veloci? Non eravamo più i ragazzi degli anni Settanta e non ci saremmo trovati ad affrontare dei soldatini pronti ad arrendersi. Potevo anche andare da solo a Puerto Carmen, i cani non mi avrebbero tradito e probabilmente sarei riuscito ad ammazzare uno dei due. Ma l’altro cosa avrebbe fatto? Dovevo aspettare, erano loro ad avere il controllo della situazione.

Chiamai Eladio per cancellare l’appuntamento con la ragazza e gli dissi che mi fermavo qualche altro giorno, forse tre o quattro, non lo sapevo.

«Nessun problema. Belmonte, è successo qualcosa? Sai che puoi sempre contare su di me.»

«Conto sempre su di te, fratello. Sempre.»

 

 

Non informai i Bravi Ragazzi degli ultimi sviluppi. Mi limitai a dire che avrei continuato le ricerche per un paio di giorni e se non ottenevo risultati avrei dimenticato tutta la faccenda.

«Puoi tenerti l’auto per tutto il tempo che vuoi. Noi restiamo in contatto con l’amico della PDI e se c’è qualche novità ti avvisiamo» disse Ciro.

Avevo bisogno di solitudine per rimuginare sui miei pensieri, disarmando e riarmando la Beretta, non tanto per assicurarmi che funzionasse, quanto per sentire nel freddo del metallo la sicurezza perduta di altri tempi. Chi come me è passato da quegli anni duri sa che il peggio non è la solitudine di chi combatte in clandestinità. Il peggio è arrivare al momento in cui, più che degli esseri umani, più che dei compagni, ci fidiamo dell’arma che stringiamo in mano.

Il caldo non accennava a diminuire in quegli ultimi giorni di febbraio e io non smettevo di pensare con disperazione a Verónica, agli effetti che avrebbe avuto su di lei il fatto di dover affrontare un’altra volta la paura, di essere alla mercé di uomini armati. Da quando l’avevo ritrovata, lentamente, con il passare degli anni, ero riuscito a riportarla almeno in parte al mio fianco. Il sorriso era tornato a delinearsi sul suo volto e le cadute nel pozzo senza fondo in cui aveva trovato rifugio dalle torture erano sempre più rare. Questa minaccia poteva far rivivere i fantasmi dell’orrore e allora l’avrei persa di nuovo. Dovevo pensare con lucidità ma mi mancava l’informazione più importante: sapere che cosa volevano Espinoza e Salamendi.

La sera del 25 febbraio squillò uno dei cellulari e sentii la voce ansimante di Pedro de Valdivia. Mi toccò inveire un paio di volte per placare l’ansia e la rabbia che facevano impappinare il Petiso.

«Se la sono portata via, capo. Hanno un’auto moderna, una Kia grigio metallizzato. Non ho potuto far nulla, capo, mi hanno legato al letto e se la sono portata via. Meno male che hanno lasciato la porta aperta e io urlando ho chiamato i cani. Sono dei bravi cani, capo, hanno capito e hanno rosicchiato la corda per liberarmi le mani. Se la sono portata via verso le quattro del pomeriggio e io ci ho messo più o meno un’ora a liberarmi, poi sono corso alla lancia e ho quasi fuso il motore per arrivare alla svelta a Quellón. Hanno parecchie armi, si sono portati via anche la sua pistola e il fucile. Verónica sta bene, capo, mi ha curato la ferita, è tranquilla, molto tranquilla. Prima di uscire di casa mi ha guardato in modo strano, non mi aveva mai guardato così e ho capito che voleva rassicurarmi. Che facciamo, capo? Mi dica dov’è e io arrivo immediatamente. Dobbiamo salvare Verónica, capo.»

«Calmo, Pedro. Non una parola con nessuno e prenditi cura di doña Anita.»

«Mi hanno già sparato una volta ma sono pronto a beccarmi tutti i colpi che vogliono. Dobbiamo salvare Verónica, capo.»

Terminai la chiamata. Non mi restava che aspettare. Ci sono millequattrocento chilometri da Puerto Carmen a Santiago e Verónica stava venendo da me. Se l’appuntamento era con la morte e la morte ci trovava insieme, le avremmo dimostrato, come dice quella poesia di Benedetti, che eravamo molto più di due.