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«Laurette Philomène Saulnier Landry. Data di nascita, 22 maggio 1938. Deceduta il 17 ottobre 1972.»

Morta a trentaquattro anni? Che tristezza.

Rividi Laurette nella cucina di Euphémie a Pawley's Island. La mia mente di bambina non aveva mai registrato la sua età. Era semplicemente un'adulta, meno vecchia della nonna, più sciupata della mamma.

«È morta così giovane? Di che cosa?»

«Il certificato di morte riporta cause naturali, ma non specifica quali.»

«Sicuro che sia la persona giusta?»

«Laurette Philomène Saulnier sposò Philippe Grégoire Landry il 20 novembre 1955. Ebbero due figlie: Evangeline Anastasie, nata il 12 maggio 1956, e Obeline Flavie, nata il 16 febbraio 1964.»

«Gesù, non posso credere che tu l'abbia trovata così in fretta.» Oltre a quelle mie prime indagini telefoniche, avevo interpellato periodicamente l'ufficio anagrafe del New Brunswick, ma non avevo mai scoperto niente.

«Ho usato il mio fascino acadiano.»

Il fascino di Hippo lo avrebbe fatto arrivare al massimo in metropolitana, a patto che avesse il biglietto.

«Negli anni Sessanta, era la Chiesa a tenere gran parte dei dati anagrafici. In certe zone del New Brunswick, i bambini nascevano ancora in casa, specie nelle aree rurali e nelle cittadine più piccole. Molti acadiani non avevano tempo per lo Stato e le sue istituzioni. Ed è ancora così.»

Sentii Hippo deglutire e immaginai che stesse ingoiando le sue pasticche.

«Ho una nipote che lavora nella parrocchia di San Giovanni Battista, a Tracadie. Conosce gli archivi come io conosco il mio uccello.»

Non avevo assolutamente intenzione di sentirlo parlare di questo, perciò cambiai subito argomento: «Hai trovato i certificati di battesimo e di matrimonio tramite tua nipote?».

«Certo e siccome sono uno del posto, ho cominciato a telefonare a destra e a sinistra. Noi acadiani ci identifichiamo con i nomi degli antenati. Prendi me, per esempio. Sono Hippolyte à Hervé à Isaïe à Calixte...»

«Che cosa hai scoperto?»

«Come ti dicevo, quarant'anni sono un sacco di tempo, ma la Banca nazionale acadiana della memoria ha un caveau spropositato. Ho scovato alcuni che si ricordavano di Laurette e delle ragazze. In realtà non mi hanno detto molto, per il rispetto della privacy eccetera, ma sono riuscito a ricostruire l'essenziale.

«Quando Laurette fu troppo malata per lavorare, i parenti del maritino l'accolsero presso di loro. I Landry vivevano fuori città, piuttosto isolati. Uno di quelli con cui ho parlato - uno che risiede nella zona da generazioni - li ha chiamati morpions, roulottari, poveracci. Ha detto che erano per lo più analfabeti.»

«Laurette aveva la patente.»

«No. Laurette aveva una macchina.»

«Ma doveva avere un documento. Ha attraversato più volte il confine.»

«Okay, forse aveva pagato qualcuno. O forse era abbastanza intelligente da leggere un po' e memorizzare i cartelli stradali. Philippe abbandonò Laurette mentre era incinta di Obeline, lasciandola sola a mantenere le due figlie. Lei ci riuscì per quattro o cinque anni, poi dovette smettere di lavorare. Alla fine morì di una qualche malattia cronica. Qualcosa tipo la tubercolosi, da quello che ho capito. Secondo un tizio con cui ho parlato, dovette trasferirsi in zona Saint-Isidore verso la metà degli anni Sessanta. Forse lì aveva modo di mantenere la famiglia.»

«E le ragazze?» Il mio cuore martellava contro la cassa toracica.

«Obeline Landry ha sposato un tipo di nome David Bastarache negli anni Ottanta. Mi sto occupando di lui al momento. E seguendo la pista di Saint-Isidore.»

«Ed Evangeline?»

«Sarò franco. Finché chiedevo di Laurette e Obeline, ottenevo collaborazione. O, per lo meno, una parvenza di collaborazione. Se però domandavo della sorella maggiore, diventavano tutti degli iceberg.»

«Che cosa stai dicendo?»

«Ti dico solo che faccio questo mestiere da un po' di tempo e ho sviluppato un certo fiuto per le menzogne o i segreti. Quando ho chiesto notizie di questa ragazzina, ho ricevuto risposte troppo rapide e coerenti.»

Attesi.

«Nessuno sa un accidente di niente.»

«Nascondono qualcosa?» Strinsi così forte il telefono che vidi sollevarsi i tendini del polso.

«Ci scommetterei.»

Dissi a Hippo quel che avevo saputo da Trick Whalen. Il banco dei pegni a Miramichi. La scultura vudù. Il cimitero indiano.

«Vuoi che chiami questo tale, O'Driscoll?»

«No. Se puoi trovarmi il recapito, seguirò io la pista delle ossa, mentre tu continui le tue ricerche a Tracadie.»

«Resta lì.»

Hippo mi mise in attesa per dieci minuti buoni.

«Il banco dei pegni si chiama Oh-O! Un nome facile da ricordare.» Mi fornì un numero di telefono e un indirizzo sulla King George Highway.

Un fruscio di cellophane, poi: «Hai detto che avevi trovato qualcosa di strano nello scheletro della ragazzina».

«Sì.»

«E hai capito di cosa si tratta?»

«Non ancora.»

«Hai voglia di lavorare di sabato?»

L'82a divisione aerotrasportata non avrebbe potuto tenermi lontana da quelle ossa.

 

Il mattino dopo, alle otto e mezza ero al Wilfrid-Derome. Contrariamente alle previsioni, non pioveva affatto e il clima non si era rinfrescato: la colonnina di mercurio toccava già i 27°C.

Salii in ascensore, sola. Anche nell'atrio e nei corridoi dell'LSJML non incrociai nessuno. Ero contenta all'idea che mi avrebbero lasciata in pace.

Mi sbagliavo. Uno dei tanti errori di valutazione che avrei commesso quel giorno.

Innanzitutto, composi il numero di O'Driscoll. Nessuno rispose.

Delusa, mi dedicai allo scheletro della ragazza di Hippo. Prima di essere interrotta dal teschio di Iqaluit e dalla riesumazione del cane a Blaineville, avevo ripulito ciò che restava del tronco e delle ossa degli arti.

Andando direttamente al cranio, svuotai il grande foro occipitale e levai terra e sassolini alla base.

Alle nove e mezza, tentai di nuovo di parlare con O'Driscoll. Ancora niente.

Tornai a grattar via la terra. Meato acustico destro. Sinistro. Palato posteriore. Il laboratorio risuonava di quella immobilità che, negli enti governativi, è possibile sentire solo durante il fine settimana.

Alle dieci, posai lo specillo e chiamai Miramichi per la terza volta. Rispose una voce maschile.

«Oh-O! Pegni.»

«Jerry O'Driscoll?»

«In persona.»

Mi presentai, specificando la mia appartenenza all'LSJML. O'Driscoll non sentì, o forse non gli importava.

«Le interessano gli orologi antichi, mia giovane signora?» Inglese, con un pizzico di accento irlandese.

«Temo di no.»

«Mi sono appena arrivate due meraviglie. Le piacciono i gioielli?»

«Certo.»

«Ho giusto dei turchesi navajo che la lasceranno a bocca aperta.»

Preziosi navajo in un banco dei pegni del New Brunswick? Doveva esserci qualcosa sotto.

«Signor O'Driscoll, la chiamo a proposito dei resti umani che lei ha venduto a Trick e Archie Whalen diversi anni fa.»

Mi aspettavo un atteggiamento prudente, o un vuoto di memoria, ma O'Driscoll era educato, persino espansivo. E ricordava tutto come il computer di una società di credito.

«Primavera 2000. I ragazzi dissero che gli serviva per un progetto di educazione artistica al college. Dissero che stavano realizzando un qualche tipo di installazione in omaggio ai morti. Gliel'ho venduto per sessantacinque dollari.»

«Lei ha una memoria di ferro.»

«A dire il vero è stato il primo e ultimo scheletro che io abbia mai trattato. Era vecchio come il mondo: un sacco di ossa spezzate, il teschio schiacciato e incrostato di terra. Eppure l'idea di vendere anime morte non faceva per me. Poco importava che quel povero diavolo fosse cristiano, indiano o bantù. Per questo me lo ricordo.»

«Dove aveva preso lo scheletro?»

«C'era un tale, che veniva in genere ogni paio di mesi. Aveva fatto l'archeologo, diceva, prima della guerra. Ma non diceva quale guerra. Aveva sempre con sé un terrier, un cane rognoso. Lo chiamava Bisou, "Bacio". Io neanche morto avrei avvicinato le labbra a quella bestia. Il tizio passava il suo tempo a cercare oggetti da impegnare. Rovistava nei cassonetti. Aveva un metal detector con cui perlustrava la riva del fiume. Quel genere di cose. Una volta mi portò una spilla che era proprio bellina. L'ho venduta a una signora che vive su a Neguac. Per lo più quello che trovava era robaccia, però.»

«Lo scheletro?»

«Una volta mi disse che Bisou era morto. Non ne fui sorpreso, quel cane dimostrava cent'anni. Il vecchio squinternato sembrava proprio alla canna del gas. Disse che aveva trovato le ossa mentre andava a seppellire il cane nei boschi. Ero certo che mi sarebbero rimaste sul groppone, ma gli diedi cinquanta dollari. Non ci vidi nulla di male.»

«Le raccontò anche dove aveva sepolto il cane?»

«Su una qualche isola. Disse che c'era un vecchio cimitero indiano, là. Magari erano tutte balle. Succede continuamente: la gente pensa che una buona storia aumenti il valore di ciò che ha da offrire. Non è così. Una cosa vale quello che vale.»

«Sa il nome di quell'uomo?»

La risata di O'Driscoll ricordava il pop-corn che scoppia. «Diceva di chiamarsi Tom "Jones". Scommetterei le aiuole in fiore di mia zia Rosey che se l'era inventato.»

«Perché?»

«Il tizio era francese. Pronunciava il nome "Jones", ma lo compitava "Jouns".»

«Che fine ha fatto?»

«Da me ha smesso di venire circa tre anni fa. Quel vecchio scemo era debole e cieco da un occhio. Probabilmente è morto, a quest'ora.»

Terminata la telefonata, tornai alle ossa. C'era del vero nella storia di Tom Jouns sul cimitero indiano? La ragazza di Hippo poteva essere un'aborigena precolombiana?

Il cranio era rotto e deformato: non mi sarebbe stato di alcun aiuto. Guardai ciò che restava del volto. La spina nasale era pressoché inesistente, una caratteristica dei «non bianchi» e, benché piena zeppa di terra, l'apertura sembrava più ampia di quella tipicamente europea.

Ripresi a pulire pazientemente lo scheletro. Passarono ore. In laboratorio si udiva soltanto il ronzio del refrigeratore, che faceva a gara con quello delle lampade fluorescenti sul soffitto.

I bulbi oculari sono separati dal lobo frontale da un'opportuna lamina ossea dello spessore di un foglio di carta, che costituisce il pavimento della fossa cranica anteriore. Pulendo l'orbita destra, trovai brecce frastagliate su quell'osso. Proseguii.

Avevo svuotato l'orbita sinistra, quando qualcosa attirò la mia attenzione. Misi da parte lo specillo, inumidii un panno e passai la punta di un dito sulla sommità dell'orbita. Lo sporco venne via, rivelando un osso bucherellato, poroso nell'angolo superiore esterno della cavità.

Cribra orbitalia.

Questo era un indizio. O no? La cribra orbitalia ha un bel nome scientifico e si sa che colpisce soprattutto i bambini, ma l'eziologia è ancora incerta.

Come al solito, scorsi mentalmente le varie possibilità. Anemia da carenza di ferro? Insufficiente apporto di vitamina C? Infezione? Stress patogeno?

Tutte queste cose insieme? Nessuna? Solo una combinazione delle prime due?

Ero quanto mai perplessa.

I risultati del mio esame finora comprendevano: alterazioni delle ossa dei piedi, ingrossamento dei forami nutritizi in mani e piedi, distruzione della corticale di almeno un osso metacarpale e, ora, la cribra orbitalia.

Non mi restava che unire i puntini.

Un dato cominciava a emergere in modo evidente: la ragazza era malata. Ma di che cosa? Era stata la malattia a ucciderla? E perché aveva il volto schiacciato? Danneggiamento postmortem?

Detersi l'orbita sinistra con dell'acqua tiepida, poi presi una lente di ingrandimento.

Ed ebbi la seconda sorpresa della mattinata.

Uno sgorbio nero serpeggiava sul lato inferiore della cresta sopraorbitaria, appena all'interno del bordo superiore inspessito dell'orbita.

L'impronta di una radice? Un segno di penna?

Andai di corsa al microscopio e sistemai il cranio a faccia in su. Quando le orbite apparvero sullo schermo, aumentai l'ingrandimento.

La messa a fuoco rivelò minuscoli caratteri scritti a penna.

Ci vollero qualche minuto e svariate regolazioni, ma alla fine riuscii a decifrare l'iscrizione.

L'Île-aux-Becs-Scies.

La quiete dell'edificio vuoto mi avvolse.

Forse Jouns aveva contrassegnato lo scheletro con il nome dell'isola su cui l'aveva trovato? Gli archeologi lo fanno e lui aveva sostenuto di essere stato archeologo, in gioventù.

Mi precipitai fuori dal laboratorio, percorrendo il corridoio fino alla biblioteca dell'LSJML. Trovai un atlante e lo sfogliai in cerca di una cartina di Miramichi.

Fox Island. Portage. Sheldrake. Per quanto aguzzassi la vista in corrispondenza dei fiumi e della baia, non vidi traccia di un'Île-aux-Becs-Scies.

Hippo.

Tornai in laboratorio e composi il numero del suo cellulare. Non rispose.

Poco male, l'avrei chiamato più tardi. Di certo lui aveva la risposta.

Riportai il cranio sul piano di lavoro e cominciai a liberare l'apertura nasale dalla terra, con uno specillo lungo e appuntito.

Ed ecco la terza sorpresa del giorno.