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55º Latitudine Nord

 

Il vecchio aveva la certezza di respirare l’ultima aria della sua vita, un’aria pesante, densa, che sembrava emanata dal poroso muro di mattoni. Si palpò e sentì che non aveva nessun osso rotto, anche se era stato gettato come un sacco nella cella, e tuttavia non provò alcun sollievo perché sapeva che se era lì, buttato sul suolo di cemento, sotto la luce violenta di una lampada accecante, il peggio doveva ancora arrivare.

Le cose erano successe a una velocità stupefacente. L’elicottero era sceso a pochi metri dalla stanitsa sollevando un vortice bianco di neve, i quattro uomini mascherati avvolti in quella nuvola erano corsi verso la casa, avevano buttato giù la porta, obbligato sua moglie, suo figlio e sua nuora a sdraiarsi a pancia in giù con le mani sulla nuca e poi in due avevano trascinato via lui, senza dire una parola, senza dargli il tempo di mettersi un cappotto e senza rispondere a nessuna delle sue domande. Quando l’avevano fatto sedere a bordo fra due uomini mascherati, gli avevano infilato in testa un sacco nero e il vecchio aveva sentito l’elicottero sollevarsi, sferzato dalle raffiche di vento.

All’inizio sotto il cappuccio era riuscito soltanto a pregare, finché la poca aria fetida che gli entrava e usciva dai polmoni non lo aveva intontito e immerso in un sonno profondo. Era stato svegliato da uno scossone, senza sapere quanto tempo era durato il volo, e dopo una rapida camminata era stato gettato nella cella senza l’asfissiante cappuccio.

Il rumore della porta che si apriva lo distolse dai suoi pensieri e malgrado l’intensa luce della lampada alzò la testa per vedere l’uomo che gli offriva una tazza di tè caldo.

«Beva» disse l’uomo dal fisico robusto e dall’elegante vestito grigio. «Sono il colonnello Stanislav Sokolov. Lei sa leggere e scrivere?»

Il vecchio annuì bevendo a sorsi la tazza di tè.

«Benissimo, così risparmieremo tempo. Le lascio un bloc-notes e una matita. Ha un’ora per una confessione completa» spiegò il colonnello, e uscì dalla cella.

Il vecchio conosceva la passione dei russi per le confessioni esaustive. Si sedette per terra a cominciò a scrivere.

«Il mio vero nome è Aleksej Konstantinovič Kaledin, nipote di Aleksej Kaledin, atamano dei cosacchi del Don. Vivo a Ciolkovskij dal 1946, quando mi trasferii qui da Oberdrauburg, in Austria, insieme ai miei genitori, mio padre Konstantin Alekseevič Kaledin e mia madre Irina Denikin. Avevo dieci anni e amavo la Kosakia, l’unica patria che noi cosacchi abbiamo mai avuto, fondata tra i monti della Carnia, nell’Italia settentrionale, dall’atamano Pëtr Krasnov, che Dio l’abbia in gloria. Mio padre fu deportato in Siberia e mia madre tre anni dopo si sposò con Sergej Budianov, ecco perché sui documenti figuro con il nome di Aleksej Sergeevič Budianov.

«Confesso di buon grado di aver consacrato la vita allo studio della nazione cosacca e all’insegnamento della sua storia alle giovani generazioni. Insegno le vicende dei cosacchi che hanno difeso lo Zar e la Madre Russia dai tartari. Insegno che dopo la sconfitta dell’esercito bianco Pëtr Krasnov, il grande atamano dei cosacchi del Don, percorse la Francia, la Svizzera e la Germania per mettere insieme un esercito di cinquantamila soldati agli ordini di Hitler e combattere gli eserciti di Stalin. Insegno che l’esercito cosacco si lanciò nei combattimenti spinto dalla promessa del Terzo Reich di concederci terre in Ucraina per la creazione di una Repubblica Cosacca. Insegno che la guerra fu crudele con noi e che subimmo una sconfitta dietro l’altra, insieme all’esercito tedesco, e che la ritirata ci portò dalla Bielorussia alla Croazia al Nord Italia, sempre nella speranza che il Terzo Reich ci assegnasse delle terre nelle zone annesse. Insegno che, alla fine del 1944, l’unica terra che potevano darci era fra le montagne della Carnia e che fin lì si spinsero i reggimenti e le famiglie dei cosacchi dell’atamano Krasnov. Insegno che quando gli alleati e i partigiani italiani della Brigata Garibaldi occuparono Trieste dovemmo abbandonare la Kosakia e rifugiarci oltre la frontiera austriaca per riorganizzarci, recuperare il territorio e i tesori che avevamo nascosto. Insegno che a Lienz assistemmo allo sbando dell’esercito, alla resa dei reparti delle SS e capimmo che per l’ennesima volta il sogno della patria cosacca svaniva. Insegno che l’atamano Krasnov accettò di arrendersi agli inglesi a condizione che non fossimo consegnati ai sovietici. Insegno che gli inglesi non rispettarono la promessa fatta, cedettero alle pressioni di Stalin e ci radunarono a Oberdrauburg, per poi farci salire su dei camion che ci portarono in Russia. Insegno che molti cosacchi caricarono pietre e pezzi di metallo sui loro cavalli e, insieme a mogli e figli, si gettarono nelle acque della Drava in un suicidio collettivo. Insegno che il sogno della patria cosacca non deve morire e che confidiamo di tornare a cavalcare agli ordini dell’ultimo atamano. Confesso che è questo che insegno alle giovani generazioni.»

Il colonnello Sokolov lesse quelle pagine scritte con calligrafia incerta e guardò il vecchio scuotendo la testa.

«E tu credi che di queste cazzate interessi qualcosa a qualcuno, vecchio rimbecillito?»

A un ordine del colonnello Sokolov, entrarono nella cella due uomini incappucciati. Avevano una sedia di metallo e, dopo aver spogliato il vecchio, lo fecero sedere con le mani legate alla spalliera. Poi il colonnello gli mise davanti agli occhi una fotografia con i tre giovani cosacchi che avevano giurato di compiere la grande missione e altri due uomini di cui il vecchio non sapeva nulla, tranne che erano mercenari sudamericani.

«Voglio i nomi di questi tre e voglio sapere cosa vanno a fare in Cile.»

Il colonnello uscì dalla cella, chiuse la porta e malgrado lo spessore del legno sentì le grida del vecchio. Faceva abbastanza freddo in quel grande capannone industriale pieno zeppo di cacao, caffè e zucchero cubano. Guardò l’ora sul suo Rolex d’oro e decise di concedere un quarto d’ora ai suoi uomini per ottenere le informazioni desiderate.