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UNA MISURA

 

 

 

Vogliamo misurare una temperatura. Se vogliamo, possiamo portare avanti i calcoli numerici fino a quando otteniamo la temperatura dell’ambiente circostante il bulbo del mercurio, e dire: «Questa temperatura viene misurata dal termometro». Ma possiamo andare oltre con i calcoli e, dalle proprietà del mercurio, che si possono spiegare in termini di teoria cinetica e molecolare, possiamo calcolare quanto si riscalda, quale sarà la sua dilatazione termica e di conseguenza quale sarà l’altezza della colonnina, e quindi dire: «Questa lunghezza viene vista dall’osservatore». Andando ancora oltre, e prendendo in considerazione la sorgente di luce, possiamo calcolare la riflessione dei quanti di luce sulla colonna di mercurio opaca, il cammino dei quanti rimanenti verso l’occhio dell’osservatore, la loro rifrazione nel cristallino e la formazione dell’immagine sulla retina; a quel punto diremmo: «Questa immagine viene registrata dalla retina dell’osservatore». E se le nostre conoscenze di fisiologia fossero più precise di quanto non siano oggi, potremmo andare ancora oltre e seguire le reazioni chimiche che danno luogo all’immagine sulla retina e al segnale nel tratto di nervo ottico e infine nel cervello, per dire infine: «Questi cambiamenti chimici nelle cellule cerebrali vengono percepiti dall’osservatore». Ma in ogni caso, indipendentemente da dove arriviamo con i calcoli - al bulbo di mercurio, alla scala del termometro, alla retina o al cervello -, a un certo punto dobbiamo dire: «… e questo viene percepito dall’osservatore». Ossia, dobbiamo sempre dividere il mondo in due parti, di cui una è il sistema osservato, l’altra l’osservatore. Nella prima possiamo seguire tutti i processi fisici (almeno in teoria) con precisione arbitraria. Nella seconda questo non ha senso. Il confine tra le due è per molti versi arbitrario. In particolare abbiamo visto, nei quattro esempi riportati sopra, che l’osservatore non si identifica necessariamente con il corpo della persona che compie l’osservazione: in un esempio vi abbiamo incluso perfino il termometro, in un altro abbiamo addirittura escluso gli occhi e il nervo ottico. La possibilità di spingere questo confine arbitrariamente in profondità all’interno del corpo della persona fisica che osserva è alla base del parallelismo psichico-fisico, ma questo non cambia il fatto che in ciascun metodo di descrizione si deve tracciare un confine da qualche parte, se non si vuole che il metodo sia vacuo, ossia se si vuole che sia possibile il confronto con l’esperimento. In effetti l’esperienza fa solo affermazioni del tipo «un osservatore ha compiuto una data osservazione (soggettiva)», e mai del tipo «una grandezza fisica ha un certo valore».

JOHN VON NEUMANN1

 

L’idea che la coscienza faccia collassare la funzione d’onda fu proposta originariamente da John von Neumann negli anni Trenta. Perché ci abbiamo messo tanto tempo per prenderla sul serio?

AMIT GOSWAMI2

 

 

 

Quando, nella primavera del 1948, arrivai alla fine del corso di Philipp Frank sui fondamenti della fisica moderna, mi era ormai chiara una cosa: se volevo davvero capirci qualcosa, avrei dovuto imparare un po’ di matematica. Il professor Frank alla fine delle lezioni formali faceva (come ho già detto) «una piccola pausa», seguita da una sessione di domande durante la quale aveva la possibilità di approfondire alcune cose «per quelli che sanno un po’ di matematica». Ricordo per esempio che risolse l’equazione differenziale elementare che descrive i decadimenti delle particelle. Io non avevo idea di che cosa avesse intenzione di fare, né di come quel che faceva conducesse alla soluzione esponenziale. Non avevo nemmeno idea di che cosa volevo fare io, a parte imparare «un po’ di matematica». Come avrei utilizzato quelle conoscenze in futuro, mi era totalmente oscuro. Alcuni miei amici stavano seguendo il corso introduttivo di analisi; uno di loro mi fece anche vedere i suoi compiti per casa. L’assistente che li aveva corretti aveva fatto delle osservazioni molto spiritose; scoprii poi che si trattava di Tom Lehrer, in seguito divenuto uno dei migliori cantautori satirici del Novecento.

I miei amici parlavano di «infinitesimi», un elemento essenziale dell’analisi, come se si trattasse di concetti al limite dell’umana comprensione. Capirli, dicevano, sfiorava l’impossibile. Questo mi preoccupò; mi recai dunque dal tutor delle matricole per chiedergli di dare un’occhiata alla valutazione delle mie attitudini matematiche nel test di ammissione alla Harvard. Lo fece, e mi disse che secondo lui non avrei avuto problemi a seguire analisi. Nell’autunno del secondo anno mi iscrissi puntualmente al corso, che mi piacque nonostante gli infinitesimi. Quello che non mi piaceva era il corso di fisica del primo anno, che io seguii al secondo. Non avevo affatto deciso di laurearmi in fisica, stavo solo sondando il terreno. Trovai il corso - che trattava gli argomenti di base: carrucole, leve, piani inclinati, ecc. - estremamente noioso. Mi resi conto che quello del professor Frank era il dessert, mentre io ero alle prese con l’antipasto. A peggiorare le cose, c’erano i corsi di laboratorio, che detestavo. Negli anni ho sempre detto a tutti che avevo difficoltà in laboratorio per via della miopia: non riuscivo a leggere il regolo calcolatore. La verità è che non avevo alcuna predisposizione per le cose pratiche. Mi andava sempre tutto storto. L’intera esperienza mi ha lasciato un grande rispetto per i fisici sperimentali - anzi per gli sperimentali di ogni genere. Ma poi non scelsi più altri corsi di fisica per non laureati.

Seguivo invece corsi di matematica, sia durante l’anno accademico sia durante l’estate. Quella diventò la mia materia di specializzazione, e come tutor mi fu assegnato un matematico - George Mackey, recentemente scomparso. Era un insegnante straordinario, che all’epoca conduceva una sorta di vita monastica dedicata alla sua disciplina. Fra le altre cose, stava riformulando le basi matematiche della meccanica quantistica - un von Neumann in versione più moderna. Da Mackey imparai qual era il tipo di matematica usata in fisica quantistica, e quella fu la direzione che intrapresi. Il dipartimento di Matematica della Harvard University tendeva a scoraggiare l’iscrizione ai corsi di dottorato, ritenendo che per gli studenti fosse una buona idea, una volta laureati, fare esperienza in altre sedi. Perché la domanda venisse presa in considerazione ci voleva come minimo una laurea magna cum laude. Io ormai mi ero molto affezionato alla vita a Cambridge e, dato che avevo i requisiti richiesti, feci domanda e fui accettato.

Una delle prime cose che feci fu di iscrivermi al corso di meccanica quantistica di Julian Schwinger, la star della fisica teorica di Harvard. Schwinger era uno dei creatori dell’elettrodinamica quantistica, per cui ottenne il premio Nobel nel 1965 assieme a Richard Feynman e Sin-Itiro Tomonaga. Le sue lezioni erano una sorta di rappresentazione teatrale. Parlava senza interruzione e senza appunti, e non era permesso fare domande. Il primo semestre fu in gran parte dedicato alla spiegazione della necessità della teoria dei quanti e a cose come il principio di indeterminazione. Non ci fu alcuna discussione dell’articolo di Einstein, Podolsky e Rosen, e quando - più o meno in quel periodo - uscirono gli articoli di Bohm, udii Schwinger dire che li riteneva inutili. Dopo questa introduzione, Schwinger partì a spron battuto con il formalismo da lui stesso messo a punto, lasciando la maggior parte della classe, me compreso, piuttosto in alto mare. Prendemmo l’abitudine di recarci all’MIT - dove Victor Weisskopf teneva lezioni molto più alla buona - per colmare le lacune. Dopo due anni ricevetti il diploma di master, e arrivò il tempo di pensare seriamente al futuro.

Avevo ormai fatto la conoscenza di un certo numero di matematici, compresi i miei compagni di corso. Mi stava diventando sempre più chiaro che non avevo le capacità per fare della matematica a un livello che fosse per me gratificante. Per chi non ha mai avuto a che fare con queste discipline creative, è difficile da spiegare. Apparentemente, il mio curriculum era una garanzia sufficiente. Ma io mi rendevo conto che il mio modo di capire le cose era diverso da quello degli studenti realmente dotati. Io ero in grado di seguire le dimostrazioni, ma per loro la dimostrazione era quasi una faccenda secondaria, dato che la verità del teorema era evidente in sé stessa. Mentre mi rodevo nel mio dubbio esistenziale, accadde qualcosa che risolse la faccenda. Garrett Birkhoff, capo del dipartimento di Matematica, mi convocò per una chiacchierata. Aveva notato che avevo seguito corsi di meccanica classica, di metodi matematici per la fisica, e le lezioni di meccanica quantistica di Schwinger. Gli sembrava che mi interessasse più la fisica che la matematica: dovevo scegliere, mi disse. Decisi che avrei provato a passare alla fisica.

Armato di libretto, andai dal direttore del dipartimento di Fisica e chiesi di fare il passaggio. Questi, dopo aver dato un’occhiata, arrivò a una conclusione esattamente opposta rispetto a quella di Birkhoff - cioè, che avevo frequentato pochi corsi di fisica. A parte i corsi del primo anno e quelli di dottorato, non ne avevo infatti seguiti altri. Dato però che avevo ottimi voti, fui accettato, ma a due condizioni: avrei dovuto passare l’estate allo Harvard Cyclotron Laboratory, per avere esperienza diretta della fisica sperimentale, e sostenere l’anno seguente un esame orale di fisica generale. Le accettai entrambe.

Il primo ciclotrone della Harvard fu ultimato nel 1938. Quando il progetto per la bomba atomica si spostò a Los Alamos, il ciclotrone fu venduto al governo federale per un dollaro, con la promessa che un nuovo ciclotrone lo avrebbe rimpiazzato a guerra finita. Le cose andarono proprio così, e con l’aiuto della Marina il nuovo ciclotrone entrò in funzione nel 1949. Giudicato col metro moderno, era quasi un giocattolo, abbastanza semplice da poter essere manovrato da specializzandi e professori. A nessun fisico comune sarebbe permesso anche solo di avvicinarsi alla sala di controllo di uno dei grandi acceleratori moderni: sarebbe come invitare un assistente di volo nella cabina di pilotaggio e affidargli la guida dell’aereo. Il mio legame con il ciclotrone era un nuovo professore di nome Walter Selove, il quale stava conducendo un esperimento di fisica nucleare; il mio compito consisteva nell’aiutarlo. Ma quel che feci in realtà non aveva nulla a che vedere con la fisica. Impilavo mattoni di piombo perché facessero da schermo, e sistemavo diversi bersagli da bombardare con i protoni del fascio. Non avevo idea di che cosa volesse dimostrare l’esperimento. Per riassumere, quell’estate mi divertii molto, ma non imparai nulla.

L’autunno successivo studiai per l’esame incombente e, per quanto possa sembrare strano, iniziai a lavorare su quella che sarebbe diventata la mia tesi di dottorato. Potei farlo perché un altro giovane docente, Abraham Klein, era impegnato in un progetto che offriva spunti interessanti per una tesi. Non occorreva una conoscenza molto approfondita della fisica, quanto piuttosto la pazienza di portare avanti calcoli involuti. Penso di essere stato il primo dottorando di Klein. Sia lui sia Walter Selove avrebbero fatto una brillante carriera all’Università della Pennsylvania. Ma c’era l’esame orale. La mia prova fu decisamente strana. Ricordo una domanda in cui mi fu chiesto di dimostrare perché un certo ipotetico decadimento di una particella non poteva avvenire. Io diedi una spiegazione oscura tirando in ballo una cosa chiamata «coniugazione di carica», mentre la dimostrazione che volevano loro riguardava semplicemente la conservazione di energia e impulso - una cosa a cui qualunque vero fisico avrebbe pensato immediatamente. Non fui propriamente respinto, ma non passai neppure l’esame. Avrebbero avuto tutto il diritto di chiedermi di ripeterlo; invece, mi chiesero di seguire un corso di fisica sperimentale moderna.

Il corso era tenuto da Robert Pound, fisico sperimentale di rilievo e persona molto piacevole. Forse gli era arrivata qualche voce su di me. Mi trattò molto bene; per esempio, assegnandomi come compagno di laboratorio Paul Condon. Questi era figlio del noto fisico Edward Condon, e quindi suppongo avesse la fisica nei geni; anche suo fratello Joe era fisico. Io e Paul stabilimmo ben presto un amichevole modus operandi. Io avevo il permesso di fare commenti, ma mi era proibito toccare qualunque apparecchiatura. Potevo anche sbirciare nel suo diario di laboratorio, che era un modello di perfezione. Pound di tanto in tanto veniva al nostro bancone sperimentale per incoraggiarci. Uno degli esperimenti era la misura dello spettro della radiazione in una cavità riscaldata: la cosiddetta «radiazione di corpo nero». Era stata la relazione di nuove misure di questo spettro che all’alba del ventesimo secolo aveva indotto Max Planck a introdurre l’idea di «quanto» (il termine è di sua invenzione). L’unico modo in cui Planck poteva spiegare questa distribuzione era immaginare che gli elettroni presenti negli atomi delle pareti della cavità iniziassero a vibrare quando la cavità veniva riscaldata. Questi elettroni oscillanti emettono e assorbono radiazione.

Per produrre la distribuzione cercata, Planck dovette ipotizzare che questi oscillatori avessero un insieme ristretto di energie possibili. Nel nostro linguaggio, diremmo che la loro energia è «quantizzata». Il professor Frank aveva fatto il paragone della birra venduta a pinte o a quarti di gallone, gli analoghi del quanto. Planck introdusse una costante che fissava la scala di queste energie: la «costante di Planck», una delle unità naturali fondamentali. Nel nostro modesto esperimento riuscimmo a misurarla. Einstein nel 1905 trasformò l’idea di Planck sostenendo che la radiazione presente nella cavità fosse fatta di quanti. Il professor Frank disse che era come se, tutte le volte che troviamo una certa quantità di birra, questa fosse suddivisa in pinte e quarti di gallone. In ogni caso, con l’aiuto di Condon, passai l’esame alla fine del corso, il che mi permise di ultimare la tesi. All’epoca non pensai mai alle implicazioni filosofiche del nostro esperimento sul corpo nero - e di altri che svolgemmo in quel corso. Io e Condon eravamo una realizzazione vivente della dottrina fondamentale di Bohr sulla natura delle misure quantistiche.

Nel nostro esperimento non ci occupammo mai del vero e proprio processo quantistico che aveva luogo nella cavità. Ciò che facevamo era leggere quadranti, lancette e cose del genere. Quadranti e lancette che erano completamente classici, ed è per questo che potevamo discuterne in termini di linguaggio comune. Bohr insisteva nell’affermare che tutte le misure quantiche sono di questo tipo. Alla fine della fiera ci devono essere osservazioni descrivibili nel linguaggio comune, perché è l’unico che conosciamo. Si deve operare una qualche divisione tra il processo quantistico soggiacente e il mondo classico dell’osservatore. Bohr scrisse a ripetizione sull’argomento. Ecco un tipico esempio:

 

Si può veramente dire che questa necessità di distinguere, in ogni apparato sperimentale, tra le parti del sistema fisico considerato che si devono trattare come strumenti di misura e quelle che costituiscono gli oggetti sotto indagine rappresenti una distinzione fondamentale tra la descrizione classica e quella quantistica dei fenomeni fisici. È vero che il punto all’interno di ciascun procedimento di misura in cui si colloca questa discriminazione è in entrambi i casi in larga misura una questione di comodità. Mentre però in fisica classica la distinzione tra oggetto e agente della misura non implica nessuna differenza nel carattere della descrizione dei fenomeni interessati, la sua fondamentale importanza nella teoria quantistica, come abbiamo visto, ha le sue radici nell’indispensabile uso di concetti classici nell’interpretazione di tutte le misure vere e proprie, anche se le teorie classiche non sono sufficienti a spiegare i nuovi tipi di regolarità con cui abbiamo a che fare in fisica atomica.3

 

Nelle sue discussioni sui fondamenti della meccanica quantistica John Bell introdusse l’inestimabile concetto di fapp (for all practical purposes, «per tutti gli scopi pratici»). Per la maggior parte dei fisici, la maggior parte delle volte, quando si tratta di meccanica quantistica, il livello fapp va benissimo. Può capitarci di dover scavare più a fondo se stiamo tenendo un corso sull’argomento e usiamo uno di quei libri di testo moderni che discutono cose come l’esperimento di Einstein, Podolsky e Rosen e la disuguaglianza di Bell. Da un punto di vista fapp, un’affermazione come quella di Bohr riportata sopra sembra molto ragionevole. Ma è il genere di cose che facevano impazzire Bell e che gli fecero definire Bohr un «oscurantista». Da nessuna parte negli scritti di Bohr si trovava, secondo Bell, qualche criterio chiaro per operare la divisione di cui si parla tra il dominio reale e quello classico. Bohr sembra sottintendere che si tratti grosso modo di una divisione tra cose grandi e piccole - quadranti e lancette contro atomi. Ma questo chiaramente non funziona. Prendiamo per esempio l’esperimento mentale inventato da Einstein nel 1927 per confutare l’idea di complementarità di Bohr, quello con le fenditure su ruote. Difficile pensare a qualcosa di più classico. Ma per risolvere il paradosso presentato da Einstein, bisogna invocare il principio di indeterminazione. Difficile pensare a qualcosa di più quantistico. Come facciamo a sapere da un punto di vista di principio - e non fapp - dove fare la separazione? In Bohr non si trova certo la risposta. Né vi si trova alcuna discussione di che cosa sia esattamente una misura quantistica. In particolare, è possibile descriverne una usando il formalismo che si può trovare in un comune libro di testo?

La prima persona a discutere l’argomento con una certa generalità sembra essere stato von Neumann. Questi, nel suo libro del 1932 sui fondamenti matematici della teoria, fa una distinzione tra due tipi di «interventi» che possono verificarsi in un sistema quantistico. Un tipo di intervento può essere descritto dalla comune equazione di Schrödinger. Si parte specificando la funzione d’onda a un certo istante di tempo e in un certo luogo. Sul sistema agisce una forza - un campo magnetico, ad esempio. La funzione d’onda evolve in maniera continua secondo l’equazione di Schrödinger fino a che, in un certo istante successivo e in qualche altro luogo, acquista un nuovo valore. Se vogliamo, possiamo usare questi valori come condizioni iniziali e far percorrere al sistema la stessa storia all’indietro nel tempo. Per usare una terminologia più tecnica, l’equazione è «reversibile rispetto al tempo». Ma finora non abbiamo compiuto alcuna misura. Per vedere quali sono le questioni coinvolte, consideriamo un esempio specifico: la misura dello spin per mezzo di magneti.

Supponiamo di avere una sorgente che produce particelle di spin 1/2, per esempio elettroni. La sorgente ne produce un fascio che ha una mescolanza di spin all’insù e spin all’ingiù, ↑ e ↓, in proporzioni date dai numeri a e b. La parte di spin della funzione d’onda si può scrivere come a+ b. Fino a che le particelle non incontrano il magnete, la funzione d’onda si propaga secondo l’equazione di Schrödinger. Ma sappiamo dall’esperimento che una volta avvenuta l’interazione col magnete, il fascio si divide in due componenti, una di particelle con spin all’insù, e una di particelle con spin all’ingiù. Il processo è ancora reversibile. Ma una volta che una particella di uno dei due fasci viene concretamente rivelata, la situazione cambia drasticamente: una delle componenti della funzione d’onda sparisce. Alla domanda se questa misura concreta possa essere descritta da una comune equazione di Schrödinger reversibile rispetto al tempo, la risposta è no. Una volta che il rivelatore ha misurato una particella con, per esempio, lo spin all’insù, la sua funzione d’onda è con spin all’insù. La parte con spin all’ingiù è sparita. Spesso si parla di «collasso della funzione d’onda», per descrivere questa situazione, ma è più simile a una decapitazione. Non può essere descritta dalla comune equazione di Schrödinger, e ci sono vari modi per dimostrarlo, secondo il livello di raffinatezza della matematica che si vuole applicare. Il punto è che questa misura non è temporalmente reversibile. Non si può usare l’equazione di Schrödinger per ricostruire lo status quo ante. «Tutti i cavalli e i soldati del re non riusciranno a rimettere in piè»4 la vecchia funzione d’onda. In pratica, non si può ricostruire il passato - il che mette sotto una strana luce il concetto di storia. Quel che si può fare è proporre diversi passati con diverse probabilità. Von Neumann non discute di questo: si limita a postulare che sia necessario un intervento di tipo diverso per compiere le misure, e ne presenta le proprietà matematiche. È questo il «problema della misura», che da allora non ci ha più abbandonato.

Intere foreste sono state abbattute per produrre tutta la carta spesa sull’argomento. Io mi limito a darne una rassegna personale, mettendo in chiaro fin da subito che non so quale sia la soluzione. Dividerò la discussione in due parti: la prima tratterà le soluzioni proposte nelle quali la funzione d’onda non collassa, la seconda quelle in cui la funzione d’onda in effetti collassa, e di questo viene data una spiegazione. Entrambe le categorie di soluzioni hanno sostenitori e critici.

Il primo esempio del primo tipo di soluzioni è la meccanica à la Bohm. Nel primo dei suoi due articoli del 1952 Bohm discute un esempio di ciò che oggi è di moda chiamare «decoerenza».5 Ci si ricorderà che l’equazione di Schrödinger nella meccanica bohmiana si usa per ottenere le onde che guidano le particelle classiche. Bohm afferma che, quando il sistema non separabile entra in una regione in cui c’è una perturbazione dovuta all’interazione con un apparato di misura, c’è un rapido scambio energetico tra le parti della funzione non separabile, a causa del quale questa si divide in due pacchetti d’onda separati (decoerenza). Questi pacchetti d’onda separati guidano le particelle alle varie parti del rivelatore. La funzione d’onda non collassa, masi rompe in vari frammenti. È stato dimostrato che questo produce le risposte della meccanica quantistica.

La versione probabilmente più nota dell’interpretazione senza collasso va sotto il nome di «molti mondi», «molti cammini» o «molte storie». Risale a una tesi di dottorato scritta nel 1957 a Princeton da Hugh Everett III, sotto la guida di John Wheeler. Il titolo della tesi era «The Theory of the Universal Wave Function». Sempre nel 1957 Everett ne ricavò un articolo che pubblicò con un titolo più austero, suggeritogli da Wheeler: «Relative State» Formulation of Quantum Mechanics.6 Dunque, a quanto ne so, questa è l’unica pubblicazione di Everett sull’argomento. Wheeler, almeno all’inizio, ne era entusiasta, e mandò Everett a Copenaghen per incontrare Bohr, il quale, come del resto chiunque altro all’epoca, non mostrò alcun interesse per l’interpretazione di Everett. Questi, da parte sua, lasciò la fisica e fece un sacco di soldi come consulente della Difesa. Morì di infarto nel 1982, all’età di 51 anni. Nel frattempo era aumentato considerevolmente l’interesse verso la sua teoria, con in testa il fisico Bryce Seligman DeWitt, che negli anni Settanta scrisse articoli tecnici e divulgativi sull’argomento e coniò la definizione di interpretazione «a molti universi». Oggi si sente più spesso parlare di «interpretazione a molti mondi». Ma in che cosa consiste?

Come la meccanica bohmiana, questa interpretazione afferma che le funzioni d’onda non separabili (entangled) vanno incontro a decoerenza quando il sistema è sottoposto a perturbazioni di qualche genere. Un esempio di perturbazione potrebbe essere rappresentato dai fotoni della radiazione fossile rimasta dopo il big bang. Anche le operazioni di misura sono un tipo di perturbazione. Nella meccanica di Bohm le diverse ramificazioni della funzione d’onda agiscono come diverse onde guida per le particelle classiche; nell’interpretazione di Everett una funzione d’onda è semplicemente una funzione d’onda, ed è soluzione, in ogni punto e in ogni istante, dell’equazione di Schrödinger. Noi seguiamo però solo una delle ramificazioni. Le altre non spariscono, ma non hanno più nulla a che vedere con noi: appartengono a un altro mondo, col quale non abbiamo contatti. Se usiamo un magnete per misurare uno spin e troviamo che è all’insù, la parte di funzione d’onda con lo spin all’ingiù non viene cancellata ma rappresenta un altro possibile esito, di cui non ci dobbiamo preoccupare.

Ciò che invece preoccupa i fisici che rifiutano questa interpretazione è, tra le altre cose, la proliferazione dei «mondi». Le ramificazioni diventano talmente tante da far somigliare l’albero della funzione d’onda a una foresta. Si tratta di un’obiezione estetica, ma ce n’è anche una fisica, e cioè la regola di Born. Tornando al nostro esempio con gli spin, ricordiamo che i coefficienti a e b determinano la probabilità che un esperimento misuri lo spin all’insù o all’ingiù. Qualunque interpretazione della meccanica quantistica deve produrre questa regola, che è confermata dall’esperimento. Dunque va benissimo dire che siamo sull’una o sull’altra delle ramificazioni dei molti mondi di Everett. Ma qual è la probabilità che ci troviamo su questo ramo e non su quello (regola di Born)? C’è stato molto lavoro su questo punto da parte degli specialisti, ma a quanto so la deduzione della regola di Born nell’interpretazione a molti mondi è ancora una questione aperta su cui c’è molto disaccordo. Passiamo ora all’altra possibilità, quella che la funzione d’onda collassi.

Qualunque sia il meccanismo escogitato per determinare il collasso, esso dovrà andare oltre la normale equazione di Schrödinger. Sarà necessaria qualche nuova fisica. Una possibilità è che il collasso sia innescato da una forza che, pur agendo in maniera casuale, lo fa nei punti e negli istanti giusti così da evitare conflitti. L’ipotesi è stata esplorata in dettaglio, ma diverrà più convincente se saranno confermate sperimentalmente alcune delle nuove conseguenze osservabili ipotizzate. Un’altra strada battuta è l’idea che sia la coscienza umana a provocare il collasso della funzione d’onda. Prima di liquidarla come la solita fuffa new age, diamo un’occhiata almeno ad alcune delle fonti. Da alcuni cenni sembra che fosse di questa opinione von Neumann, per esempio. Il suo amico di lunga data e connazionale Eugene Wigner, uno dei fisici teorici più importanti del ventesimo secolo, ne era assolutamente convinto. Pare che, quando fu insignito del premio Nobel nel 1963, abbia chiesto alla persona che lo chiamava da Stoccolma a quale dei suoi risultati fosse dovuto il premio. Dubito che fosse per il suo articolo del 1961 intitolato Remarks on the Mind-Body Question7.

Wigner mette ben in chiaro la sua posizione fin dall’esordio:

 

Quando il territorio della teoria fisica fu esteso per includere i fenomeni microscopici con la creazione della meccanica quantistica, il concetto di coscienza balzò in primo piano: non era possibile formulare le leggi della meccanica quantistica in maniera completamente coerente senza fare riferimento alla coscienza. La meccanica quantistica sostiene di non fornire altro che connessioni probabilistiche tra impressioni successive (talvolta chiamate «appercezioni») della coscienza, e anche se la linea di demarcazione tra l’osservatore dotato della coscienza in questione e l’oggetto fisico osservato si può spostare in direzione dell’uno o dell’altro, essa non può essere eliminata. Forse è presto per dire se l’attuale filosofia della meccanica quantistica rimarrà una caratteristica permanente delle teorie fisiche, ma quale che sia lo sviluppo dei nostri concetti futuri, resterà degno di nota il fatto che proprio lo studio del mondo esterno abbia condotto alla conclusione che il contenuto della coscienza è una realtà basilare.8

 

Ci si potrebbe chiedere se, nel caso in cui l’uomo non avesse avuto la meglio sugli pterodattili, la coscienza collettiva degli pterodattili avrebbe sortito lo stesso effetto. Sia come sia, Wigner si lancia poi in una discussione che è diventata, in certi ambienti, celebre quanto il gatto di Schrödinger:

 

In generale ci sono molti tipi di interazione che si possono instaurare con il sistema, che portano a diversi tipi di osservazione e di misura. Inoltre, la probabilità delle diverse impressioni possibili riportate al momento dell’interazione successiva può dipendere dai risultati di molte osservazioni precedenti, non solo dell’ultima. Il punto importante è che l’impressione avuta in un’interazione può modificare, e in genere lo fa, la probabilità delle varie impressioni possibili in corrispondenza delle interazioni successive. In altri termini, l’impressione che si ottiene in occasione di un’interazione, detta anche il risultato di un’osservazione, modifica la funzione d’onda del sistema. La funzione d’onda modificata è, in generale, impossibile da predire prima che l’impressione ottenuta al momento dell’interazione sia penetrata nella nostra coscienza: è l’ingresso dell’impressione nella coscienza ad alterare la funzione d’onda, perché modifica la nostra valutazione della probabilità delle diverse impressioni che ci aspettiamo di ricevere in futuro. È a questo punto che la coscienza entra inevitabilmente nella teoria. Se si parla in termini di funzione d’onda, i cambiamenti di quest’ultima sono legati all’ingresso di impressioni nella nostra coscienza. Se si formulano le leggi della meccanica quantistica in termini di probabilità di impressioni, queste sono ipso facto i concetti primari con cui si ha a che fare.9

 

Ma Wigner va oltre, ed è questa la parte su cui si è lanciata un sacco di gente: quella dell’«amico di Wigner»:

 

È naturale interrogarsi riguardo alla situazione in cui uno non compie l’osservazione di persona, ma lo fa fare a qualcun altro. Com’è la funzione d’onda nel caso in cui il mio amico guardi nel punto in cui si potrebbe produrre un segnale luminoso al tempo t? La risposta è che le informazioni riguardanti l’oggetto non possono essere descritte da una funzione d’onda. Si può attribuire una funzione d’onda al sistema congiunto «amico più oggetto», e questo sistema avrebbe una funzione d’onda anche dopo l’interazione, ossia dopo che il mio amico ha guardato. A quel punto posso entrare anch’io nell’interazione chiedendo al mio amico se ha visto un segnale. Se la sua risposta mi dà l’impressione che lo abbia visto, la funzione d’onda congiunta di amico + oggetto si modificherà permettendo addirittura che i due abbiano funzioni d’onda separate … e la funzione d’onda dell’oggetto sarà ψ1 Se dice di no, la funzione d’onda dell’oggetto sarà ψ2: in altri termini, l’oggetto da quel momento in poi si comporterà come se l’avessi osservato io e non avessi visto alcun segnale luminoso. Tuttavia, anche in questo caso, in cui l’osservazione è stata condotta da qualcun altro, il tipico cambiamento della funzione d’onda avverrà solo quando una certa informazione (il «sì» o «no» del mio amico) entrerà nella mia coscienza. Ne segue che la descrizione quantistica degli oggetti è influenzata dalle impressioni che entrano nella mia coscienza.10

 

Di fronte a un passaggio come questo non c’è da stupirsi che molti non addetti ai lavori, specie se hanno un debole per il misticismo orientale, vedano spalancarsi le porte del karma. Bisogna avvertirli che quello di Wigner è un punto di vista minoritario tra i fisici. La maggioranza respinge il ruolo della coscienza in meccanica quantistica: le cose sono già abbastanza difficili senza introdurre qualcosa di ancor più oscuro e meno capito. Sentire i fisici che invocano la coscienza come «spiegazione» della meccanica quantistica mi fa venire in mente una vecchia barzelletta. Un tale va da uno psichiatra e gli dice: «Dottore, mio fratello ha bisogno di aiuto: crede di essere una gallina». «Perché non gli dimostra che non lo è?» chiede lo psichiatra. «Be’…» fa l’altro, imbarazzato, «è che ci servono le uova».