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33º Latitudine Sud

 

Prima di lasciare l’albergo misi i miei preziosi averi sul letto e li controllai con cura. I telefoni cellulari avevano la batteria carica e fu un sollievo vedere che l’alimentatore era adatto a tutti e tre. Tolsi il caricatore alla Beretta e tirai indietro il carrello come per mettere il colpo in canna. Funzionava in modo impeccabile e silenzioso, così rimisi il caricatore al suo posto nell’impugnatura e cominciai a provare il senso di calma che dà il fatto di sapersi protetto. Poi presi uno dei cellulari e composi un numero memorizzato parecchio tempo prima.

Quando riconobbe il mio ringhio di fumatore la voce di Eladio assunse un tono allegro.

«Belmonte, che sorpresa. Sei nei pasticci, fratello?»

Eladio aveva un nome e un cognome, ma per me sarebbe sempre rimasto Eladio, uno degli uomini più giovani del GAP, la scorta personale del presidente Allende, uno che aveva combattuto per difendere il palazzo della Moneda, che era riuscito a sopravvivere, anche se ferito, e non era stato torturato, ammazzato e fatto sparire come era successo alla maggior parte dei membri del GAP, quel pugno di combattenti che aveva affrontato centinaia di soldati.

«Be’, in un certo senso sì, fratello. Ho bisogno di un posto sicuro, a Santiago.»

Sentii il sospiro di Eladio e immaginai che si portasse la mano alla testa calva, guardando il mare di San Antonio, mentre si avvicinava al tavolo da lavoro con l’andatura zoppa che gli aveva lasciato in eredità il combattimento alla Moneda.

«Richiamami fra mezz’ora. Hai bisogno di altro, Belmonte?»

«Di chiacchierare con te davanti a un bel bicchiere di vino. Ma questo più avanti.»

La seconda telefonata che feci fu a Quellón, alla pensione di doña Anita. Pedro de Valdivia rispose al volo.

«Finalmente, capo. Sono qui incollato al telefono da ore.»

«Come sta Verónica?»

«Guarda il monumento che le piace tanto. Non si preoccupi, capo.»

A Quellón, davanti al mare color acciaio, c’è una enorme chitarra di legno e un cartello con la scritta: MONUMENTO AI GIOVANI DEGLI ANNI SETTANTA. Deve avere qualcosa quella chitarra perché ogni volta che andiamo a Quellón a far provviste e camminiamo sul lungomare, Verónica si ferma a osservarla fin quando la fame e il vento freddo del Pacifico non ci costringono a tornare alla pensione.

«Hai notato niente di strano?»

«Quando siamo venuti via da casa sul camioncino di don Silva, abbiamo incrociato un mezzo delle forze speciali. Sopra c’erano una ventina di uomini in tenuta da combattimento. Capo, è una cosa brutta o è peggio ancora?» indagò il Petiso.

«Diciamo brutta, per il momento. Tieni le orecchie ben aperte.»

Pedro de Valdivia mi arrivava all’altezza del petto e pur avendo ormai i capelli grigi non aveva cambiato abitudini da quando ci eravamo conosciuti, vent’anni prima, ad Amburgo, proprio il giorno del mio compleanno numero quarantaquattro. Non mi ero mai azzardato a domandargli se il berretto di lana azzurra che si calava sugli occhi fosse lo stesso della prima volta che era comparso nella mia vita, o se facesse direttamente parte del suo organismo.

«Capo, poco fa Verónica mi ha guardato fisso negli occhi ed è vero che non parla, ma io ho capito e le ho detto che andava tutto bene.»

«Grazie, Pedro.»

«E un’altra cosa, capo. Verónica mi ha indicato la pistola, gliel’ho data, lei l’ha controllata e se l’è tenuta. Ma senza nessuna paura, capo. In quegli occhi così belli non c’è nemmeno un pizzico di paura.»

«Pedro, ti ricordi Kramer?»

«Non l’ho conosciuto ma non me lo scordo di sicuro. Per colpa sua ho passato una notte in galera ad Amburgo e mi sono anche preso una scarica di botte dagli sbirri. Certo, capo, il casino in cui ha ficcato lei era ancora peggio, per poco non ci lascia la zampa sinistra.»

Aveva buona memoria il Petiso. Un ex agente della Stasi mi aveva trapassato il piede con una pallottola calibro 9 in un posto sperduto della Terra del Fuoco, e io avevo girato zoppo per un paio d’anni finché le ossa non si erano saldate definitivamente e il segno della pallottola era diventato solo l’ennesima cicatrice, o un diploma sgradito nel mio curriculum di vecchio guerrigliero.

«Kramer mi ha rintracciato e adesso devo fare una cosa per lui. Tu invece devi prenderti cura di Verónica e io so che posso sempre contare su di te.»

«Tranquillo, capo. Dormo con un occhio chiuso e uno aperto.»

Terminai la chiamata e ancora una volta ringraziai la vita che vent’anni prima il Petiso si fosse attaccato a me come una cozza. Sapevo che avrebbe vegliato sul riposo di Verónica, che sarebbe rimasto all’erta mentre lei sprofondava in un sonno placido ma breve, perché da un momento all’altro le sue mani si sarebbero contratte, avrebbero stretto con disperazione le coperte, e alle sue labbra implacabilmente serrate sarebbero sfuggiti appena pochi gemiti di altri tempi, dei tempi del silenzio forzato, del silenzio che esasperava i torturatori di Villa Grimaldi e permetteva ai compagni della resistenza di guadagnare qualche ora preziosa per riorganizzarsi. Stavolta però io non sarei stato accanto a lei, ad accarezzarle i lunghi capelli mormorando sottovoce: «Parla, compagna mia, digli come mi chiamo e dove trovarmi, smettila di proteggermi col tuo silenzio, tanto non possono più farci del male», finché le sue mani non si rilassavano e le sue labbra non tornavano ancora una volta a incurvarsi nella dolce espressione che amo, nel sorriso che riemerge dalle brume di un passato atroce.

Telefonai di nuovo a Eladio e, come sempre, aveva fatto quel che doveva.

«Ti ho trovato un appartamento in avenida Lyon, è di un amico giornalista che adesso non è in Cile, ha continuamente ospiti e nessuno si sorprenderà vedendoti entrare e uscire. Fra un’ora una compagna giovane ti aspetterà in un ristorante lì vicino, all’angolo tra calle Juana de Arco e calle Guardia Vieja, a un passo dalla casa del dottore. La compagna sarà sola, avrà in mano una copia di Le Monde diplomatique e ti darà le chiavi. Tu dille semplicemente che sei amico mio.»

«Le dico il tuo nome vero o quello di battaglia?»

«Per lei sono Eladio, come ai vecchi tempi. Belmonte, ti sei cacciato in un casino grosso?»

«Credo di sì, ma spero che la faccenda si risolva.»

«Se hai bisogno di una mano, sai che puoi contare su di me.»

Riconsegnai la tessera magnetica alla reception, pagai la camera, anche se non ci avevo passato nemmeno una notte, e mi avviai per le strade silenziose della Santiago notturna. Per fortuna il caldo si era placato e sotto gli alberi frondosi del quartiere Providencia si godeva un bel fresco. Il ristorante non era lontano, per cui decisi di raggiungere calle Guardia Vieja a piedi.

«Vicino alla casa del dottore» aveva detto Eladio e camminando lentamente, come uno dei tanti abitanti del quartiere che uscivano a far due passi per conciliare il sonno, cercai il numero 392 di calle Guardia Vieja, la casa del dottore, di Salvador Allende.

La casa era ancora uguale a come la conservavo nei miei ricordi. Noi del GAP, del Grupo de amigos personales, la scorta di Allende, ci riferivamo sempre a lui come al «dottore», non tanto per la sua professione di medico, quanto perché l’ammirazione che provavamo per lui ci impediva di chiamarlo compagno e la confidenza di chiamarlo presidente.

Mi avvicinai all’inferriata nera, e mentre scrutavo dentro il giardino la luce della strada proiettò la mia ombra quasi sulla porta d’ingresso. L’ombra di quel che ero stato entrò in quella casa quarant’anni dopo che vi era entrato il mio corpo di uomo giovane, ventenne, pronto a rischiare la pelle per il «dottore», per quell’uomo che rappresentava il più bel sogno possibile.

La ragazza mi consegnò le chiavi, mi diede qualche indicazione su dove trovare lenzuola e asciugamani e anche la password per il wi-fi, e poi se ne andò con discrezione. Il ristorante era carino e ricordandomi che non avevo mangiato nulla in tutto il giorno mi sedetti a un tavolo all’aperto. Ordinai un piatto di pasta e una birra Kunstmann «Torobayo» molto fredda e, mentre cenavo sotto le stelle, studiai un piano per trovare i miei due ex compagni dell’Accademia Rodion Malinovskij delle Forze corazzate sovietiche.