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55º Latitudine Nord
I cinque uomini passarono separatamente il controllo della polizia all’aeroporto di Mosca e si riunirono nella sala d’imbarco. Avevano a disposizione ancora un paio d’ore prima di iniziare il viaggio che li avrebbe portati ad Amsterdam, poi a San Paolo e infine, dopo quasi trenta ore di volo e scali, a Santiago del Cile.
«Andiamo a vedere se c’è qualcosa di potabile» disse Salamendi.
Espinoza si alzò in piedi, guardò i tre russi che risposero con un cenno affermativo e seguì il suo compagno.
Nel bar si sedettero su due sgabelli e ordinarono vodka Nemiroff, il liquore ucraino a quaranta gradi con aroma di betulla. Bevvero in silenzio, finché Salamendi non tirò fuori quello che gli teneva impegnati i neuroni.
«Ho sempre immaginato un ritorno in Cile molto diverso. E tu, tovarišč comandante?»
Espinoza ordinò al cameriere di riempire di nuovo i bicchieri. Anche lui aveva immaginato un ritorno in Cile diverso e in un momento diverso, benché ormai non pensasse più a queste differenze. Della sua partenza, un giorno del 1976, conservava a stento frammenti che gli ricordavano la fame, lo sconforto e il freddo sofferti dopo la cattura del suo contatto. Non c’era peggior orfano di chi rimaneva isolato dal partito, senza ordini, senza istruzioni, senza sapere se il contatto caduto aveva resistito alle torture o se aveva cantato e ormai non restavano altri militanti oltre a lui, solo come un naufrago in mezzo a un mare di acque tempestose.
Era in clandestinità da tre anni, si muoveva sotto falso nome, dormiva in case sicure che non avevano niente di sicuro, sotto gli sguardi imploranti di chi gli dava rifugio ma al tempo stesso gli chiedeva in silenzio di andarsene e non tornare mai più. Sempre con la Browning sotto il cuscino e l’indice che sfiorava il grilletto, sempre in dormiveglia e quasi sperando che arrivassero una volta per tutte gli scagnozzi della dittatura per una bella sparatoria in cui, se non lo ammazzavano loro, l’ultima pallottola della pistola avrebbe portato il suo nome.
Quando riuscì a rimettersi in contatto col partito, si sentì dire: «Sei bruciato, compagno, abbiamo deciso di farti uscire dal paese» e lui si limitò ad annuire. Di tutto il discorso che seguì memorizzò a stento il paese di destinazione, il Messico, e la data e il luogo in cui doveva presentarsi per ricevere un passaporto e un po’ di soldi.
Passò i giorni prima del viaggio in rapidi saluti, pieni di bugie perché la clandestinità esigeva di portare avanti la farsa delle vite fittizie, che si moltiplicavano al punto da far sparire nella nebbia delle realtà inventate anche il suo vero io. L’ultimo ricordo del Cile che si rifiutava di svanire era un pomeriggio allo zoo, con il figlio che aveva appena compiuto sei anni.
«Non mi piace lo zoo» aveva detto all’improvviso il bambino.
«Nemmeno a me. Forse non ci piace per lo stesso motivo.»
«Tutti gli animali sono tristi» aveva aggiunto il piccolo.
«Né gli animali né gli uomini vogliono stare in gabbia» aveva detto lui accarezzando la testa del figlio, e non gli era piaciuta per niente quella miserabile definizione di libertà.
Poi erano usciti dallo zoo ed erano saliti con la vecchia funicolare in cima al colle di San Cristóbal per guardare il tramonto mangiando un gelato.
«Camilo, devo fare un viaggio e può darsi che per un po’ non ci vedremo, ma quando tornerò sarà tutto diverso. Andremo al Sud. Ti piacerebbe vedere le balene, i delfini, le foche, i pinguini?»
Il bambino non rispose, scesero in silenzio dal colle, nello stesso silenzio avvolgente camminarono fino alla stazione della metropolitana, e quando arrivarono davanti al portone di una casa il silenzio era ormai asfissiante. Là consegnò al figlio una busta con i soldi che gli avevano dato per lasciare il paese.
«Questa è per la mamma. Abbracciami, Camilo.»
Il bambino lo abbracciò e lui fece fatica a liberarsi di quelle piccole braccia e a spingere il figlio verso il portone.
Prima di entrare il bambino si voltò e mormorò un «papà» che Espinoza non sentì perché la sua attenzione era concentrata sulle auto che passavano, sulla gente frettolosa, sulle finestre degli edifici, sul pericolo latente che poteva essere scacciato solo mettendo mano alla Browning con tredici pallottole nel caricatore e una in canna.
Del viaggio in Messico ricordava a malapena la sensazione di sollievo provata quando l’aereo si era lasciato alle spalle la Cordigliera delle Ande, il sapore del whisky che aveva chiesto alla hostess e che aveva bevuto a sorsi, uno per ogni compagno caduto e per quelli che un giorno sarebbe tornato a vendicare.
«Torno un po’ più vecchio, tutto qui» disse Espinoza finendo la vodka, e con un gesto ordinò al cameriere il terzo giro di Nemiroff.
Salamendi accarezzava il bicchiere come se cercasse le parole nel vetro freddo che sfiorava con le dita.
«Vuota il sacco» ordinò Espinoza.
«A non piacermi è la compagnia, non quello che dobbiamo fare.»
Prima di rispondere Espinoza gli posò una mano sulla spalla.
«La faccenda è tutta qui: ci toglieremo la soddisfazione che la storia sembrava averci negato per sempre, tovarišč. Scriveremo la fine della storia.»
Salamendi voleva aggiungere qualcosa, ma in quel momento gli altoparlanti dell’aeroporto annunciarono l’imbarco.