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30º Latitudine Sud

 

Il cosacco sudava, il pigiama gli si attaccava al corpo come una seconda pelle vischiosa e ardente. Per quanto si sforzasse, non riusciva a sfuggire agli occhi della ragazza. Due occhi dalle pupille intensamente azzurre che lo paralizzavano.

Tornò indietro con la memoria senza sapere se erano passati minuti, ore, giorni o anni da quando aveva affrontato quello sguardo, e si rivide con indosso l’uniforme da combattimento, macchie verdi per mimetizzarsi, una pistola alla cintura e la sciabola curva da cosacco che gli batteva contro la gamba.

Tolse la benda che copriva gli occhi della ragazza. I lunghi capelli biondi si incollavano alla pelle sudata. Era nuda e lui la guardò con attenzione osservando gli ematomi al ventre, alle cosce, le natiche frustate fino a ridurle a carne viva, i capezzoli bruciati dalle scariche elettriche, le croste di sangue secco che si erano formate sui peli pubici. L’abbracciò. I piccoli seni della ragazza sfiorarono la stoffa ruvida dell’uniforme, lui sentì l’odore di donna giovane e le sussurrò all’orecchio.

«Hai appena diciott’anni, non è giusto che tu debba sopportare tutto questo. Che cosa direbbero i tuoi genitori se sapessero che sei diventata la puttana dei miei uomini? In quanti hanno approfittato di te ieri sera? Quattro, cinque? Pensa ai tuoi genitori, alla tua rispettabile famiglia ebrea, a cosa staranno facendo adesso nella vostra accogliente casa di Peñalolén, non troppo lontana da qui, anche se un po’ più in alto sulla Cordigliera. Sei sola, bambina, e mi appartieni, sei più mia che dei tuoi genitori, di Dio o del tuo rabbino. Mia. Tutto questo però può finire immediatamente, dimmi un nome, uno solo, e io do ordine di slegarti le mani, così ti fai la doccia, ti vesti, torni a casa e domani o dopodomani, quando ricominci ad andare a lezione, puoi dire ai tuoi compagni della Universidad Católica che un cosacco, perché è questo che sono più che un ufficiale cileno, che un cavaliere cosacco ti ha salvato la vita. Dimmi un nome. Uno solo.»

Il cosacco slegò la prigioniera, con la mano guantata le prese il mento e le sollevò il viso. In quegli occhi dalle pupille azzurre non vide altro che lontananza, solitudine e silenzio.

Fece un cenno al soldato in piedi accanto alla porta, il soldato aprì e la tozza figura della tenente dei carabineros Ingrid Olderock, avvolta nel solito tanfo di alcol, si avventò sulla prigioniera.

Il colpo al ventre fece cadere la ragazza di fianco e prima che potesse proteggersi la testa lo scarpone della donna le si schiantò sulla nuca. Le pareti di legno della torre degli interrogatori soffocarono il debole rumore delle ossa che si fratturavano, la prigioniera fu scossa da un paio di spasmi e poi rimase immobile.

La mano aperta del cosacco colpì in pieno la faccia della tenente Olderock.

«L’hai ammazzata, figlia di puttana. Le hai rotto il collo.»

Il corpo della prigioniera rimase disteso per terra con le mani legate dietro la schiena, nudo, e il cosacco diede ordine di chiuderle gli occhi. Il soldato esitò, ingoiò la saliva e infine si rifiutò scuotendo la testa.

«Finocchio» sibilò il cosacco e si chinò sulla prigioniera. Allora vide quei due occhi che lo guardavano da qualche luogo inaccessibile, lontano, forse la patria degli angeli vendicatori, e capì che quello sguardo azzurro lo avrebbe perseguitato per sempre.

A quel punto si svegliò e tastò freneticamente con le mani nel buio per trovare l’interruttore della lampada. Era un incubo ricorrente che attribuì al caldo, anche se l’unica fonte del sudore era la paura.

Non si considerava un uomo facilmente impressionabile, ma due incubi lo strappavano tremante al sonno e lo facevano sentire solo, abbandonato alla mercé di nemici che si potevano sconfiggere soltanto ammazzandoli.

L’altro incubo era cominciato tre anni prima, quando aveva saputo della morte di Osvaldo Romo, un civile, un delinquente di bassa lega che si era infiltrato tra i sostenitori del governo di Allende e della sinistra rivoluzionaria e, dopo il golpe, era diventato un efficiente collaboratore della repressione, della Dirección de Inteligencia Nacional, distinguendosi come delatore e torturatore. Romo era morto di cancro in prigione, nessuno aveva reclamato il suo corpo e quando aveva cominciato a decomporsi, le autorità sanitarie avevano deciso di gettarlo nella fossa comune del Cementerio General. Il cosacco aveva appreso dalla stampa che tutti i becchini si erano rifiutati di portarlo nella fossa, finché non avevano deciso di tirare a sorte e al perdente era toccato trascinare un carretto con sopra la miserabile bara di Romo il Guatón.

Romo era stato il suo braccio destro, l’uomo di fiducia che premiava per le delazioni lasciandogli stuprare le prigioniere durante gli interrogatori, con grande divertimento suo e dei soldati che lo prendevano in giro per la virilità minuscola e i gemiti di eiaculatore precoce.

Si era servito di lui e al tempo stesso lo aveva disprezzato, ma era stato grazie a una delazione di Romo che aveva ottenuto la sua più grande vittoria militare e la più alta decorazione al valore, appuntata sul suo petto da Pinochet in persona.

Alla fine del 1973 i suoi uomini erano riusciti a catturare, torturare e ammazzare Bautista van Schouwen, un medico che era fra i dirigenti del Movimiento de Izquierda Revolucionaria, il MIR. Durante gli interrogatori van Schouwen non aveva detto nemmeno una parola e, per decapitare completamente l’organizzazione, dovevano ancora arrivare al segretario generale, al cervello. Pinochet e il generale Manuel Contreras erano furiosi perché non riuscivano a stanare Miguel Enríquez. Il leader del MIR si muoveva in clandestinità, organizzava la resistenza, scriveva documenti politici che venivano pubblicati sulla stampa straniera: era il nemico più odiato.

Centinaia di agenti della DINA setacciavano il paese ma non trovavano la minima traccia che li portasse a Miguel Enríquez, finché un pomeriggio di ottobre del 1974 Romo era venuto da lui e coi suoi soliti modi viscidi aveva chiesto il permesso di parlare.

Gli aveva detto che certi suoi conoscenti del municipio di San Miguel gli avevano parlato di una strana casa di calle Santa Fe, al numero 725. La casa era abitata da due coppie giovani, presumibilmente di classe medio-alta, e da due bambine. Gli adulti intrattenevano coi vicini solo i rapporti strettamente necessari, ma il padrone di un negozio di alimentari aveva raccontato che compravano da mangiare per vari giorni e che sceglievano sempre prodotti di qualità. La spesa la facevano le donne, che il negoziante non aveva esitato a definire cordiali, anche se riservate, e belle. Gli uomini non uscivano quasi mai di casa, cosa strana perché erano giovani.

Il giorno dopo, il 5 ottobre, il cosacco si diresse in calle Santa Fe insieme a un distaccamento di soldati. Erano pesantemente armati e avevano il supporto di un’autoblindo armata e di un elicottero da combattimento. L’ordine del cosacco fu perentorio: non fate prigionieri.

Appena si avvicinarono alla casa furono accolti da spari. Miguel Henríquez, Carmen Castillo, Umberto Sotomayor e José Bordas opposero una dura resistenza. Sotomayor e Bordas riuscirono a eludere l’assedio saltando nei cortili delle abitazioni sul retro. Carmen Castillo, incinta di sei mesi, fu ferita e Miguel Enríquez si barricò dentro casa deciso a combattere fino alla fine. Dieci pallottole misero fine alla vita del dirigente rivoluzionario. Non appena fu cessata la sparatoria, il cosacco diede l’ordine di entrare, Carmen Castillo respirava ancora e l’intervento di un coraggioso vicino evitò che le dessero il colpo di grazia.

Alla fine dell’operazione, Romo col suo sguardo da cane bastonato si avvicinò al cosacco per ricevere la ricompensa.

«Mi deve un gran favore, signor brigadiere. L’ho fatta diventare un eroe.»

«Non ti devo un bel niente, pezzo di merda» rispose lui.

«Non mi umili, signor brigadiere. Non le conviene» replicò Romo.

Il primo istinto del cosacco fu di tirargli un cazzotto in faccia, eppure qualcosa lo trattenne, una paura inesplicabile di quell’uomo dal corpo flaccido, noto per la sua obesità morbigena, e ricordò, senza sapere bene se l’aveva letto o sentito dire, che in Africa tutti detestano le iene ma nessuno osa picchiarle. C’è qualcosa nello sguardo torvo delle iene che paralizza e sgomenta.

Nei suoi incubi si vedeva dentro una bara di legno da quattro soldi, gli mancava l’aria, cercava di tirare calci o sollevare il coperchio ma quello spazio minimo gli consentiva a stento di muoversi. Sentiva delle voci che dicevano di sbrigarsi a portarlo nella fossa comune perché puzzava, e allora si svegliava tutto sudato gridando in russo: sono un cosacco, devo essere sepolto con tutti gli onori, sono Krasnov, l’ultimo atamano!

L’intensa luce dell’alba che si insinuava dalla Cordigliera delle Ande lo trovò seduto alla scrivania. Cercava di scrivere ma il suo sguardo era fisso su una fotografia che ritraeva due uomini dal volto serio. Uno era il generale Helmuth von Pannwitz, un prussiano che aveva ricoperto la più alta carica del XV Corpo di cavalleria cosacca in Croazia e in Italia e che, pur non essendo russo, veniva considerato un atamano. L’altro era Pëtr Nikolaevič Krasnov, suo nonno. Mancava nella foto, a completare la trinità del comando cosacco alla fine della Seconda guerra mondiale, un terzo uomo, l’atamano Andrej Škuro.

«Come era quella mattina?» scrisse il cosacco, poi lasciò cadere la penna. Si era riproposto di scrivere una storia epica sulla fine di suo nonno, ma la sua limitata fantasia di militare non gli consentiva di immaginare il colore del cielo su Oberdrauburg, in Austria, e lo spessore della recinzione di filo spinato dietro la quale i cosacchi aspettavano di essere caricati sui camion che li avrebbero riportati in Russia, né di sentire le grida angosciate di Helmuth von Pannwitz che rivendicava la sua condizione di ufficiale tedesco del tutto estraneo a quei barbari.

Quello che invece riusciva a immaginare erano i corpi di suo nonno, Pëtr Nikolaevič Krasnov, di suo padre, Semion Krasnov, di Andrej Škuro e di von Pannwitz che dondolavano sulla forca dopo essere stati impiccati il 16 gennaio 1947 sotto il cielo grigio di Mosca.

Allora il cosacco sudava, sicuro che da quell’incubo non c’era risveglio.