4

55º Latitudine Nord

 

Non appena vide il suo attendente aprire la porta dell’ufficio, il presidente della Federazione Russa si alzò in piedi. Il primo ministro entrò nella stanza con il passo deciso, l’andatura elastica e i gesti sicuri di sempre, dai tempi ancora freschi nella memoria di molti in cui aveva ricoperto la massima carica del KGB.

Pur non dicendolo mai, il presidente non mancava di sentirsi a disagio nel suo ruolo di successore del modernizzatore della Russia, colui che aveva fatto di quell’enorme patria-continente il paese con più multimilionari del pianeta.

Il primo ministro prese posto su una poltrona davanti alla scrivania e chiese all’attendente di portargli una tazza di tè, tè inglese, e del miele per addolcirlo.

«Gli anni non passano invano, caro Dmitrij Anatol’evič. Un’ora fa, in palestra, sono stato battuto da un ufficiale venticinquenne, in effetti un judoka dalla tecnica ammirevole. Ti suggerisco di cominciare dalle questioni minori.»

«Da quale, caro Vladimir Vladimirovič?»

«Dalla questione del Cile. Nutro una speciale simpatia per quel paese. Ai tempi dell’Unione Sovietica non lo abbiamo capito e benché il Partito comunista cileno fosse il terzo meglio organizzato al mondo e avesse dimostrato assoluta fedeltà all’Unione Sovietica, non gli abbiamo fornito l’appoggio necessario, non lo abbiamo mai riconosciuto ufficialmente. Il fatto è che Salvador Allende non ci convinceva del tutto: la sua vicinanza alla Jugoslavia di Tito, la sua amicizia col cecoslovacco Alexander Dubček, il suo ruolo di leader nel Movimento dei Paesi non allineati, nell’Organizzazione per la solidarietà con Africa, Asia e America Latina e altri organismi abbastanza critici con la politica estera dell’URSS avevano creato un rapporto puramente formale tra i due paesi. Allende era arrogante, ma il suo valore è innegabile. Ho conosciuto anche altri cileni, passati dall’Accademia del KGB per specializzarsi in mansioni di intelligence. Mi chiedo che fine abbiano fatto.»

Mentre il primo ministro beveva con calma la sua tazza di tè, il presidente gli riferì quello che poteva sembrare un episodio insignificante, ma in realtà rischiava di creare problemi diplomatici.

Una settimana prima l’ambasciatore cileno si era recato da lui e, dopo il consueto scambio di credenziali e i saluti di protocollo, gli aveva parlato di una strana visita, fonte di sorpresa e sconcerto per il suo governo: nell’ufficio della presidente Bachelet era arrivata una delegazione di cosacchi che coi suoi bei costumi appariscenti era stata scambiata dalle guardie del palazzo per una delegazione di ballerini del Bol’šoj in tournée in Cile. La cosa inquietante era che i cosacchi avevano dichiarato di parlare a nome del governo russo e, più che richiesto, avevano preteso l’immediata liberazione di un ufficiale dell’esercito cileno accusato di numerosi crimini contro l’umanità, ufficiale che stava scontando varie condanne in un carcere della nazione australe. La presidente, che insieme alla madre era stata prigioniera nel campo di tortura noto come Villa Grimaldi, dove il suddetto ufficiale si era contraddistinto per la sua crudeltà, aveva respinto le richieste spiegando che in Cile il potere giudiziario è autonomo e indipendente, che durante il processo l’ufficiale aveva goduto di tutte le garanzie proprie di uno Stato di diritto, che era stato condannato da giudici imparziali e che doveva ancora affrontare altri processi, tutti legati a casi di violazione dei diritti umani, arresti illegali, torture, omicidi e sparizioni di persone, avvenuti durante la dittatura di Augusto Pinochet. L’ambasciatore cileno non aveva ritenuto di presentare un reclamo formale, ma aveva comunque voluto esprimere la sua inquietudine per l’accaduto.

Il presidente della Federazione Russa aveva tranquillizzato l’ambasciatore garantendogli che il governo russo non aveva nulla a che vedere con quell’episodio e promettendo di avviare un’indagine rapida e rigorosa, informandolo tempestivamente dei risultati.

Poi, mentre accompagnava l’ambasciatore alla porta, si era ricordato del commento fatto durante una cena da un ex ufficiale dell’esercito sovietico diventato in seguito uomo d’affari. Un giorno del 2005, l’allora presidente e adesso primo ministro Vladimir Vladimirovič Putin aveva presentato, davanti alla Duma, il conto per i servizi prestati allo Stato dai cosacchi durante gli ultimi due secoli, e a tavola l’ex ufficiale aveva commentato che gli sembrava un’iniziativa forse giusta, ma fuori luogo, perché avrebbe potuto incoraggiare sentimenti secessionisti in certi cosacchi deliranti che pretendevano di fondare una repubblica cosacca indipendente, il cui territorio sarebbe andato dal fiume Dnestr, attraverso la steppa, fino al fiume Ural.

Subito prima della stretta di mano di commiato, l’ambasciatore cileno gli aveva consegnato una busta dichiarando: «Eccellenza, queste cose comunque non possono essere altro che incresciose sciocchezze».

La busta conteneva un documento scritto in caratteri cirillici:

 

Glorioso Esercito del Don all’estero
Conferimento della medaglia
«Alla Fedeltà»
Lienz 1945-2005

 

Si attesta che al Maggior Generale Mikhail Semionovič Krasnov (Miguel Krassnoff M.), in conformità con quanto indicato nell’ordine dell’atamano Nº 5 del 29 maggio 2005, viene conferita la medaglia d’argento «Alla Fedeltà» Lienz 1945-2005 per la sua assoluta lealtà e coerenza nei confronti dei valori che caratterizzano i Cosacchi del Don, avendo egli onorato con le sue azioni questo esercito e la Russia.

 

Lienz, Austria, 3 maggio 2005

 

Firmato
Grekov B., Presidente del Consiglio dell’Esercito del Don
Basiiev M., Capo di Stato Maggiore
Tislenkov I., Aiutante di campo

 

 

Il primo ministro appoggiò la tazza sulla scrivania, poi si osservò le mani fini, dalle dita affusolate, e rivolse uno sguardo glaciale al presidente.

«Dmitrij Anatol’evič, ti ricordi il nome di quell’ex ufficiale che aveva criticato la mia iniziativa?»

«Colonnello Stanislav Sokolov. Sotto l’URSS è stato istruttore all’Accademia Rodion Malinovskij delle Forze corazzate sovietiche.»

«Slava. Un ufficiale eccellente. Di che cosa si occupa adesso?»

«Assicurazioni. È agente di una compagnia di assicurazioni internazionale, il Lloyd Anseatico. Controlla tutte le importazioni di frutta, cereali, prodotti ittici, carni e minerali che arrivano nella Federazione Russa dall’America Latina.»

«Un oligarca. Fissa un appuntamento con lui, Dmitrij Anatol’evič. Devo parlare con il colonnello Sokolov.»

«È davvero il caso di preoccuparsi per questa faccenda, Vladimir Vladimirovič?»

«La politica è cominciata quando Caino ha ammazzato Abele e da allora nulla è privo di importanza. Conosci benissimo la mia formazione, caro Dmitrij Anatol’evič, e sai che per me le informazioni hanno un valore assoluto. Per fortuna posso contare su una formidabile rete di intelligence e quindi so che all’interno del museo militare di Podol’sk, nella regione di Mosca, a meno di mezz’ora da questo ufficio, un gruppo di nostalgici espone un’uniforme cilena di Mikhail Semionovič Krasnov, definito l’Ultimo Atamano. Può sembrare puro folklore, ma in Ucraina il primo ministro Julija Volodymyrivna Tymošenko comincia a servirsi dei neonazisti e dei cosacchi per ravvivare il sentimento antirusso. E come sappiamo, prima o poi dovremo far fronte alla necessità strategica di riacquistare la penisola di Crimea. Non vogliamo un’altra Cecenia alle nostre frontiere. Su questo siamo d’accordo, suppongo.»

«Assolutamente sì, Vladimir Vladimirovič. Assolutamente sì.»