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IN OGNI CASO, CHE… BIP…
SAPPIAMO VERAMENTE?
È solo nell’esperienza cosciente che ci sembra di muoverci in avanti nel tempo. Nella fisica dei quanti si può anche andare all’indietro.
STUART HAMEROFF1
La meccanica quantistica fa sì che l’immateriale fenomeno della libertà possa essere intessuto nella natura umana.
JEFFREY SATINOVER2
Ma era stato sempre Schrödinger a sostenere in maniera convincente che, poiché la funzione d’onda si ostina a rimanere spalmata nello spazio delle configurazioni (lo spazio astratto di tutte le possibili configurazioni di particelle) fino al momento preciso del collasso, essa resiste a tutti i tentativi di agganciarsi a un mondo che possiamo riconoscere come simile al nostro. Di fronte a questa intrattabilità, chiamata formalmente «problema della misura», molti luminari della fisica, a partire da Bohr e Heisenberg, compirono il passo radicale di negare del tutto l’esistenza di un mondo indipendente e, sorprendentemente, la fecero franca. In altri contesti, quelli non scientifici, la differenza tra chi è convinto dell’esistenza di una realtà indipendente e chi no è grosso modo correlata alla distinzione tra chi è sano di mente e chi dà i numeri.
REBECCA GOLDSTEIN3
Quando incontrò per la prima volta Desplechin, nel 1982, Djerzinski aveva appena ultimato la tesi di terzo ciclo all’Università di Orsay. Il che gli avrebbe consentito di prender parte ai magnifici esperimenti di Alain Aspect sulla non-separabilità del comportamento di due fotoni emessi in successione da un medesimo atomo di calcio. Era il ricercatore più giovane dello staff.
MICHEL HOUELLEBECQ4
Dove c’è fumo, c’è fumo.
JOHN WHEELER
Nella mia vita ho avuto una fase scacchistica. Non sono mai diventato così bravo nel gioco da trasformarlo in un’ossessione, ma l’avevo studiato, e avevo persino preso qualche lezione. Giocavo a soldi, e lo faccio ancora, a Washington Square, nel Greenwich Village di New York. La prima volta che incontrai Stanley Kubrick scoprii che anche lui, un po’ prima di me, era stato uno di quegli scacchisti di strada. Il risultato fu una sfida di 25 partite - vinta da lui - mentre stava girando 2001: Odissea nello spazio. Il mio resoconto, pubblicato sul «New Yorker», mi procurò un ingaggio da parte di «Playboy», che mi commissionò la cronaca della partita del 1972 tra Bobby Fischer e Boris Spasskij in Islanda. Vi sto raccontando tutto ciò per via di una mancata opportunità. Una volta, mentre ero a trovare i miei genitori a Rochester, nello Stato di New York, venni a sapere che era in programma un’esibizione del Grande Maestro internazionale Samuel Reshevsky. Reshevsky, che aveva dominato la scena scacchistica americana per diversi decenni, ed era uno dei miei idoli, avrebbe giocato contemporaneamente contro una quarantina di avversari, ciascuno dei quali pagava qualche dollaro per avere il privilegio. Mi iscrissi.
In uno spettacolo di questo genere le scacchiere vengono disposte sulla periferia, e il maestro le passa in rassegna girando all’interno. Reshevsky si fermava a ciascuna scacchiera apparentemente per qualche secondo, poi muoveva e passava all’avversario successivo. Questo dava il tempo di pensare alla prossima mossa e di studiare gli altri partecipanti. A poche scacchiere di distanza dalla mia notai un uomo dal viso singolarmente spigoloso. Non sapevo chi fosse, ma sicuramente non era di Rochester. In seguito, quando chiesi, mi fu risposto che si trattava di Marcel Duchamp, che già nel 1923 aveva abbandonato l’arte per gli scacchi, e nel 1925 arrivò a un passo dal vincere i campionati francesi. Aveva disegnato e intagliato personalmente nel legno quasi tutti i suoi pezzi, a parte i cavalli, realizzati da un artigiano locale. La moglie, non molto entusiasta, gli incollò i pezzi alla scacchiera. Il matrimonio non durò ancora per molto. Ma quale fu l’opportunità mancata di cui parlavo? Non sapevo che Duchamp aveva letto sia Einstein sia Poincaré sulla relatività, e che si discute molto dell’influenza che questo possa aver avuto su dipinti quali il Nudo che scende le scale. Avrei potuto chiederglielo.
Se non sembra esserci unanimità di opinioni riguardo all’influenza della relatività su Duchamp, non c’è dubbio che tale influenza ci fu su Lawrence Durrell. In un’intervista a «Die Zeit» Durrell dichiarò: «Le prime tre parti del mio Quartetto [di Alessandria] sviluppano le tre dimensioni dello spazio, ciascuna da un punto di vista o dimensione diversa, cosicché esse entrano in conflitto l’una con l’altra. La quarta infine aggiunge il tempo alle dimensioni spaziali. Come vede c’è un parallelo con la teoria della relatività».5
Si dice che in The Avignon Quintet abbia invece avuto un ruolo la meccanica quantistica. Io non lo vedo, ma forse mi è sfuggito qualcosa. Si dice anche che la meccanica quantistica abbia un ruolo nel romanzo L’arcobaleno della gravità, di Thomas Pynchon. Pynchon in effetti ha studiato fisica ingegneristica alla Cornell. Nell’Arcobaleno della gravità c’è vera scienza. Per esempio, uno dei personaggi, di nome Roger Mexico, è un esperto in statistica, e decide di applicarne la teoria alle esplosioni dei missili V2 lanciati su Londra dai tedeschi. Mexico divide Londra in quadrati e conta il numero di esplosioni avvenute in ogni quadrato. Scopre quindi che questi numeri seguono la cosiddetta distribuzione di Poisson: il punto di impatto è dunque casuale. Questo significa che, qualunque fosse il sistema di puntamento usato dai tedeschi per i loro missili, questo era abbastanza buono per dirigerli su Londra, ma non abbastanza per mirare su Buckingham Palace, per esempio - un’informazione molto utile. La cosa interessante è che ci fu realmente uno studioso di statistica inglese, di nome R.D. Clarke, che fece esattamente questo tipo di calcoli, e nel 1946 pubblicò il risultato in un articolo di una pagina. Pynchon deve averlo visto, perché Clarke e Mexico usano la stessa notazione matematica. Questa non è meccanica quantistica, ma è lo stesso affascinante. Ci sono due scrittori che invece usano davvero la meccanica quantistica nei loro romanzi: Rebecca Goldstein e Michel Houellebecq. Partiamo da Goldstein.
Nata nel 1950 in una famiglia di ebrei ortodossi, è cresciuta a White Plains, nello Stato di New York; si è quindi laureata al Barnard College, e ha conseguito un dottorato in filosofia a Princeton. Ha insegnato in varie università e ha vinto il premio MacArthur come riconoscimento per la sua scrittura. L’insegnamento le ha dato molte opportunità di studiare la vita accademica che, per la mia esperienza, è spesso governata da un costume che, con un parziale rovesciamento della ben nota massima di Lord Acton su potere e corruzione, si potrebbe sintetizzare con «L’assoluta mancanza di potere corrompe in modo assoluto». I cattedratici, che si disprezzano a vicenda, hanno solo il potere di rovinarsi la vita l’un l’altro il più possibile. Nel romanzo di Rebecca Goldstein Properties of Light, in cui la teoria dei quanti ha un ruolo essenziale, queste caratteristiche sono in pieno rigoglio.
La maggior parte della storia ruota attorno al dipartimento di Fisica di un’università prestigiosa degli Stati Uniti orientali. Princeton? Il capo del dipartimento è un uomo odioso di nome Dietrich Spencer; Samuel Mallach è invece uno dei fisici più anziani dell’istituto. Nella postfazione Goldstein spiega che il personaggio di Mallach è ispirato a David Bohm, che lei ha conosciuto. Ma molti dettagli sono stati cambiati. Mallach ha una bellissima figlia di nome Dana, mentre Bohm non aveva figli. La moglie di Mallach è un’alcolista; quella di Bohm, Sarah, non lo era. Il padre di Mallach vendeva mobili usati a Scranton, in Pennsylvania; quello di Bohm vendeva mobili usati a Wilkes-Barre. Qui c’è un’analogia: entrambi i padri, di Mallach e di Bohm, erano ebrei osservanti, ma né Mallach né Bohm lo erano. Molto più significativo è il fatto che entrambi abbiano scritto articoli su un’interpretazione deterministica a variabili nascoste della teoria dei quanti. Questa interpretazione ha causato l’ostracismo nei confronti di Mallach da parte dei colleghi, che ritengono il suo lavoro inutile, o peggio. Gli è stato affidato permanentemente l’insegnamento di un unico corso, destinato a non-fisici, chiamato Fisica per Poeti. Posso dire, sulla base della mia personale esperienza, che ben pochi poeti seguirebbero un corso del genere, potendo evitarlo. Mallach ha imparato ad amare la poesia, ma come insegnante è disastroso, e i suoi studenti lo disprezzano. Lui, a sua volta, disprezza - anzi odia - Spencer, e va in dipartimento soltanto quando deve far lezione. Ha completamente abbandonato la fisica e ricorda a stento il contenuto dei suoi stessi articoli.
In questo calderone viene tuffato Justin Childs, un giovane fisico teorico, estremamente brillante, che ha studiato meccanica quantistica al Paradise Tech, in California. Justin non ha problemi con gli aspetti formali della meccanica quantistica: è il suo significato a metterlo in difficoltà. A un certo punto gli capita sottomano l’articolo di Mallach. Scrive Goldstein:
Justin aveva letto l’articolo di Mallach con una specie di incredulità, perché vi aveva visto chiaramente la realizzazione di qualcosa di impossibile: un modello oggettivo della meccanica quantistica.
Mallach aveva formulato una versione a variabili nascoste della fisica quantistica che aveva fatto miracoli per il mondo materiale e lo aveva salvato dai mate-mistici, i cabalisti di Copenaghen che gesticolano e intonano le loro fumose giaculatorie, trasformando la materia in un triste fantasma di sé stessa, sospeso nel paradosso quantico del non-proprio-qui-né-proprio-lì, un caos nel quale adorano crogiolarsi. Il lavoro di Mallach, la meccanica mallachiana come l’avrebbe chiamata in seguito Justin (non senza obiezioni da parte dello stesso Mallach), era l’antidoto perfetto per rompere l’incantesimo malefico.6
Il passaggio mi ricorda la scoperta di Bohm da parte di Bell, avvenuta più o meno allo stesso punto della sua carriera. Anche Bell era rimasto deluso dai «cabalisti di Copenaghen» e aveva appreso che il grande von Neumann aveva «dimostrato» l’impossibilità di riprodurre la meccanica quantistica mediante una teoria a variabili nascoste. Ma poi nel 1952 erano arrivati gli articoli di Bohm. «Nel 1952 vidi l’impossibile diventare realtà: era negli articoli di David Bohm» scrive Bell. «Bohm mostrava esplicitamente come si potessero in effetti introdurre, nella meccanica ondulatoria non relativistica, parametri grazie ai quali la descrizione indeterministica si poteva trasformare in una descrizione deterministica. Ma la cosa più importante, secondo me, era che la soggettività della versione ortodossa, il riferimento necessario all’“osservatore”, si poteva eliminare».7
Come ho già detto, nel 1952 Bohm aveva lasciato gli Stati Uniti per il Brasile. Era indagato per via dei suoi trascorsi comunisti, e quindi Bell non avrebbe potuto consultarlo, se avesse voluto. Nel romanzo, invece, Mallach è in un ufficio accanto a quello di Justin Childs, che dunque non ha problemi a trovarlo. Mallach dapprima pensa che Justin sia uno studente: nessuno al dipartimento va mai a chiedergli un parere su alcunché. Quando si rende conto che Childs è un membro del personale docente, gli dice che preferirebbe incontrarlo a casa. Arrivati a casa di Mallach, questi conduce Childs nel suo studio, dove deve trovargli una sedia. Segue un monologo bizzarro in cui Mallach dice cose come: «Forse … ciò che impariamo dalla funzione d’onda non riguarda affatto il sistema, bensì il sistematore, proprio come le descrizioni dei sogni ci dicono qualcosa solo sul sognatore».8 E va avanti per un pezzo, fino a quando, rivolgendosi a Childs, gli dice: «Non capisco che cosa vuoi da me. Non arrivo a comprendere qual è il tuo scopo. Perché non vai a parlare con mia figlia? Ho una figlia, sai».9 E qui entra in scena la bella Dana.
Dana è attratta da Childs e lo seduce seduta stante. Mallach non sembra sorpreso, né interessato più di tanto, dalla comparsa di Childs la mattina dopo a colazione. La maggior parte del resto del libro è dedicata a questa intricata storia d’amore dal finale tragico. Una delle cose che lo tiene insieme è il fatto che i tre si uniscono in un progetto che si propone di colmare le lacune dell’articolo di Mallach. Ognuno di loro contribuisce con una diversa abilità: Mallach porta in dote le sue intuizioni originali; Childs la sua prodigiosa abilità matematica; Dana, che ha meno nozioni formali degli altri due, ha però dalla sua un formidabile istinto fisico.
Il lettore non è tenuto a conoscere la meccanica quantistica. Anzi, si trova forse meglio se non capisce le varie questioni e prende la teoria semplicemente come metafora. Per fortuna, o purtroppo, io non sono in questa situazione. Mentre leggevo quello che scrive Rebecca Goldstein sul progetto, continuavo a pensare a una frase pronunciata da Wolfgang Pauli in una situazione simile. Ve la ripropongo, facendo le debite proporzioni: «Ne so fin troppo» disse. «Sono un veterano dei quanti». Ecco una delle spiegazioni dell’autrice:
La meccanica mallachiana sembra, a prima vista, più inconciliabile con la relatività di altre formulazioni della meccanica quantistica, come hanno sottolineato i pochissimi fisici che si sono dati la pena di prenderla in considerazione. Ma questo è solo perché porta alla luce ciò che le altre formulazioni nascondono, cioè il fatto assolutamente sconvolgente, ma altrettanto assolutamente innegabile, che la natura è, come dicono i fisici, «non locale»: gli eventi possono avere influenze istantanee su altri eventi, anche molto distanti. Un modo immediato di vedere come la non-località - e dunque la meccanica quantistica - sia in disaccordo con la teoria della relatività di Einstein è ricordare che in relatività è fondamentale che nulla possa viaggiare più velocemente della luce, laddove queste propagazioni istantanee di influenza sembrano indicare velocità superluminali, o addirittura infinite. La dissonanza cognitiva può essere espressa in termini più sottili e tecnici che chiamano in causa le condizioni relativistiche dell’invarianza di Lorentz la quale, combinata con la non-località, permette anomalie inaccettabili come la «retrocausalità», ossia il futuro che influenza il passato.10
La prima cosa che mi ha colpito di questo notevole passaggio è l’affermazione che la relatività e la teoria dei quanti sono «in disaccordo» tra loro. Nemmeno Einstein ha mai sostenuto nulla del genere. Se cerco di interpretare l’espressione «in disaccordo», posso solo ipotizzare che si voglia dire che le due teorie non possono essere simultaneamente corrette. Se risultasse che le cose stanno in questi termini, sarebbe una delle scoperte più importanti della storia della fisica. Finora gli esperimenti hanno mostrato che entrambe le teorie sono corrette. Ma ancor più fondamentale è il fatto che l’autrice sembra convinta che la teoria di Bohm sia in disaccordo con la relatività perché le «influenze» viaggiano a velocità superluminale. Bohm, e gli altri fisici che lavorano su questo, insistono nel ribadire che in questa teoria non c’è nulla che trasporti informazione a velocità maggiori di quella della luce. Se sia possibile formulare una versione relativistica della teoria è ancora materia di indagine. Nel passaggio citato sopra si dice anche che in meccanica quantistica «gli eventi possono avere influenze istantanee su altri eventi, anche molto distanti». Che cos’è un «evento», e che cos’è un’«influenza»? A Bell piaceva molto questo piccolo esempio. Alla morte della regina Elisabetta, il principe Carlo diventerà re istantaneamente. Questo è certamente un «evento» che ha un’«influenza istantanea» su un altro evento, forse anche molto distante. Nessuno si sognerebbe di dire che c’è qualcosa di strano in questo, o che è violata la teoria della relatività. Se il principe Carlo dovesse venire a sapere istantaneamente della morte della madre, sarebbe un altro discorso. Penso si possa sostenere che la situazione quantistica è qualcosa di simile. Le probabilità cambiano istantaneamente, ma non possiamo comunicarlo con segnali che viaggiano più velocemente della luce.
Torniamo all’esperimento di Stern-Gerlach. Finché lo stato di singoletto di spin dei due elettroni rimane imperturbato, gli spin rimangono non separabili, e questo si riflette nella correlazione tra i due spin. Indipendentemente dall’orientazione del suo magnete, ciascun osservatore troverà una distribuzione casuale di spin all’insù e all’ingiù. Fino a quando i due osservatori non confrontano gli appunti, non hanno prova della correlazione: quando lo fanno, vedono che la correlazione è cambiata quando uno dei due magneti è stato ruotato, anche mentre gli elettroni erano in volo. Non c’è alcuna contraddizione con la relatività, né con altro a parte il senso comune. Data la nostra esperienza con la maggior parte del resto delle cose, è naturale pretendere una «spiegazione» per questo comportamento bizzarro. È in queste spiegazioni che comincia il problema - che si comincia a introdurre la «propagazione istantanea delle influenze». Se siamo disposti ad accettare la previsione della meccanica quantistica senza cercare una «spiegazione», i problemi non sorgono.
La meccanica bohm-mallachiana propone una spiegazione, ma a un prezzo: ci sono influenze istantanee. Ma queste «influenze» violano la relatività? Su questo punto Bohm è categorico. Nel secondo dei suoi due articoli del 1952 scrive: «Il motivo per cui nella nostra interpretazione non sorge alcuna contraddizione con la relatività, nonostante la trasmissione istantanea di impulso tra le particelle, è che in quel modo non è possibile trasportare alcun segnale».11 Non ci spiega che cosa sia un «segnale», né ci dice se ci siano problemi con la causalità. Naturalmente ora sappiamo, grazie a Bell, che queste teorie a variabili nascoste, se devono produrre risultati che concordano con la meccanica quantistica, devono essere «non locali». Nella discussione della sua diseguaglianza, Bell mette ben in chiaro che cosa intende con non locale. C’è una variabile nascosta che determina quanto accade in corrispondenza di ciascun magnete, ma il suo valore da una delle due parti non dipende in alcun modo dall’altro. Questo risultato di Bell rende molto più difficile il compito, qualunque esso fosse, dei tre personaggi del romanzo di Rebecca Goldstein. In realtà, dal romanzo non sono riuscito a capire che cosa stiano cercando di fare. Ma sono felice di annunciare che, qualunque cosa fosse, alla fine va in porto, e Dana invia un articolo con Childs come primo autore. Alla fine del romanzo sta aspettando la relazione dei revisori.
Con Houellebecq è diverso. Non è possibile immaginare il romanzo di Goldstein senza la meccanica quantistica, cosa che invece è perfettamente possibile nel caso dei romanzi di Houellebecq. Quest’ultimo introduce la teoria dei quanti perché gli interessa. Ma da dove viene questo interesse scientifico? Michel Thomas, vero nome di Michel Houellebecq, nacque il 26 febbraio 1956 nell’isola di La Réunion. Sua madre, Janine Ceccaldi Thomas, era medico, ed era uno spirito alquanto libero. Sposò René Thomas nel 1953, ma il matrimonio finì quando lei ebbe una figlia da un altro uomo, con cui aveva una storia. Michel fu mandato a vivere dai nonni materni, ma nel 1961 il padre lo riportò ad abitare con la nonna paterna, il cui cognome da ragazza era Houellebecq. Michel adottò questo cognome come pseudonimo all’inizio della sua carriera letteraria, cambiando anche la data di nascita al 1958.
Il giovane Michel era un bambino precoce - sempre primo della classe. Era quindi naturalmente destinato a una delle Grandes Écoles. Scelse la biologia, il che non lo esentò da due anni di preparazione per gli esami di ammissione. Questo studio preparatorio, particolarmente intenso, comprendeva anche fisica e, soprattutto, matematica. Alla fine Michel optò per una delle meno prestigiose tra le Écoles: l’Institut National Agronomique, un istituto agrario, e si specializzò in ecologia. Si laureò nel 1978 e nei successivi tre anni, pur avendo mandato il suo curriculum a destra e a manca innumerevoli volte, non riuscì a trovare lavoro. Si iscrisse quindi a una scuola di cinematografia, dove rimase per due anni. Cominciò poi una carriera come analista di sistemi informatici trovando infine lavoro all’Assemblée Nationale. Nel frattempo scriveva poesie e un primo romanzo (in realtà un racconto) intitolato Estensione del dominio della lotta (pubblicato nel 1994) che ha come protagonista un informatico e contiene già tracce del sesso esplicito che comparirà in tutti i romanzi successivi, nonché i primi segni di una visione caustica della natura umana. Era in parte ispirato ai suoi compagni di lavoro, i quali non si erano resi conto, finché non gli fu fatto notare, che Michel Houellebecq era in realtà il loro ex collega Michel Thomas. Fu il secondo romanzo, Le particelle elementari, pubblicato nel 1998, a convincere i nomi che contano del mondo letterario francese delle potenzialità esplosive dell’autore.
Le particelle elementari parla di due fratellastri, Michel Djerzinski e Bruno Ceccaldi. Houellebecq dà alla loro madre il nome della sua, che l’aveva abbandonato: Janine Ceccaldi. Michel Djerzinski comincia la sua carriera scientifica come fisico. Houellebecq avrebbe potuto prendere un settore qualsiasi della fisica, dato che Michel ben presto passa a occuparsi di biologia, ma fa invece una scelta molto interessante. Djerzinski infatti è il più giovane del gruppo di Alain Aspect a Orsay, alle prese con la verifica sperimentale delle disuguaglianze di Bell. Houellebecq che, stando a quanto mi ha confidato lo stesso Aspect, non lo ha mai consultato, spiega nondimeno in maniera eccellente il significato degli esperimenti:
Precisi, rigorosi, perfettamente documentati, gli esperimenti di Aspect erano destinati ad avere un impatto considerevole sulla comunità scientifica: per la prima volta, per opinione comune, ci si trovava davanti a una confutazione completa delle obiezioni opposte nel 1935 da Einstein, Podolsky e Rosen al formalismo quantistico. Le disuguaglianze di Bell derivate dalle ipotesi di Einstein venivano palesemente violate, i risultati si accordavano perfettamente con le previsioni della teoria dei quanti. Il che lasciava solo due ipotesi. O le proprietà nascoste determinanti il comportamento delle particelle erano non locali, cioè le particelle potevano avere l’una sull’altra un’influenza istantanea a una distanza arbitraria; oppure bisognava rinunciare al concetto di particella elementare in possesso, in assenza di qualsivoglia osservazione, di proprietà intrinseche: sicché ci si ritrovava di fronte a un profondo vuoto ontologico - salvo adottare un positivismo radicale e accontentarsi di sviluppare il formalismo matematico predittivo delle osservabili rinunciando definitivamente all’idea della realtà sottostante. Naturalmente, a conciliare la maggior parte dei ricercatori, sarebbe stata quest’ultima alternativa.12
Per esperienza diretta posso assicurare che «la maggior parte dei ricercatori» non si pone neppure il problema.
Dall’ultimo libro di Houellebecq, La possibilità di un’isola, pubblicato nel 2005, è chiaro che il suo interesse per la fisica dei quanti non è diminuito. Ai fini del racconto in sé, che è un genere di fantascienza, la meccanica quantistica è ancora più irrilevante. Houellebecq, semplicemente, inserisce le sue riflessioni sull’argomento quando più gli aggrada. A catturare la sua fantasia è stato uno sviluppo della questione dovuto a Murray Gell-Mann e al suo ex studente James Hartle. Quest’ultimo collabora di frequente con Stephen Hawking. Gell-Mann, che nel 1969 vinse il Nobel per la fisica per i suoi studi sulle particelle elementari, ha pubblicato un saggio divulgativo sulla fisica dei quanti, Il quark e il giaguaro. È chiaro, dal suo romanzo, che Houellebecq l’ha letto. Gell-Mann e Hartle, miei amici da lunga data, mi hanno detto di essere rimasti sorpresi nel vedere il loro lavoro discusso dallo scrittore francese, e di non aver mai avuto contatti con lui.
Lo sviluppo che condusse al lavoro di Gell-Mann e Hartle iniziò con un articolo di Dirac, pubblicato nel 1933, che giacque abbastanza dimenticato fino a che Feynman non ne riprese le idee nella sua tesi, di cui era relatore John Wheeler. La tesi fu completata nel 1942, dopodiché Feynman andò a Los Alamos e non pubblicò più nulla fino al 1946. L’idea di base è questa. Supponiamo che a un certo istante t, entro i limiti del principio di indeterminazione, siano state misurate grandezze come la posizione, la quantità di moto e forse anche lo spin di una data particella. La particella quindi evolve nel tempo ed è soggetta a interazioni e forze. A un istante successivo si misurano di nuovo le stesse quantità. Se fossimo in fisica classica, potremmo predire con certezza i risultati di queste misure, ma in meccanica quantistica tutto quel che possiamo fare è predire la probabilità dei vari valori. Addirittura, secondo l’interpretazione usuale della teoria, nessuna di queste grandezze assume un valore fino a quando non si effettua la misura. In fisica classica la particella traccerebbe una traiettoria, e noi potremmo essere certi che l’orbita c’è anche se non scegliessimo di osservarla in ogni punto. Nell’interpretazione standard della meccanica quantistica non abbiamo alcun diritto di fare ipotesi sulla traiettoria in assenza di misure. Ciò significa che la particella potrebbe aver seguito diversi possibili «cammini» o «storie», nell’intervallo compreso tra le due osservazioni. Nel calcolare le probabilità dobbiamo sommare tutte queste storie. Poiché siamo in meccanica quantistica, queste storie possono interferire le une con le altre come fanno le onde. Ma a causa delle interazioni le storie possono andare incontro a «decoerenza» e, nelle circostanze opportune, comportarsi almeno approssimativamente come traiettorie classiche. È così, secondo questo modo di vedere, che il mondo classico emerge da quello quantistico.
Alcuni sistemi capaci di adattamento - ad esempio noi - sono in grado di osservare. Gell-Mann e Hartle li chiamano igus, che sta per «sistemi che raccolgono e utilizzano informazioni». Evolvendo nel tempo, un tale sistema si trova di fronte a diverse storie possibili, ma ne segue solo una, e scarta le altre. In Il quark e il giaguaro Gell-Mann scrive: «In questo contesto un’osservazione è una sorta di potatura dell’albero delle storie che si ramificano. In una particolare ramificazione si conserva uno solo dei rami (più precisamente, su ogni ramo si conserva solo quel ramo!). I rami potati vengono gettati via, assieme a tutte le parti dell’albero che si dipartono da tali rami».13 Le funzioni d’onda non collassano. La parte scartata appartiene a un’altra storia.
Tutto questo sembra aver fatto presa sulla fantasia poetica di Houellebecq, che nel romanzo La possibilità di un ’isola scrive: «Per un igus osservatore, sia esso naturale o artificiale, un solo ramo dell’universo può essere dotato di un’esistenza reale. Se tale conclusione non esclude affatto la possibilità di altri rami dell’universo, ne vieta ogni accesso a un dato osservatore. Per riprendere la formula, abbastanza misteriosa ma sintetica, di Gell-Mann, “su ogni ramo, solo quel ramo è preservato”. La presenza di una comunità di osservatori ridotta anche a due soli igus costituisce la dimostrazione dell’esistenza di una realtà».14
Se Houellebecq trova la poesia nella meccanica quantistica, altri vi hanno invece trovato la spiritualità. Qui è opportuna una precisazione: Schrödinger studiava religioni orientali e pubblicò scritti sull’argomento, ma ecco che cosa scrisse nella premessa al suo libro La mia visione del mondo:
C’è un rimprovero che certo non mancherà d’essermi rivolto; in nessun luogo faccio parola di acausalità, meccanica ondulatoria, relazione di indeterminazione, complementarità, universo sferico in espansione, creazione continua e via di questo passo. Perché allora, si dirà, costui non parla di ciò che padroneggia meglio piuttosto che rubare il mestiere ai filosofi di professione? Ne sutor supra crepidam [il ciabattino non giudichi più in là dei sandali]. A questa domanda rispondo volentieri: perché tutte queste nozioni hanno in realtà molto meno a che fare con un’immagine filosofica del mondo di quanto oggi si sia propensi a credere.15
Concludo quindi il capitolo, e il libro, parlando di chi pensa che «queste cose» siano totalmente legate a una visione filosofica del mondo.
A quanto ne so, la moda attuale iniziò quando gli studi di Bell acquistarono grande notorietà. Per esempio, nel 1975 il fisico Henry Stapp scrisse che «il teorema di Bell è la più profonda scoperta della scienza».16 Ci si sarebbe aspettati che Stapp mettesse un po’ più in alto nella classifica la scoperta della meccanica quantistica stessa. Ma la sua valutazione è ampiamente citata da chi usa i risultati di Bell come argomentazione per varie credenze mistiche. Tra i pionieri della categoria figura Gary Zukav, che nel 1979 pubblicò un saggio intitolato La danza dei maestri Wu Li.17 Nelle prime pagine Zukav, che non è un fisico, ci informa di avere avuto l’ispirazione per il libro assistendo a una conferenza all’Esalen Institute a Big Sur, in California. L’istituto è più noto per insegnare il misticismo new age che la fisica, ma se le due cose si possono mescolare, allora non ha senso distinguere. Ispirato da questa visita, Zukav cominciò a parlare con diversi fisici, tra cui il summenzionato Henry Stapp. Il risultato è una presentazione divulgativa di cose come la fisica delle particelle, così com’erano a metà degli anni Settanta. Il problema è che sono passati più di trent’anni, che in questo campo equivalgono a un millennio. All’incirca ogni dieci anni si forma una nuova generazione di fisici. Questo significa che la fisica oggi la fanno gli studenti degli studenti dei fisici intervistati da Zukav. Io ho l’edizione del 2001 del suo libro, ma l’opera più recente citata dall’autore è del 1977! Leggere il libro è come entrare in una macchina del tempo. È proprio questo il rischio che si corre nel legare a una scienza contemporanea convinzioni spirituali di qualche tipo. E come costruire una casa su un blocco di ghiaccio. Il Dalai Lama, il cui interesse scientifico è molto contemporaneo, ha detto in molte occasioni - l’ho sentito di persona - che se ci dovesse essere un conflitto tra un dogma buddhista e un fatto scientificamente dimostrato, si deve modificare il dogma. Come si deve interpretare un’affermazione come la seguente (molto tipica) di Zukav?
Le particelle subatomiche prendono eternamente parte a questa danza di annientamento e creazione. In effetti, le particelle subatomiche sono l’incessante danza di annientamento e creazione. Questa scoperta del ventesimo secolo, con tutte le sue implicazioni psichedeliche, non è un concetto nuovo. In effetti, è molto simile al modo in cui parecchie popolazioni della terra, fra cui gli indù e i buddhisti, vedono la realtà.
La mitologia indù è praticamente una proiezione su larga scala nel regno psicologico delle scoperte scientifiche a livello microscopico. Divinità indù come Shiva e Visnù danzano continuamente la creazione e la distruzione degli universi, mentre l’immagine buddhista della ruota della vita simboleggia il processo senza fine di nascita, morte e rinascita che è parte del mondo delle forme, che è vuoto, che è forma.18
Per frasi del tipo «che è parte del mondo delle forme, che è vuoto, che è forma» ho un test. A ogni proposizione sostituisco la sua negazione: «che non è parte del mondo delle forme, che non è vuoto, che non è forma». Se entrambe le versioni mi paiono ugualmente prive di senso, passo oltre. Ma non riesco a trovare molto senso nemmeno nel libro di Fritjof Capra Il Tao della fisica, pubblicato nel 1975.
Capra ha un dottorato in fisica. La teoria delle particelle elementari su cui ha lavorato trent’anni fa o più era, all’epoca, in gran voga. Ora non interessa più molto a nessuno, anche se leggendo il libro questo non si capisce. C’è da dire però che almeno lui si è mantenuto un po’ più aggiornato, e l’ultima edizione del libro (1999) lo dimostra. In una postfazione dell’edizione più recente, Capra si dice contento che nessun fisico abbia trovato alcunché di sbagliato nella sua presentazione. Pauli metteva questo tipo di cose in una categoria a parte, quella di ciò che non è «neppure sbagliato» - privo di quel minimo di coerenza necessario per stabilirne la veridicità o la falsità. Ecco un passaggio piuttosto tipico di Capra:
La concezione degli oggetti e dei fenomeni fisici come manifestazioni transienti di un’entità fondamentale sottostante è un elemento di base non solo della teoria quantistica dei campi, ma anche della visione orientale del mondo. Come Einstein, i mistici orientali considerano questa realtà sottostante come l’unica realtà: tutte le sue manifestazioni fenomeniche sono viste come transitorie e illusorie. La realtà del mistico orientale non si può identificare con il campo quantistico del fisico, perché è vista come l’essenza di tutti i fenomeni di questo mondo, e dunque va al di là di ogni concetto e idea. Il campo quantistico, dall’altro lato, è un concetto ben definito che spiega solo alcuni dei fenomeni fisici. Non di meno, l’intuizione alla base dell’interpretazione del mondo subatomico da parte del fisico, in termini di campo quantistico, ha forti analogie con quella del mistico orientale, che interpreta la propria esperienza del mondo in termini di una realtà sottostante. Dopo la nascita del concetto di campo quantistico, i fisici hanno tentato di unificare i vari campi in un unico campo fondamentale che incorpori tutti i fenomeni fisici. Einstein, in particolare, trascorse gli ultimi anni di vita cercando un campo unificato di questo tipo. Il Brahman degli induisti, come il Dharmakaya dei buddhisti e il Tao dei taoisti possono essere forse visti come il campo ultimo da cui sgorgano non solo i fenomeni studiati dalla fisica, ma anche tutti gli altri.16
Il mio preferito è il «forse» dell’ultima frase. Il libro di Capra ha avuto molti ammiratori. Io non sono uno di quelli.
Il non plus ultra di questa moda è Ma che… hip… sappiamo veramente?, un «docufilm» che mette insieme interviste, animazioni e scene recitate da attori. Quando vidi per la prima volta il film, e in particolare le interviste, ebbi una sensazione di déjà vu. Negli anni Sessanta passavo molto tempo al Café Figaro, un caffè-ristorante del Greenwich Village. Si mangiava bene a prezzi ragionevoli, e i proprietari permettevano che si giocasse a scacchi. A qualunque tavolo ci si sedesse al Figaro si trovava gente che aveva lo stesso aspetto e lo stesso modo di parlare di quelli del film. Mi chiedo se alcuni di quelli non fossero proprio le stesse persone. A qualunque tavolo - compreso, ne sono sicuro, il mio - si propugnavano le più amabili sciocchezze con grande sincerità, anche se non ricordo che nessuno abbia mai usato la parola «quantistico». La maggior parte di noi è cresciuta ed è cambiata; non le persone che appaiono nel film. Ecco un’altra perla da unire a quelle citate all’inizio del capitolo.
Riconoscere l’io quantico è riconoscere il posto dove raramente si è scelto di riconoscere la mente … Quando si verifica questo cambio di prospettiva, diciamo che qualcuno è stato illuminato.
AMIT GOSWAMI20
E, per finire:
Viviamo in un mondo in cui ciò che vediamo non è che la punta dell’iceberg. L’immensa punta dell’iceberg quantistico.
JOHN HAGELIN21
Be’, forse.