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33º Latitudine Sud
L’officina meccanica era in avenida Recoleta, vicinissimo al cimitero, e sfoggiava un variopinto murale che copriva interamente il portone di lamiera. Rappresentava montagne innevate, araucarie, un lago e una parodia di decappottabile su cui viaggiavano tre tizi con la barba. Il nome non poteva essere più invitante: OFFICINA I BRAVI RAGAZZI.
L’opera aveva il marchio inconfondibile dei murales di Alejandro González, detto il Mono, che con i suoi lavori legati all’estetica della Brigada Ramona Parra aveva coperto centinaia di muri in Cile e in Europa.
Mi bastò spingere leggermente un’anta del portone per entrare nell’officina. C’erano varie automobili con i motori in bella vista, i cofani aperti come se sbadigliassero, grate per il riposo. Vidi un uomo nella fossa d’ispezione, impegnato con la saldatrice sotto un veicolo, e scesi alle sue spalle.
«Una mossa falsa e ti do un bacio» dissi puntandogli un dito sulla nuca.
Lui si girò, spense la saldatrice, si tolse la maschera che gli proteggeva gli occhi e scoppiò in una risata.
«Belmonte!» esclamò, per poi soffocarmi subito in un abbraccio.
Dopo pochi minuti mi ritrovai seduto davanti a un tavolo in fondo all’officina. Con me c’erano Ciro, il saldatore, e Marcos, e un po’ più in là Braulio buttava delle salsicce su una griglia. Non erano i loro veri nomi ma nella mia memoria si chiamavano sempre Ciro, Marcos e Braulio, compagni dell’Ejército de Liberación Nacional, sopravvissuti alla guerriglia del Teoponte in Bolivia, del Frente Sur in Nicaragua e alla lotta contro la dittatura in Cile. Tutti e quattro appartenevamo a una cultura estinta nella quale non contava tanto il nome riportato sul certificato di nascita quanto il nome di battaglia scelto per morire.
«C’è qualche motivo per brindare?» domandò Marcos servendo un vino bianco molto freddo.
«Siamo ancora vivi. E non è poco» commentò Braulio.
«A noi, noi che ci siamo ancora» proposi.
«Siamo sempre di meno. Ai vecchi è venuta la cattiva idea di andarsene» disse Braulio alzando il bicchiere.
Dopo aver mangiato un’ottima salsiccia esposi i motivi per cui ero lì e mostrai la fotografia dei due uomini che dovevo trovare.
«Questo lo conosco, l’ho visto a Cuba, a Punto Cero, il suo nome di combattimento era Igor, un ufficiale di intelligence addestrato in Unione Sovietica» spiegò Ciro.
«Trovarli e che altro?» volle sapere Braulio.
Spiegai brevemente il pasticcio in cui ero finito e il fatto che dovevo rintracciare quei due per essere lasciato tranquillo nel mio rifugio di guerrigliero in pensione. Dovevo trovarli e basta. La mia missione era tutta lì.
«Quest’altro mi è familiare, è chiaro che siamo cambiati tutti, abbiamo i capelli bianchi o siamo pelati, siamo grassi o rinsecchiti. Se quel tedesco, Alzheimer, non m’inganna, era un comunista, della squadra dei duri, nel ’75 ero vicino a lui durante un’azione punitiva. In quel periodo ci guardavamo le spalle a vicenda nelle azioni di guerriglia e una volta giustiziammo un ufficiale specializzato nel rubare immobili. Andava dalle famiglie dei prigionieri politici e offriva la libertà del marito o della figlia, chiedendo in cambio che la casa venisse intestata a lui, ma quando veniva accontentato i prigionieri rimanevano uccisi in qualche tentativo di fuga. A pensarci bene però lo conoscevo già da prima, mi stanno cominciando a funzionare i neuroni. Se non sbaglio, si chiama Víctor Espinoza. Io e quel tizio lì siamo cresciuti insieme nel quartiere Vivaceta» precisò Marcos.
Li avevo già identificati entrambi e avevo informazioni che mi conducevano all’ombra di ciò che erano stati in Cile. Tutto si può cancellare, tranne quell’ombra.
Dai miei vecchi compagni dell’ELN, gli elenos, non potevo scoprire altro. Tutti e tre erano tornati in Cile negli ultimi anni della dittatura, avevano partecipato ad azioni di propaganda armata, avevano appoggiato e ammirato i combattenti del Movimiento de Izquierda Revolucionaria e del Frente Patriótico Manuel Rodríguez, giovani che sfidavano la morte obbedendo agli ordini di dirigenti che, da Mosca, Berlino o L’Avana, si autoconvincevano delle analisi più assurde e finivano per diventare generali senza truppe, perché quegli eroici ragazzi e ragazze, pur avendo dimostrato coraggio, chiaramente non conoscevano il Cile, la sua storia recente e, quel che è peggio, non avevano mai combattuto contro un esercito regolare equipaggiato con le armi migliori. Come molti veterani degli anni Settanta e Ottanta, i miei compagni avevano visto i vecchi dirigenti sistemarsi, trasformarsi da rivoluzionari in paladini del neoliberismo o in semplici parassiti dello Stato. Come molti altri militanti di sinistra si erano staccati dal Partido Socialista per non diventare complici degli amministratori della disperazione.
«Bene, vediamo cos’altro possiamo trovare» disse Ciro, e lo seguimmo in ufficio.
Prima di accendere il computer, Ciro pensò a voce alta.
«Quei due tizi sono come noi, sanno muoversi, ma le foto all’aeroporto dicono che hanno perso certe buone abitudini. Le passo allo scanner e poi domando a qualcuno.»
Così fece e subito inviò le immagini a un sopravvissuto del Frente Patriótico Manuel Rodríguez. La risposta non si fece attendere a lungo.
«Che cosa stanno combinando?»
«Sono nell’affare?»
«No, non ci sono mai entrati. Avevano dei posti nella casa madre dell’azienda. Non hanno mai fatto visita a questa succursale.»
«Può darsi che cerchino vecchi soci per mettersi in proprio?»
«Non credo. Le nostre merci sono obsolete. Non c’è più mercato per noi. Desideri altro?»
«I loro nomi, purché non si bruci nessuno.»
«Si può bruciare di nuovo un bosco dopo un incendio? Il più alto si chiama Víctor Espinoza, l’altro Pablo Salamendi. Sono stati tutti e due testimoni a distanza della fine della storia, della nostra storia.»
Era ormai chiaro che quei due uomini non avrebbero fatto ricorso a vecchi legami di lealtà fra compagni e che insieme ai loro accompagnatori avrebbero dovuto trovarsi un posto dove stare a Santiago.
Il passo successivo fu prendere come riferimento la data della fotografia dell’aeroporto moscovita e a partire da quella setacciare le agenzie immobiliari che proponevano ville e appartamenti in affitto. Qualunque fosse il motivo che li portava a Santiago, si sarebbero fermati per poco tempo e avrebbero avuto bisogno di un posto ammobiliato e, se erano più di quattro, la soluzione più indicata era una casa. Questo restringeva notevolmente il raggio delle ricerche e, considerando che quei tizi non volevano lasciare tracce, la cosa più probabile era che avessero cercato un affitto in Internet prima di partire. Non erano molte le offerte di case per locazioni brevi, specie quelle in dollari e non nella strana Unidad de Fomento, il succedaneo cileno del denaro che faceva aumentare ogni giorno il prezzo delle cose. Alla fine stendemmo una lista delle case che noi avremmo scelto come base e la ricerca si ridusse a cinque. Due erano state affittate qualche giorno prima del 12 febbraio.
A mezzogiorno, nell’officina, il caldo di Santiago cominciò a farsi sentire come una maledizione e i Bravi Ragazzi si preoccuparono del mio equipaggiamento. Quando mostrai la Beretta fecero gesti rassegnati, qualcuno commentò: «Simpatico il giocattolino» e mi spiegarono che se avevo bisogno di qualcosa di meglio loro avevano ancora dei ferri. Dopodiché si rifiutarono di lasciarmi andar via senza un’automobile: si guadagnavano la vita riparando macchine condannate alla demolizione. Uscii dall’officina guidando un’auto impeccabile, addirittura con l’aria condizionata.
Poco prima delle tre del pomeriggio cambiai duemila euro in pesos cileni da uno di quei cambiavalute che non ti chiedono un documento d’identità, e poi andai subito a vedere una delle due case probabilmente affittate dagli uomini che dovevo trovare.
Era una tipica villetta del quartiere Ñuñoa, con un giardinetto in cui fiorivano le ortensie, chiusa da una recinzione in ferro battuto. Passai lentamente davanti al cancello, feci il giro dell’isolato e parcheggiai all’ombra di un albero frondoso a una cinquantina di metri di distanza.
Ben presto dalla casa arrivarono segni di vita. Dei bambini biondi in costume da bagno cominciarono a schizzarsi con una canna dell’acqua in giardino. Poco dopo comparve una donna, bionda anche lei, forse europea, che si unì al gioco. Era bella, con l’aria rilassata, non aveva nulla della tensione che segna i movimenti del clandestino. Non era quella la casa.
Si stava bene all’ombra dell’albero con l’aria condizionata della macchina al massimo. Presi un cellulare e feci una telefonata.
«Tutto bene, capo?» mi salutò il Petiso.
«Calma piatta, Pedro. E dalle tue parti?»
«Ieri hanno perquisito la casa, capo. Ma era pulita e sembra che non si siano portati via nulla. Una perquisizione strana, capo. Il figlio di don Silva è andato di buon’ora a dare un’occhiata e a quanto dice non manca nulla, anche il televisore e la radio sono ancora al loro posto. Non si vedevano danni, tutto molto strano considerando che, quando perquisiscono una casa, la tradizione vuole che si rubino anche il gatto.»
«E Verónica?»
«Bene, capo. Tranquilla, con quello sguardo che sembra cercare qualcosa in mare e sempre con la Makarov a portata di mano. All’improvviso mi fissa e sento che mi ringrazia di qualcosa, ma nessuno di voi due deve ringraziarmi di nulla, capo. Siamo compagni.»
«Ti dobbiamo più di quanto immagini, Petiso. Dille che sto bene e tieni le orecchie ben aperte.»
Il Petiso aveva ragione. Verónica cercava qualcosa in mare, all’orizzonte, qualcosa di molto suo che aveva perso in quel posto maledetto chiamato Villa Grimaldi. Quando diciotto anni prima l’avevano dimessa dalla clinica danese specializzata nel trattamento delle vittime di tortura, il dottor Christiansen mi aveva ordinato di dimenticare quel «l’hanno rotta dentro» che mi rodeva l’anima, sempre che io ce l’abbia questa appendice della sofferenza, e mi aveva spiegato che non c’era niente di rotto, la mia compagna aveva resistito al dolore facendo in modo che il suo io intimo, felice, di donna giovane, fuggisse lontano, in un viaggio simile a quello che i mistici chiamano viaggio astrale, e che il suo silenzio, il suo sguardo fisso sull’orizzonte, era una ricerca di se stessa, un seguire le proprie tracce per ritrovare la donna di vent’anni, per invitarla a tornare dentro di lei, ad abitarla, per essere di nuovo completa, invitta, incrollabile.
Sì, mi sembrava di vedere Verónica affacciata alla finestra davanti al mare di Quellón, difesa dal Petiso e accudita dalla nobile signora Anita, quella donna che me l’aveva restituita quando la credevo morta e che in una lettera spedita da Santiago ad Amburgo mi aveva raccontato come fosse stata ritrovata nuda, quasi priva di vita, in una discarica, insieme ad altre vittime dei militari, il 19 luglio 1979, lo stesso giorno in cui io entravo a Managua come combattente della Brigada Internacional Simón Bolívar. La signora Anita si era presa cura di lei, l’aveva protetta per lunghi anni, pur non essendo una militante nostra era riuscita a muoversi negli ambienti della clandestinità fino a ritrovarmi, e così avevo recuperato l’essenza dell’amore. Tornato in Cile, con parte dei soldi che Kramer mi aveva dato per il primo lavoro fatto per lui, avevo portato la signora Anita insieme a noi nel Sud e le avevo comprato la pensioncina di tre stanze che gestiva.
Misi in moto la macchina e mi diressi verso la seconda casa, nel municipio di La Reina. Era una costruzione moderna, a due piani, e la prima cosa che attrasse la mia attenzione passandoci davanti furono le serrande tutte abbassate. Parcheggiai in una strada vicina e mi diressi verso un palazzo a più piani che era quasi davanti alla casa. Scelsi un campanello a caso e suonai.
«Chi è?»
«La luce. Vengo a leggere i contatori.»
«Apro subito.»
Ignorai l’ascensore e cominciai a salire le scale, dalle finestre dei mezzanini si vedevano la strada e la casa. Al sesto piano ebbi una panoramica completa. La casa, sul retro, proprio dietro il garage ermeticamente chiuso, aveva un giardino con una piscina e malgrado ci fossero quasi trentasei gradi nessuno stava facendo il bagno.
Mi accesi una sigaretta e aspettai senza che nella casa si muovesse nulla. Non mi importava, so aspettare, dopo tutto ero uno sniper addestrato sotto la guida di Slava e, sepolto nella neve, avevo imparato l’arte della pazienza.
Verso le sette del pomeriggio sentii il portone del palazzo aprirsi più volte. Era gente che tornava dal lavoro e più d’uno si sarebbe insospettito davanti a un tizio che fumava sul pianerottolo delle scale. Misi mano a uno dei cellulari che mi aveva dato l’hacker di La Legua e vidi con piacere che avevo a disposizione quattro giga di accesso a Internet. Cercai una pizzeria nel quartiere e dopo aver inserito uno dei miei indirizzi di posta elettronica gmail entrai nella chat. Ordinai due pizze margherita e due birre. L’operatore della chat mi informò di un’offerta speciale: se ordinavo tre pizze, bibite e dessert erano gratis. Accettai e scelsi tre porzioni di tiramisù. Quando mi domandò come avrei pagato scrissi in contanti, alla consegna, e diedi l’indirizzo della casa. Le pizze sarebbero arrivate nel giro di un quarto d’ora e chiesi che fossero ben calde. Un minuto dopo ricevetti un’e-mail con la conferma dell’ordine.
Il fattorino di Pizza Nostra arrivò con perfetta puntualità. Parcheggiò la moto, si tolse il casco, aprì il porta-pizza e tirò fuori tre contenitori di cartone e un sacchetto di plastica con le bibite e i dessert. Poi suonò al cancello del giardino e allora lo vidi.
Era Pablo Salamendi, «Igor», abbastanza invecchiato rispetto a quando l’avevo visto l’ultima volta nella piazza d’armi dell’Accademia Rodion Malinovskij. Fissò stupito il fattorino e andò al cancello guardando in tutte le direzioni, tenendo sotto controllo i movimenti della strada. Forse disse che si trattava di un errore, non riuscivo a vederlo in faccia, il fattorino che gli indicava il numero civico mi copriva la visuale. In quel momento uscì dalla casa un altro uomo, più giovane, biondo, robusto, dall’aria slava, con una maglietta che metteva in evidenza il fisico muscoloso, e si precipitò al cancello con passi energici. Salamendi fece un gesto che invitava alla calma, sulle sue labbra si delineò nitido il ne spor’te, l’ordine di non discutere, poi pagò e rientrò in casa seguito dallo slavo.
Ho preparato tante trappole strane in vita mia ma mai una così rozza, così semplice. Dal mio posto di vedetta vidi alzarsi due tapparelle e il russo di prima, più un altro dall’aria altrettanto slava, affacciarsi a scrutare la strada con dei binocoli. La discussione davanti alle pizze doveva essere stata appassionante: o si trattava di una coincidenza incredibile o la loro casa non era più sicura.
Aspettai che abbassassero di nuovo le serrande e uscii in strada. Una volta in auto, presi il cellulare che mi aveva dato Slava e chiamai l’unico numero in memoria.
«Ecco il mio vecchio amico Belmonte» mi salutò Kramer.
«So dove si trovano.»
«Ero sicuro di poter contare su di te. In meno di due giorni hai trovato l’ago nel pagliaio. I nostri vecchi conoscenti e quanti altri?»
«Ne ho visti altri due, russi. Se fossi in lei o in Slava, e le assicuro che non mi piacerebbe, agirei in fretta. Se quei tizi sono svegli prenderanno subito il volo.»
«Allora non devi perdere di vista il nido, finché non arriva il settimo cavalleggeri. Dammi l’indirizzo e aspetta lì» ordinò Kramer e chiuse la comunicazione.