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33º Latitudine Sud
Kramer mi diede appuntamento a mezzogiorno in un ufficio di Vitacura, il sobborgo ricco di Santiago. Quella mattina il caldo cominciò a picchiare presto, così saltai giù dal letto prima delle otto, mi preparai un caffè e mi sedetti sul balcone a riflettere sul da farsi.
L’appartamento che mi aveva trovato Eladio aveva una vista spettacolare sulla Cordigliera delle Ande e in cima a quell’enorme mole grigia due ghiacciai riflettevano il sole nascente.
Non riuscivo a dimenticare i corpi a terra dei tre slavi, né il sorriso di Salamendi quando aveva visto che ero io l’uomo sulle loro tracce, una smorfia fugace non di sorpresa, assolutamente, ma quasi di sollievo. La faccenda puzzava, però non capivo la natura del fetore.
Alle nove in punto ricevetti una telefonata da Ciro. Il giorno prima avevo informato i Bravi Ragazzi di quanto era successo e avevamo stabilito che avrebbero presentato una denuncia anonima alla polizia, dicendo di aver sentito alcuni spari in una casa.
«Ho delle notizie» attaccò Ciro, «li hanno trovati e grazie a uno che conosco nella PDI, la polizia investigativa, abbiamo scoperto che erano ucraini o per lo meno che sono entrati nel paese con passaporti ucraini. Sono arrivati cinque giorni fa con un volo proveniente da Mosca, via Amsterdam e San Paolo, ma degli altri due, Espinoza e Salamendi, non c’è traccia sui registri d’ingresso. Questo significa che sono entrati in Cile via terra.»
«O sotto falsa identità» aggiunsi.
«No, all’amico della PDI abbiamo mandato anche le loro foto. In aeroporto ci sono telecamere di sorveglianza che riprendono i volti di tutti quelli che passano dai controlli in entrata e in uscita. La PDI ha un programma di ricerca rapida e le loro facce non compaiono in nessuno dei filmati relativi agli ingressi in Cile per via aerea durante le ultime due settimane. Abbiamo anche saputo che la targa del fuoristrada corrisponde a quella di un veicolo rubato due giorni fa da una concessionaria Toyota. Un furto pulito, il veicolo era esposto all’aperto in avenida Apoquindo, in uno spazio recintato soltanto da siepi di ligustro. La telecamera della concessionaria ha ripreso due tizi col passamontagna che agiscono in fretta: forzano uno sportello del fuoristrada, accendono il motore e in meno di un minuto partono a tutta velocità sfondando la siepe. Sono stati loro, Belmonte. Sanno muoversi.»
«Anche voi non ve la cavate male» aggiunsi.
«Non è difficile frugare in questa città piena di telecamere e servizi di sicurezza. Qui perfino i topi possono montare dei sistemi di sorveglianza per sapere dove stanno i gatti. Ti ricordi di Lenin Guardia?»
Ci sono nomi che fanno schifo, e quello è uno. Lenin Guardia era un militante socialista, un fervente rivoluzionario che era passato al MIR inseguendo l’odore di polvere da sparo, e quando era tornato dall’esilio era stato uno dei tanti che avevano subito una metamorfosi, che erano usciti dalla crisalide rivoluzionaria e si erano trasformati in ardenti difensori della nuova democrazia post dittatura e del suo modello economico. Era stato uno degli uomini dell’Oficina, la fogna incaricata del lavoro sporco, cioè di eliminare ogni dissenso. Insieme al suo protettore, il generale Herman Brady, scagnozzo di Pinochet, aveva creato uno dei tanti servizi di sicurezza che avevano riempito Santiago di telecamere e di gorilla con gli auricolari infilati nelle orecchie. Gente come lui insozza l’ombra di quel che eravamo.
«C’è altro, Ciro?»
«Come pensavamo, la casa è stata affittata via Internet, due settimane fa, da Rostov, e il giorno dopo l’arrivo dei defunti un tizio ha pagato in contanti il mese d’affitto e ha lasciato anche i soldi del deposito cauzionale. Ha preteso che gli venisse restituito il foglio della prenotazione, dove compariva il numero di una carta di credito, e l’impiegata dell’immobiliare non ha identificato né Espinoza né Salamendi come la persona che ha fatto il pagamento e preso le chiavi. Secondo la PDI, si tratta di un uomo molto anziano, un vecchio di poche parole, che però ha ripetuto più volte di non aver bisogno d’altro, né lenzuola né asciugamani, perché la sua famiglia avrebbe portato tutto il necessario. Il sogno di ogni locatore.»
«Questo vuol dire che hanno degli agganci in Cile.»
«In ogni caso il vecchio ormai è bruciato e la PDI lo cerca come possibile assassino dei tre ucraini. Appena ne sappiamo di più, ti informiamo.»
Salutai Ciro pensando alle sue ultime parole. I tre ucraini erano destinati a morire, Espinoza e Salamendi lo avevano già pianificato e io probabilmente avevo solo accelerato il finale. Forse pensavano di farli fuori più avanti, con discrezione, ma l’uomo che li aiutava si era bruciato ed erano rimasti senza appoggio per portare a termine la missione che li aveva portati in Cile. La faccenda puzzava sempre di più.
Mi misi la Beretta in una tasca e un caricatore di ricambio in un’altra e uscii per strada. Febbraio ci salutava con un caldo asfissiante, era una sofferenza inalare quell’aria infuocata.
Attraversai la lussuosa soglia dell’edificio in vetro e acciaio e subito mi si avvicinarono i due russi che avevo conosciuto il giorno del primo incontro con Kramer. Con un gesto mi indicarono di seguirli fino agli ascensori. Stavolta non ci fu perquisizione e volli ringraziarli per quella prova di fiducia.
«Il pugno dell’altro giorno non aveva niente di personale.»
«Te lo restituirò, sempre senza niente di personale» disse il gorilla in uno spagnolo dal forte accento russo.
Kramer era nella sua sedia a rotelle e Slava su una poltrona Le Corbusier. Ce n’era un’altra libera e in mezzo un tavolinetto con caffè, tazze, bicchieri e una bottiglia di vodka Stolichnaya dentro un blocco di ghiaccio.
«Il mio vecchio amico Belmonte. Vedo che la dote tedesca della puntualità fa ancora parte delle tue virtù» mi salutò Kramer.
«Tre morti, Kramer. Che piani hanno Espinoza e Salamendi? Chi erano quei tre cadaveri?»
«Colonnello, a queste domande può rispondere lei» disse Kramer rivolgendosi al russo.
Slava riempì due bicchieri di vodka e me ne porse uno, io mi accesi una sigaretta e lui fece lo stesso. Kramer ci avvisò che eravamo in un edificio intelligente e che il fumo avrebbe attivato gli sprinkler antincendio. Allora Slava gridò qualcosa a uno dei suoi uomini che si precipitò al telefono per chiedere di spegnere il sistema.
«Quei tre disgraziati erano solo feccia, veterani della guerra di Cecenia, mercenari folkloristici di una causa assurda, come tutte le cause del ventunesimo secolo. L’unica ragione per vivere, la più legittima, è la ricchezza, tutto il resto è assurdo.»
«Anche questo è folklore, Slava. Potrebbe essere una citazione da Ibsen, Un nemico del popolo. Ma non sta rispondendo alle mie domande.»
«Che cosa sa dei cosacchi, Belmonte?» domandò Slava e si scolò d’un fiato il bicchiere di vodka.
«Folklore anche quello. A Mosca ho letto un libro proibito, Cavalleria rossa di Isaak Babel’, e non ci facevano bella figura. Li ho visti anche al circo. Vogliamo andare al sodo, colonnello?»
«La Russia è cambiata, questo lei lo sa o lo suppone, ma non immagina quanto. Nulla di ciò che ha conosciuto esiste più e fra le varie misure adottate per cancellare il passato sovietico ci sono state anche certe, diciamo così, riparazioni. È il caso dei cosacchi: i loro trascorsi di controrivoluzionari al servizio della Russia bianca agli inizi del bolscevismo sono stati emendati, e la loro alleanza con i nazisti durante la Seconda guerra mondiale non è più vista come un tradimento. Ora la consideriamo un sacrificio necessario per liberarci dalla tirannia comunista.»
«Lei continua a parlare come un lurido apparatčik, Slava. Vada al sodo, cazzo.»
«Quei cinque uomini avevano una missione che, grazie al controspionaggio, abbiamo scoperto in tempo. I tre morti erano cosacchi, al servizio di un’organizzazione di pazzi furiosi che sognano la nascita di una nazione cosacca. Al governo della Federazione Russa la cosa non dà fastidio purché tutto rimanga nell’ambito del folklore, che si dedichino pure ai loro cavalli, ai loro balli, alle loro balalaiche. Però c’è stato un imprevisto, i cosacchi sono sfuggiti al controllo e hanno deciso di fare una cosa molto spiacevole per i rapporti commerciali fra il Cile e la Federazione Russa. Per fortuna manteniamo vive le vecchie amicizie e le alte sfere mi hanno incaricato di indagare sulla faccenda. Quei cosacchi sono gente primitiva ma decisa, tuttavia è bastato esercitare un po’ di pressione sulla guida spirituale del gruppo per venire a conoscenza dei loro piani.»
Anch’io mi scolai il bicchiere di Stolichnaya tutto d’un fiato. Avevo dimenticato le doti drammaturgiche dei russi, quella tecnica, così cara ai dirigenti sovietici, di riempire il tempo di parole vuote prima che il tempo ci copra di merda. Dal sermone di Slava potevo dedurre soltanto che avevano acchiappato qualcuno, che l’avevano torturato in qualche oscuro seminterrato o ufficio di burocrate, e che quel poveretto aveva tradito i cinque uomini e chissà quanti altri.
«Guida spirituale, commissario politico, è uguale. Ha fatto la spia, e adesso le chiedo solo di inventarsi un eufemismo per spiegarmi una volta per tutte cosa dovevano fare in Cile e perché sono morti. Vada avanti, Slava, lei è meglio di Čechov.»
«Questo tizio mi piace, Kramer. È arrogante e cinico. Se ai vecchi tempi lo avessi conosciuto meglio ora sarebbe fra i miei uomini di fiducia. Brindiamo all’occasione persa» disse Slava riempiendo di nuovo i bicchieri. «L’eufemismo, Belmonte, è che i suoi ex compagni, Espinoza e Salamendi, sono uomini pratici. Non è stato difficile rintracciarli un paio di giorni prima che lasciassero la Russia e convincerli a cambiare piani. Dovevano eliminare con discrezione i tre cosacchi e disfarsi dei corpi. Nessuno si sarebbe dato la pena di cercarli in un paese remoto e questo avrebbe risolto per sempre il problema. Naturalmente non viaggiavano soli, li accompagnava una specie di ombra, un uomo dei servizi segreti incaricato di controllare che tutto andasse come concordato. E qui interviene lei, Belmonte, perché questo agente dei servizi segreti è stato ritrovato morto, strangolato in un bagno dell’aeroporto di San Paolo, e l’itinerario di viaggio è cambiato. I tre cosacchi hanno preso il loro aereo per Santiago, ma i suoi due ex compagni sono spariti, fino a ieri, quando lei li ha ritrovati.»
«Maledizione, Slava. La missione. Qual era o qual è la missione?»
Kramer mi fece cenno di accompagnarlo alle vetrate che davano sulla Cordigliera.
«Sono svizzero, Belmonte, la mia eloquenza è limitata. La missione si chiama Miguel Krassnoff.»
Sentire quel nome mi portò subito indietro nel tempo, un viaggio vertiginoso alla velocità dell’odio, superiore alla velocità della luce. Durante il viaggio vidi Verónica che veniva trascinata via da casa nostra con gli occhi bendati e le mani legate dietro la schiena. Le avevano dato appena il tempo di infilarsi dei jeans e una camicetta. Io non ero con lei e forse era viva proprio per quello, perché avremmo vuotato tutti e due i caricatori della «Catalina», una Colt calibro .45 dall’impugnatura in madreperla, e le ultime due pallottole sarebbero state per noi mentre ci baciavamo, prima lei e poi io. La portarono fuori a forza di botte e spintoni. Romo, quello schifoso cane da caccia, la tirava per i lunghi capelli neri che calpestò con gli scarponi quando la buttarono a pancia in giù nella macchina senza targa per poi allontanarsi rapidi nelle strade del vecchio quartiere, fra gli sguardi terrorizzati dei vicini che giuravano a se stessi di non aver visto nulla. Due giorni dopo ricevetti la notizia più crudele, quel «la tua compagna è caduta» che mi fece violare tutte le regole della clandestinità per mettermi a setacciare le strade di Santiago alla ricerca di un segno, una pallida traccia, un minimo sentore del suo profumo, un’eco della voce, una piccola luce lasciata dal suo sguardo, stringendo la pistola con il veemente desiderio di ammazzare i suoi rapitori. La persi. Passarono i giorni, la resistenza si indeboliva malgrado le azioni di compagni ancora pronti a giocarsi la vita. Lasciai il Cile, combattei un’altra guerra e ogni pallottola che sparai nella selva del Nicaragua la sparai pensando a lei. Così passarono gli anni e le sconfitte finché una lettera ricevuta ad Amburgo non me la restituì. Verónica aveva affrontato il cosacco, il capitano Miguel, l’unico che a Villa Grimaldi torturava a faccia scoperta. Il cosacco le mostrava una foto con noi due in un parco di Santiago e le chiedeva il mio nome. Verónica taceva. Il suo corpo saltava nudo sulla «griglia», la branda di metallo a cui applicavano gli elettrodi. Verónica taceva. Krassnoff, il cosacco, la prendeva per i capelli arruffati e le prometteva la libertà in cambio dell’indirizzo del mio nascondiglio. Verónica lo conosceva e taceva. Tremava di dolore a ogni seduta di tortura e taceva. Il suo silenzio era la più grande dimostrazione d’amore verso di me e verso i miei compagni. Verónica decise di dimenticare il meccanismo che porta le parole dal sentimento alla bocca e con tutte le sue forze di combattente allontanò il suo corpo dal regno del cosacco.
Fu quello che gettarono in una discarica di Santiago. Un corpo fra altri corpi senza vita, ma Verónica conservava ancora la tenue fiammella che illumina l’essere, come un minuscolo faro nella notte più fitta e più buia. Così la trovò la nobile doña Anita, che si prese cura di lei al posto mio.
Quando la ritrovai, dopo il primo lavoro che feci per Kramer, giurai di ammazzare il cosacco, ma la vita è una somma di piccole vittorie apparentemente irrilevanti e una di queste fu poterla riavere al mio fianco e aspettare insieme il momento in cui, adesso che eravamo tutti e due in salvo, sarebbe riuscita a rinunciare al suo silenzio responsabile e riprendere a cantare con la voce di sempre i nomi delle cose di cui sono fatti i giorni.
Sapevo che Krassnoff, il cosacco, stava scontando varie condanne in carcere, che ne avrebbe ricevute molte altre e sarebbe marcito dietro le sbarre. Per me era morto.
«Krassnoff?» riuscii a balbettare.
«Krasnov» mi corresse Slava dalla poltrona, come se il lieve cambiamento nell’identità del torturatore avesse qualche importanza.
Accettai il bicchiere di vodka che mi tendeva e aspettai il resto del discorso.
«Quei tre cosacchi morti costituivano il commando che assieme ai suoi ex compagni doveva liberare Miguel Krasnov. Avevano studiato bene le caratteristiche del Centro di Detenzione Cordillera, oggi tutto è possibile grazie a Internet e ai satelliti delle telecomunicazioni, e poi potevano contare sul sostegno di una rete di nostalgici che, ispirandosi all’organizzazione Odessa, avrebbero fornito loro armi e aiuto per lasciare il paese ed entrare in Argentina. Da una parte il danno ai rapporti commerciali sarebbe stato enorme, cosa che mi preoccupa personalmente, e dall’altra al governo russo non avrebbe portato una buona pubblicità accogliere sul proprio territorio un criminale innalzato al rango di grande atamano dei cosacchi o direttore del Bol’šoj. Così abbiamo mandato a monte tutta l’operazione da Mosca, confidando nel fatto che i suoi ex compagni avrebbero rispettato i patti, invece siamo stati colti di sorpresa da quel che è successo a San Paolo. Allora il signor Kramer ha detto di conoscere l’uomo giusto per ritrovarli.»
«Lei mi delude, Kramer. O quella sedia a rotelle pensa meglio del suo cervello o gli anni le hanno presentato il conto. Se si trattava di evitare conflitti fra Russia e Cile, quei tizi avrebbero potuto fermarli sia la polizia cilena sia i suoi amici dell’Oficina. Perché mi ha cacciato in questo pasticcio?»
Il vecchio svizzero rise beffardo sulla sua sedia a rotelle e prima di rispondere si guardò le mani pallide.
«Come ha detto il colonnello, fino all’incidente di San Paolo era tutto sotto controllo. Adesso non sappiamo che cosa stiano tramando Espinoza e Salamendi, ecco perché ho fatto ricorso ai tuoi servizi, Belmonte. Forse, visto che hanno informazioni compromettenti, vogliono vendere il loro silenzio. Devi trovarli un’altra volta.»
«Perché poi lei li dissuada, Slava? Per questo ha portato i suoi gorilla?» chiese Belmonte.
«Questi non sono più affari suoi» tagliò corto Slava.
«Kramer, quei due sapevano che sulle loro tracce c’ero io.»
«Questa è paranoia, Belmonte. Un male molto diffuso tra i vecchi guerriglieri.»