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INTRECCI INDISSOLUBILI
Andiamo avanti. Che una parte della conoscenza si libri nella forma di proposizioni condizionali disgiuntive tra due sistemi non può certo accadere se andiamo a prendere i due agli estremi opposti dell’universo e li giustapponiamo senza interazione. Allora infatti i due non «sanno» nulla l’uno dell’altro. È impossibile che una misura su di uno possa fornire un appiglio su che cosa ci si debba aspettare dall’altro. Se esiste un «intreccio [Verschränkung] delle predizioni», esso può evidentemente originare solo dal fatto che una volta in passato i due corpi hanno costituito un sistema in senso proprio, cioè sono stati in interazione, e hanno lasciato tracce l’uno sull’altro. Quando due corpi separati, che individualmente siano conosciuti in modo massimale, vengono in una situazione nella quale interagiscono tra loro, e si separano di nuovo, allora si verifica di regola la situazione che prima ho chiamato intreccio della nostra conoscenza circa i due corpi.
ERWIN SCHRÖDINGER1
Per riassumere, il teorema di Bell aveva dimostrato, nel 1964, che о sono false le predizioni statistiche della teoria quantistica о è falso il principio delle cause locali. Nel 1972, a Berkeley, Clauser e Freedman eseguirono un esperimento che convalidava le predizioni statistiche della teoria quantistica. Quindi, secondo il teorema di Bell, il principio delle cause locali deve essere falso.
Il principio delle cause locali afferma che ciò che accade in un’area non dipende da variabili soggette al controllo di uno sperimentatore in un’area distante e separata spazialmente. Il modo più semplice per spiegare il fallimento del principio delle cause locali è concludere che quanto accade in un’area in effetti dipende da variabili soggette al controllo di uno sperimentatore in un’area distante e separata spazialmente. Se la spiegazione è corretta, noi viviamo in un universo «non locale» («la località fallisce»), caratterizzato da comunicazioni superluminali fra «parti (apparentemente) separate».
GARY ZUKAV2
Il teorema di Bell conferma la posizione di Bohr e dimostra rigorosamente che l’idea di Einstein di una realtà fisica consistente in elementi indipendenti e spazialmente separati è incompatibile con le leggi della meccanica quantistica. In altre parole, il teorema di Bell dimostra che l’universo è fondamentalmente interconnesso, interdipendente e inseparabile. Come disse centinaia di anni fa il saggio buddhista Nagarjuna, «Le cose derivano la propria essenza e natura dalla mutua dipendenza, e non sono nulla in sé stesse».
FRITJOF CAPRA3
Nel 1907 Einstein pubblicò un articolo negli «Annalen der Physik» nel quale sistemava alcuni punti rimasti in sospeso dal suo grande articolo del 1905 sulla teoria speciale della relatività («speciale» perché non tratta i moti accelerati).4 Vediamo uno di quei punti in sospeso, cercando di descriverlo in un linguaggio più moderno. Supponiamo che sia valida la teoria della relatività, ma supponiamo che esistano particelle in grado di viaggiare più velocemente della luce; queste ipotetiche particelle vengono oggi chiamate «tachioni».5 Mettiamo in chiaro una cosa: nell’ipotesi che la teoria della relatività sia corretta, una particella ordinaria come l’elettrone, per quanto venga accelerata, non potrà mai raggiungere la velocità della luce, men che meno superarla. I tachioni invece si muovono sempre a velocità superiori a quella della luce; risulta che questo non viola la teoria della relatività, ma porta a comportamenti alquanto strani.
Supponiamo di avere un emettitore di tachioni. A un certo istante t questo emette un tachione che viene assorbito da un assorbitore di tachioni a un istante successivo. Questa è una sequenza perfettamente causale. Einstein prese in considerazione la stessa sequenza vista da un osservatore in moto rispetto a noi. Risulta che esiste una velocità, inferiore a quella della luce, alla quale questo osservatore vedrebbe i due eventi verificarsi simultaneamente. A velocità ancora maggiori, ma sempre minori di quella della luce, l’ordine temporale dei due sarebbe invertito. L’osservatore vedrebbe il tachione assorbito prima di essere emesso o, equivalentemente, vedrebbe un antitachione viaggiare all’indietro nel tempo. In uno dei suoi saggi, John Bell usò questo scenario per creare il delitto perfetto.6 Supponiamo che io attiri la vittima in un certo luogo - chiamiamola l’origine delle coordinate - a un tempo corrispondente a mezzogiorno nel sistema di riferimento a riposo. Un osservatore nel sistema in moto - l’omicida, cioè io - chiamerà anche lui quell’istante mezzogiorno, nell’origine - comune ai due sistemi - delle coordinate spaziali. Ma ora quel che faccio è azionare la mia pistola a tachioni in un istante precedente al mezzogiorno nel mio sistema, in modo che il proiettile arrivi nell’origine a mezzogiorno. Per me, la sequenza è perfettamente causale. Ma se ho aggiustato correttamente la mia velocità voi - l’osservatore nel sistema a riposo - vedrete la vittima cadere morta a mezzogiorno ed emettere un antitachione, che sarà in seguito assorbito dalla mia pistola. Per quel che vi riguarda, non c’è stato alcun delitto. Per escludere questi comportamenti strani è necessaria un’ipotesi che va oltre la relatività, ed è di solito chiamata «località». Nelle teorie locali la comunicazione superluminale non è permessa. La maggior parte dei fisici considererebbe teorie non locali una sorta di abominio. Vediamo ora come il nome di John Bell sia legato alla questione della località o non-località, iniziando da alcune informazioni biografiche sul suo conto.
John Stewart Bell nacque il 28 luglio 1928 a Belfast da genitori protestanti di modesto livello sociale. Una volta mi descrisse la sua famiglia come «povera ma onesta». Il padre, che aveva lasciato la scuola all’età di otto anni, faceva diversi lavori tra cui il mercante di cavalli. In famiglia non c’era alcuna tradizione di istruzione superiore, di nessun tipo. Qualunque scuola al di sopra di quella elementare non era né gratuita né obbligatoria, nella Gran Bretagna dell’epoca. Com’era normale per i ragazzi nelle sue condizioni, Bell avrebbe lasciato la scuola a quattordici anni, e iniziato a lavorare per sostenere la famiglia. Ma la madre lo incoraggiò a continuare gli studi, e in qualche modo si trovarono i soldi per iscriverlo alla Belfast Technical High School - un istituto professionale in cui si studiavano materie come edilizia e falegnameria. Ma a scuola Bell cominciò a interessarsi di filosofia, e a leggere quelli che chiamò «libroni di filosofia greca». Rimase però deluso, perché concluse che i filosofi non facevano altro che cercare di confutarsi a vicenda. Sempre a scuola ricevette un’infarinatura di fisica e decise che, se la fisica non trattava delle grandi questioni sulla vita e la morte, trattava però delle leggi di natura; era questa la strada che avrebbe seguito. Tuttavia quando si diplomò era troppo giovane e troppo povero per proseguire gli studi.
Cercò senza successo un lavoro, fino a quando ne trovò uno che avrebbe influenzato il resto della sua carriera. George Karl Emeleus, assistente di fisica al Queen’s College di Belfast, lo assunse per allestire esperimenti di laboratorio per gli studenti di fisica del primo anno. Emeleus probabilmente vide qualcosa di eccezionale in Bell, perché anche lui gli suggerì libri di fisica da leggere, e gli consentì di assistere alle lezioni di fisica per le matricole. Dopo un anno (era il 1945) Bell aveva raggiunto l’età minima e messo da parte abbastanza soldi per potersi iscrivere all’università. Fu al Queen’s College che sentì parlare per la prima volta di meccanica quantistica, e ne fu scandalizzato. Capiva perfettamente la matematica della teoria, ma non come venisse interpretata. A questo proposito ebbe discussioni molto animate con uno dei suoi professori, Robert Sloane. Pensava allora che la teoria fosse falsa?, gli chiesi una volta. «Non osavo pensare questo,» rispose «ma sapevo che c’era del marcio». Con la sua cadenza irlandese, Bell mise un certo compiacimento nell’ultima parola.
Ciò che dava fastidio a Bell all’epoca, e continuò a dargli fastidio per il resto della vita, erano domande come: «Che cos’è la funzione d’onda di Schrödinger?». L’interpretazione standard ci dice che la funzione d’onda dà informazioni riguardo a un sistema quantistico, per esempio la probabilità che in corrispondenza di una misura certe «osservabili» assumano un determinato valore. Ma è tutto qui quello che abbiamo: «informazioni»? Non c’è altro, dietro le quinte? Bell supponeva che i fisici, pur se in apparenza, quando insegnano o utilizzano in pratica la meccanica quantistica, accettano l’idea che tutt’al più si possano avere solo «informazioni», siano convinti in cuor loro che la funzione d’onda non esaurisca tutto ciò che esiste. Le informazioni che essa contiene si riferiscono a qualcosa d’altro, qualcosa che non ci è rivelato - una realtà nascosta. Il Mago di Oz avrà anche messo su una gran scena, ma dietro la tenda c’è un vecchietto di Omaha che gira le manovelle.
Bell si laureò in fisica al Queen’s col massimo dei voti, e decise che non poteva più vivere sulle spalle dei genitori (mentre era studente aveva continuato ad abitare con i suoi). Trovò un posto in un istituto di ricerca sull’energia atomica a Malvern, nel Worcestershire, dove un gruppo stava progettando un acceleratore lineare. Diversamente dal ciclotrone, in cui le particelle seguono una traiettoria circolare, l’acceleratore lineare fa muovere le particelle in linea retta. I vantaggi rispetto al ciclotrone sono legati al modo in cui le particelle cariche emettono radiazione. A Malvern Bell conobbe la sua futura moglie: Mary, una fisica scozzese, anch’essa giunta lì per fare ricerca. Si fece anche crescere la barba, rossa, per coprire una cicatrice dovuta a un incidente in moto. I Bell continuarono a lavorare a progetti di acceleratori per tutta la loro carriera. John non aveva intenzione di proseguire gli studi, ma nel 1953 fu selezionato per un programma dell’Atomic Energy Authority che finanziava un anno di studi di dottorato. Decise di andare a Birmingham a studiare con Rudolph (in seguito Sir Rudolph) Peierls, uno dei grandi docenti di fisica del Novecento. All’epoca Bell aveva già pubblicato articoli sulla progettazione di acceleratori, ma aveva anche continuato a pensare ai fondamenti della meccanica quantistica.
Mentre era al Queen’s aveva letto il libro di Max Born Filosofia naturale della causalità e del caso. Born, morto nel 1970, fu uno dei fondatori della meccanica quantistica, anche se ricevette il Nobel per il suo lavoro solo nel 1954. Fuggito dalla Germania nel 1933, aveva accettato una cattedra a Cambridge e si era quindi trasferito all’Università di Edimburgo. Ma nel 1948 aveva tenuto le cosiddette Waynflete Lectures a Oxford. Queste costituirono la base per il suo libro, pubblicato nel 1949: una magistrale panoramica sulla fisica del Novecento, che comprendeva naturalmente la meccanica quantistica. Born era in disaccordo con Einstein sull’interpretazione della teoria: aveva infatti proposto l’interpretazione probabilistica all’origine della famosa frase di Einstein su Dio che non gioca a dadi. Fu un passaggio di quelle lezioni a colpire Bell. Nel 1949 era ormai chiaro che c’era qualche problema in settori quali l’elettrodinamica quantistica. In questa teoria, che pure forniva previsioni incredibilmente accurate, alcune quantità che dovevano essere finite risultavano invece matematicamente infinite. Born si chiese se fosse possibile porre rimedio a queste difficoltà con un parziale ritorno a una fisica classica di fondo:
Mi aspetto che la nostra teoria attuale sarà profondamente modificata. Infatti essa è piena di difficoltà a cui non ho nemmeno accennato - l’auto-energia delle particelle interagenti e molte altre quantità, come le sezioni d’urto di collisione, portano a integrali divergenti [cioè infiniti]. Ma non mi aspetterei mai che queste difficoltà si possano risolvere con un ritorno ai concetti classici. Mi aspetto anzi il contrario, cioè che dovremo sacrificare alcune delle idee correnti e servirci di metodi ancora più astratti. Tuttavia queste sono solo opinioni. Un contributo più concreto alla questione è stato dato da J. von Neumann nella sua brillante opera Mathematische Grundlagen der Quantenmechanik [Fondamenti matematici della meccanica quantistica]. Egli pone la teoria su una base assiomatica, derivandola da pochi postulati di carattere generale e molto plausibili, intorno alle proprietà dei «valori di aspettazione» (medie) e alla loro rappresentazione mediante simboli matematici. Ne risulta che il formalismo della meccanica quantistica è univocamente determinato da questi assiomi; in particolare, non è possibile introdurre dei parametri occulti grazie ai quali la descrizione indeterministica potrebbe divenire deterministica. Pertanto, se una teoria futura dovesse essere deterministica, essa non potrebbe essere una modificazione della teoria attuale, ma dovrebbe essere radicalmente diversa da questa. Lascio ai deterministi il preoccuparsi del come sarebbe possibile ottenere ciò senza sacrificare l’intero e prezioso patrimonio di risultati saldamente stabiliti.7
Bell fu molto colpito da queste considerazioni e anche dal fatto che, all’inizio del 1952, David Bohm avesse pubblicato due articoli in cui faceva esattamente quel che von Neumann aveva dichiarato impossibile. Prima di descrivere la soluzione del paradosso data da Bell, e le sue conseguenze, vorrei insistere di nuovo su quel che fece Bohm. Innanzitutto fatemi dire quel che non fece. Non produsse una teoria alternativa alla meccanica quantistica. La meccanica bohmiana, come viene spesso chiamata (anche se mai da Bohm stesso), è una reinterpretazione della meccanica quantistica non relativistica (tornerò più tardi sulla questione del «non relativistica»), che si propone di riprodurne tutti i risultati in modo deterministico. Talvolta è chiamata teoria «delle variabili nascoste», ma è una definizione fuorviarne. Non c’è nulla di nascosto nelle traiettorie delle particelle, nell’ambito della meccanica bohmiana: tutte le traiettorie sono esplicite e classiche. Sono le particelle l’oggetto principale della teoria; oggetto secondario sono le onde di Schrödinger che le guidano. Per amore di verità storica va detto che, subito dopo l’invenzione della meccanica quantistica, de Broglie aveva presentato un modello molto simile, ma l’aveva abbandonato dopo le critiche severe ma sostanzialmente irrilevanti avanzate da Pauli.
Come ho accennato in precedenza, ci sono due equazioni fondamentali nella teoria di Bohm. Una è l’equazione di Schrödinger, che governa le onde guida. Una volta risolta questa equazione, la funzione d’onda così trovata si può usare per ottenere per le particelle un’equazione dall’aspetto molto classico - un’equazione che ne determina la traiettoria. Dato che queste traiettorie sono perfettamente classiche, ci si può chiedere dove si trovino, in tutto ciò, le caratteristiche distintive della meccanica quantistica come il principio di indeterminazione di Heisenberg. Ebbene, se da una parte è vero che ogni soluzione dell’equazione di Schrödinger bohmiana determina univocamente una traiettoria della particella priva di incertezze, dall’altra le condizioni iniziali che determinano la funzione d’onda sono indeterminate, e questo si riflette nelle traiettorie. Questo ricorda alcune discussioni sul determinismo avvenute dopo la scoperta del principio di indeterminazione. Un tempo si diceva che l’universo newtoniano evolve con regolarità e precisione meccanica: una volta date le condizioni iniziali - la posizione e la quantità di moto di tutte le singole particelle -, il futuro è completamente determinato. Ma se per caso non fosse mai possibile stabilire con precisione infinita queste condizioni iniziali, come afferma il principio di indeterminazione di Heisenberg, ci si sarebbe liberati di questa camicia di forza deterministica. Lascio ai filosofi l’approfondimento della discussione. Nel caso della meccanica bohmiana è l’indeterminazione delle condizioni iniziali a generare l’indeterminazione della traiettoria. Si potrebbe obiettare che questo è un aspetto che viene imposto alla teoria anziché, come nel caso della meccanica quantistica ordinaria, essere derivato da essa. La domanda è: il gioco vale la candela? La prospettiva di risolvere un certo disagio riguardo all’interpretazione della teoria quantistica giustifica tutta la fatica di elaborare la meccanica bohmiana?
Per la maggior parte dei fisici attivi nella ricerca la risposta è molto probabilmente «no». Proprio come si può tranquillamente andare in bicicletta senza addentrarsi nei princìpi giroscopici che le permettono di curvare, così si possono usare le regole della meccanica quantistica senza preoccuparsi granché del significato di tutto quanto. Le cose sono piuttosto cambiate dopo il contributo di Bell, e oggi molti fisici di primo piano ritengono legittimo occuparsi della questione. Bell era un fisico talmente in gamba che gli altri hanno pensato: se lo fa lui, lo posso fare anch’io. La meccanica bohmiana è una delle strade, ma ce ne sono altre. Prendiamo la storia della doppia fenditura, quella che mi aveva così sbalordito quando ero matricola. Un fascio di particelle, per esempio elettroni, incide su una barriera in cui sono state praticate due fenditure ravvicinate. Dietro la barriera si trova un rivelatore di elettroni. Se anche l’intensità del fascio viene ridotta in modo che gli elettroni entrino nell’apparato uno alla volta, col tempo la distribuzione cumulativa che si ottiene nel rivelatore riproduce la figura d’interferenza che avrebbe prodotto un’onda passando dalle stesse fenditure. Se si chiude una delle due aperture, la figura cambia. La domanda che mi ero fatto all’epoca era: «Come fa l’elettrone a “sapere” che una delle due fenditure è chiusa, quando passa per l’altra?». La meccanica quantistica ordinaria non dà una vera risposta a questa domanda, o meglio, la ignora. C’è una regola che insegna a calcolare la probabilità che l’elettrone finisca in un punto o nell’altro del rivelatore, e in pratica questo è tutto. Nella meccanica bohmiana, invece, c’è una risposta: se entrambe le fenditure sono aperte, l’onda guida passa attraverso entrambe. L’interferenza delle onde si ripercuote sulle traiettorie degli elettroni, che passano o per una fenditura o per l’altra, non per entrambe contemporaneamente. L’idea è buona, ma c’è un altro problema che è intrinseco all’intero modello, e che fu presentato per la prima volta in maniera chiara da Bell. Ne parleremo dopo aver visto qualche altro dettaglio biografico.
Quando arrivò a Birmingham per il suo anno sabbatico nel 1953, Bell aveva già pubblicato alcuni articoli sulla progettazione di acceleratori. Peierls gli disse perciò che non sarebbe stato trattato da «principiante», ma che gli sarebbe stato chiesto di tenere un seminario sul suo lavoro. Bell propose di scegliere tra due argomenti: progettazione di acceleratori o fondamenti della meccanica quantistica, che avrebbe implicato parlare di meccanica bohmiana. Peierls mise in chiaro che non voleva sentir parlare di meccanica bohmiana, che non sopportava; era da sempre convinto che non ci fossero problemi da risolvere nell’interpretazione della teoria. Molti anni più tardi studiò e apprezzò il lavoro di Bell, anche se rimase dell’idea che i «problemi» erano più che altro dovuti a confusione concettuale. Bell lavorò alla tesi di dottorato sotto la guida di un giovane assistente di Peierls chiamato Paul Matthews, che in seguito fece una carriera brillantissima. Dopo l’anno sabbatico Bell si trasferì a Harwell, un’altra sede della Atomic Energy Authority, dove c’era un piccolo gruppo che si dedicava alla ricerca fondamentale in fisica nucleare. Rimase a Harwell per qualche anno, poi concluse che il gruppo era tagliato fuori da tutte le altre attività del laboratorio, e che a quel punto era meglio cambiare aria. All’epoca Bell aveva già fornito consulenze per il progetto di un acceleratore che veniva costruito in quegli anni al cern di Ginevra, e proprio il cern offrì a lui e alla moglie un posto nel 1960; entrambi vi rimasero fino al termine della carriera.
Bell aveva un’etica del lavoro molto forte. Sapeva che il cern lo pagava per occuparsi di progettazione di acceleratori e di teoria delle particelle elementari, non dei fondamenti della meccanica quantistica, e agì di conseguenza. Ma non riusciva a non pensare alla meccanica quantistica. Mentre era a Harwell aveva un collega di nome Franz Mandi, tedesco di madrelingua; un aspetto importante, giacché all’epoca non esistevano traduzioni inglesi del libro di von Neumann. Quando Mandi ebbe tradotto la parte interessante del libro, Bell vide immediatamente qual era il problema. Von Neumann aveva dato per scontato che la media della somma di varie quantità fosse uguale alla somma delle medie. Questo è quasi banale nella meccanica quantistica convenzionale, e von Neumann aveva presupposto che dovesse valere necessariamente in qualunque alternativa deterministica. Ma Bell si rese conto che nella meccanica bohmiana questo non valeva, e dunque il ragionamento di von Neumann perdeva senso. Lasciò riposare la faccenda fino al 1963, quando lui e Mary trascorsero un anno sabbatico a Stanford. A quel punto si sentì libero di occuparsi dell’argomento che preferiva.
Pubblicò per prima cosa un articolo di rassegna intitolato Sul problema delle variabili nascoste in meccanica quantistica,8 un riassunto di tutto il lavoro da lui svolto sull’argomento a partire dal 1952. La maggior parte dell’articolo è dedicata al perché diverse «dimostrazioni» proposte come quelle di von Neumann non escludano interpretazioni della meccanica quantistica alla maniera di Bohm. Ma alla fine Bell solleva una questione che negli articoli di Bohm era stata solo brevemente accennata. Supponiamo di avere due particelle bohmiane interagenti. Si avrebbero due equazioni del moto, una per ciascuna particella. Ma, in generale, in queste equazioni le due particelle sono intrecciate tra loro: la traiettoria dell’una dipende dalla conoscenza istantanea del comportamento dell’altra, anche se le due sono spazialmente separate. In poche parole, la teoria è non locale. Riproduce i risultati della meccanica quantistica, ma a un prezzo molto elevato. Bell aggiunge a questo punto una frase: «Tuttavia va sottolineato che, per quanto risulta a chi scrive, al momento non esiste alcuna prova che una qualsiasi spiegazione della meccanica quantistica in termini di variabili nascoste debba avere questa straordinaria proprietà».9 Una nota a piè di pagina però precisa: «Dopo il completamento di questo articolo una siffatta prova è stata trovata (J.S. Bell, “Physics”, 1 (1965), p. 195)». È un riferimento all’articolo in cui Bell dimostrava il suo teorema.10 Per questo lavoro e le sue conseguenze, Bell fu candidato al Nobel, poco prima di morire, il 10 ottobre del 1990.
Per capire il risultato ottenuto da Bell dobbiamo tornare al 1910. In quell’anno il fisico di origine neozelandese Ernest Rutherford, assieme ai suoi giovani collaboratori di Manchester, scoprì il nucleo atomico e, in seguito, elaborò il modello atomico rimasto valido a tutt’oggi. Eccone la versione moderna: un nucleo minuscolo e massiccio fatto di protoni e neutroni e circondato, a grande distanza, da un numero elettroni tale da bilanciare la carica elettrica dei protoni. Quando nel 1911 Niels Bohr arrivò dalla Danimarca come borsista post-dottorato per lavorare con Rutherford aveva già a disposizione questo modello dell’atomo, nonché l’enigma che esso poneva. Che cosa manteneva stabile il tutto? Che cosa impediva agli elettroni di cadere sul nucleo, che li attrae elettricamente? Al suo ritorno in Danimarca, Bohr propose una risposta, che pubblicò nel 1913.
Nel suo modello il moto degli elettroni è ristretto a certe orbite. Nel nostro linguaggio, diciamo che le orbite sono «quantizzate». L’orbita con l’energia minore - lo «stato fondamentale» - è, per ipotesi, stabile. Ma gli elettroni nello stato fondamentale possono essere eccitati e passare a stati di energia più alta. Quando tornano allo stato fondamentale viene emessa radiazione, nelle transizioni degli elettroni dagli stati di energia maggiore a quelli di energia più bassa. I valori energetici di questa radiazione sono determinati dalle energie degli elettroni nelle orbite quantizzate; più precisamente, l’energia irraggiata corrisponde alla differenza tra le energie delle orbite. Questo significa che, al posto di radiazione emessa caoticamente, si osservano solo determinate frequenze, e questo spiega perché campioni di atomi eccitati emettono quei meravigliosi spettri di luce che li identificano come impronte digitali.
Nel decennio successivo alla pubblicazione dell’articolo di Bohr, un gran numero di fisici, lavorando in ordine sparso e quasi artigianalmente, applicò la sua teoria a spettri sempre più complessi. Tutto questo - un misto di fisica classica e nuova - finì per essere chiamato «vecchia teoria dei quanti». Ma negli anni Venti erano emersi problemi ineluttabili che la vecchia teoria non poteva risolvere. Gli stati degli elettroni atomici erano caratterizzati dai cosiddetti «numeri quantici». Oltre all’energia, gli elettroni possedevano infatti un momento angolare orbitale, e questo momento angolare era «quantizzato»: non solo cioè il momento angolare totale aveva un numero limitato di valori accessibili (contrariamente a quanto accadeva in fisica classica) ma, per un dato valore, c’era solo un numero limitato di direzioni in cui questo poteva puntare. Questi numeri quantici aggiuntivi davano luogo a ulteriori righe spettrali, a causa delle maggiori possibilità di transizione per gli elettroni. Ma c’era un problematico raddoppiamento di alcune linee, che sembrava impossibile da spiegare.
Talvolta in fisica per superare ostacoli di questo genere ci vogliono fisici giovani che abbiano poco da perdere. In questo caso i giovani erano due studenti di dottorato olandesi: George Uhlenbeck e Samuel Goudsmit. Il secondo era esperto di spettri, mentre il primo era più ferrato in fisica teorica. Nel 1925 i due proposero che l’elettrone avesse un momento angolare aggiuntivo che non aveva nulla a che fare con il suo moto, e che fu chiamato «spin». Nella loro idea originale, l’elettrone era visto come una minuscola sfera di carica in moto di rotazione, come la Terra, attorno al proprio asse. Ma questo modello non regge: la rotazione dell’elettrone dovrebbe essere talmente rapida da rendere i punti sulla superficie esterna più veloci della luce. Inoltre, per spiegare i dati, la rotazione dell’elettrone può puntare solo in due direzioni: «su» o «giù». Lo spin è una proprietà quantistica intrinseca alle particelle. L’introduzione dello spin risolveva l’enigma della duplicazione di alcune righe spettrali. In realtà, sebbene Goudsmit e Uhlenbeck non ne fossero a conoscenza, esistevano già dati provenienti da una fonte completamente diversa: un esperimento che era stato realizzato nel 1922 fornì le prove definitive dell’esistenza dello spin.
Al ritorno dal servizio militare prestato durante la prima guerra mondiale, il fisico tedesco Otto Stern divenne assistente di Bora a Francoforte. Bora si stava interessando ai cosiddetti esperimenti con fasci molecolari, in cui delle molecole vengono riscaldate in una fornace dalla quale vengono lasciate uscire formando un fascio collimato. Queste molecole sono elettricamente neutre, così da non venire perturbate da campi elettrici residui che sovrasterebbero eventuali effetti sottili da misurare. Born decise che su questo avrebbe lavorato Stern, il quale si avvalse della collaborazione di Walther Gerlach, un fisico sperimentale di grande abilità. Stern voleva verificare una previsione della vecchia teoria dei quanti, riguardante le direzioni in cui poteva puntare il momento angolare di una molecola. Scelse di usare l’atomo di argento, perché ha un elettrone singolo all’esterno di un guscio chiuso di elettroni.
Il momento angolare totale dell’atomo è composto dal momento angolare dell’elettrone esterno e da quello del guscio interno, nessuno dei quali era noto. Ma al momento angolare totale è associato un momento magnetico atomico che ha la stessa orientazione. In pratica si ha un minuscolo magnete orientabile in un numero limitato di direzioni, che rispecchiano la quantizzazione dell’incognito momento angolare atomico. Se questo magnetino interagisce con un forte campo magnetico che punta in direzione nota, allora, a seconda dell’orientazione del suo momento angolare, l’atomo del fascio segue una diversa traiettoria nel campo magnetico esterno. Raccogliendo gli atomi su un rivelatore è possibile visualizzare l’effetto delle diverse traiettorie - il numero di linee prodotte sul rivelatore.
La cosa principale che Stern voleva sondare era la quantizzazione del momento angolare, predetta da Bohr. Se il momento angolare fosse stato classico avrebbe puntato in qualunque direzione, e sul rivelatore si sarebbe ottenuta una distribuzione continua. Si produssero invece due righe distinte. Questo dimostrava che il momento angolare era quantizzato, ma il fatto che le righe fossero solo due era misterioso. Ci vollero altri cinque anni prima che questo risultato sperimentale venisse legato allo spin. Il motivo era che prima del 1927 non si sapeva che il guscio di elettroni interni nell’atomo d’argento non ha momento angolare - e che quindi il momento angolare dell’atomo è dovuto interamente all’elettrone esterno, che non ha momento angolare orbitale. Pertanto l’effetto era dovuto solo allo spin dell’elettrone. C’erano solo due traiettorie possibili nel magnete di Stern e Gerlach, perché lo spin dell’elettrone poteva puntare solo all’insù o all’ingiù.
Ho raccontato tutto questo perché i magneti alla Stern-Gerlach hanno un ruolo essenziale nell’analisi di Bell. Tutto cominciò dal libro di testo Quantum Theory, pubblicato da Bohm nel 1951 e nel quale l’autore presenta la sua versione dell’articolo di Einstein, Podolsky e Rosen. Questi ultimi avevano considerato funzioni d’onda che rappresentavano quantità di moto non separabili, il che rendeva la loro argomentazione piuttosto complicata. Bohm si concentrò sullo spin, che può puntare solo all’insù o all’ingiù.
Nelle unità di misura appropriate, lo spin dell’elettrone, così come quello del protone e del neutrone, vale 1/2. Se mettiamo insieme due elettroni, il loro spin totale può fare 0 o 1. Per i suoi scopi, Bohm considerò lo stato di spin 0, detto anche «singoletto». Per avere spin totale 0, gli elettroni devono avere spin orientato in senso opposto, ma in assenza di misure non sappiamo quale ha spin all’insù e quale all’ingiù. In una notazione che non ha bisogno di essere spiegata, la funzione d’onda ha la forma (1)↑ (2)↓ — (1)↓ (2)↑· Il segno meno è fondamentale per rendere nullo lo spin totale. Questa funzione d’onda rappresenta la «non-separabilità» dei due elettroni e in effetti, per molti versi, è l’esempio di non-separabilità, o entanglement, per eccellenza.
Supponiamo che esista una particella di spin 0 che decade in due elettroni. Questi sarebbero creati in uno stato di singoletto. Se la particella fosse a riposo al momento del decadimento, gli elettroni si allontanerebbero lungo direzioni opposte con la stessa velocità, per conservare la quantità di moto. La meccanica quantistica ci dice che, a meno che uno dei due non interagisca con qualcosa, la non-separabilità degli spin persisterebbe indipendentemente dalla distanza tra i due elettroni.
Supponiamo ora che io abbia da qualche parte un magnete di Stern-Gerlach (il vero esperimento di Stern e Gerlach fu fatto - per ragioni tecniche, come ho accennato - con atomi d’argento e non con elettroni liberi). Quando uno dei due elettroni entra nel magnete, può avere spin all’insù o all’ingiù - quale delle due possibilità sia effettivamente realizzata lo si stabilisce dalla traiettoria, o meglio dal punto in cui l’elettrone colpisce il rivelatore. Prima della misura, tutto quel che possiamo dire è che potenzialmente l’elettrone può avere lo spin all’insù o all’ingiù. Se abbiamo un certo campione di particelle madri, queste continueranno a fornire elettroni al magnete. Metà delle volte questi elettroni avranno spin all’insù, metà delle volte spin all’ingiù. Se faccio la misura sempre allo stesso magnete, la distribuzione degli spin su e degli spin giù apparirà completamente casuale. Supponiamo che io prenda nota di queste misure segnando sul mio quaderno un «più» per ogni spin su e un «meno» per ogni spin giù: dopo un po’ l’annotazione sarebbe qualcosa come + + – + – + – + + + … e così via.
Ora supponiamo che anche voi abbiate un magnete di Stern-Gerlach, più lontano del mio dalla sorgente di elettroni, che sta nel mezzo, ma orientato nello stesso modo. I vostri elettroni arrivano un po’ dopo i miei, e anche voi avete un quaderno in cui annotate i «più» e i «meno». Anche a voi essi appaiono completamente casuali. Se non confrontiamo i nostri appunti, concludiamo entrambi che c’è una distribuzione casuale degli spin in ciascun magnete. Ma in seguito decidiamo di confrontare gli appunti. Se conosciamo la meccanica quantistica non ci stupiremo del risultato. Gli spin misurati ai due magneti appaiono perfettamente anticorrelati: ogni volta che io annoto un «più» voi annotate un «meno», e viceversa.
Se assumessi lo stesso atteggiamento mentale che avevo quando, da matricola, sentii per la prima volta descrivere l’esperimento della doppia fenditura con elettroni singoli, la domanda che mi porrei sarebbe: «Come fa l’elettrone lontano a “sapere” che al suo compagno è appena stato misurato lo spin, e a regolarsi di conseguenza, anticorrelandosi?». Nella teoria dei quanti standard, che non permette la propagazione di segnali superluminali, non c’è risposta. Ma non si pone nemmeno la domanda: la teoria ci dice come calcolare la correlazione, fine. Per consolarci possiamo pensare alla situazione seguente. Io ho una grande moneta, che qualcuno ha affettato in due parti, una con «testa» e l’altra con «croce». La stessa persona ha rinchiuso le metà in due sacchetti sigillati e me li ha riconsegnati, senza dire né a me né a voi quale metà contenessero. Io ve ne do uno, e voi partite per Kathmandu. C’è il cinquanta per cento di probabilità che all’apertura del mio sacchetto io trovi testa. Lo apro e, guarda guarda, trovo testa. In quell’istante la probabilità che anche voi troviate testa cade istantaneamente a zero. In questo non c’è nulla di misterioso: la probabilità rispecchia lo stato della conoscenza e, quando questa cambia, cambia anche la probabilità.
La differenza tra questa situazione e quella quantistica è che se io trovo testa, sono sicuro che era testa fin dall’inizio. Non devo fare una misura. In meccanica quantistica, invece, non posso trarre quella conclusione. Se lo facessi, potrei dare luogo a contraddizioni con il principio di indeterminazione. È questo il genere di cose che turbava Einstein, il quale chiamava le correlazioni quantistiche di questo tipo «sinistri effetti a distanza».11 La meccanica bohmiana dà una spiegazione: quando le due particelle sono non separabili, qualunque cosa accada a una delle due influenza istantaneamente anche l’altra. Nell’articolo in cui ne discute, Bohm sostiene che non c’è alcuna contraddizione con la relatività perché in questo modo non si trasmettono «informazioni». Forse - ma come la mettiamo con le sequenze causali viste da sistemi di riferimento diversi? A me sembra che una volta aperto il vaso di Pandora di questo genere di influssi reciproci istantanei e non locali, nessuno può essere sicuro di cosa possa uscirne.
Bell si rendeva conto di tutto questo, e la domanda che si pose fu: è possibile far generare le correlazioni quantistiche da qualche teoria classica a variabili nascoste che, diversamente da quella di Bohm, abbia solo interazioni locali? Riflettendo su questo punto, Bell propose una variante dell’esperimento con i magneti di Stern-Gerlach a cui nessuno aveva pensato prima. Supponiamo di ruotare uno dei due magneti: che cosa accade alla correlazione? La meccanica quantistica ha una risposta precisa: se i due magneti sono paralleli si verifica la perfetta anticorrelazione di cui abbiamo parlato poco fa; se sono perpendicolari, non c’è alcuna correlazione. In una situazione intermedia, in cui i magneti sono ruotati l’uno rispetto all’altro di un angolo a, la correlazione è data da - cos(α), che per α = 0 e α = 90° dà i risultati descritti sopra. La domanda diventa allora: è possibile che una teoria locale avariabili nascoste riproduca questa correlazione? Con «locale» si intende in questo caso che il valore delle variabili nascoste in corrispondenza di un magnete non deve dipendere in alcun modo da ciò che accade in corrispondenza dell’altro magnete. Bell trovò che era facile costruire modellini semplici con queste proprietà per i casi di 0 e 90° gradi. Ma per gli angoli intermedi, nessuno di questi modelli funzionava.
L’argomentazione generale di Bell è piuttosto astratta e raffinata. Vorrei presentare qui un’analisi che non è astratta né raffinata, e che non pretende di essere rigorosa. Posso dire che è stata ispirata da alcune osservazioni dello stesso Bell, anche se lui non usava marchingegni come quelli che ora descriverò. Immaginiamo di avere a disposizione automi incredibilmente intelligenti, che chiamerò «robot di Einstein» - i marchingegni. Sono programmabili e possono fare qualunque cosa, tranne inviarsi l’un l’altro segnali superluminali. La domanda è se si possano programmare in modo che riproducano le correlazioni quantistiche senza bisogno della meccanica quantistica. Diamo a uno dei robot un campione di molecole diatomiche in cui ciascun atomo della coppia ha spin 1/2; gli diamo quindi istruzione di dividere ogni molecola in due e sparare gli atomi costituenti in direzioni opposte. Esso deve ripetere l’operazione, assicurandosi che per ciascun caso gli spin siano in direzioni opposte, ma senza pregiudizio su quale dei due sia all’insù e quale all’ingiù. Dov’è in questo caso la funzione d’onda «non separabile», ci si potrebbe chiedere. Non c’è nessuna funzione d’onda, ed è proprio questo il punto: stiamo cercando di fare la meccanica quantistica senza la meccanica quantistica.
A ciascuno dei due atomi costituenti appiccichiamo un robot di Einstein. Se i magneti di Stern-Gerlach sono paralleli, i robot hanno istruzione di guidare in maniera opportuna le traiettorie delle particelle, a seconda dell’orientazione all’insù o all’ingiù del loro spin. Questo riprodurrà l’anticorrelazione. Ora ruotiamo uno dei due magneti di un piccolo angolo α e programmiamo gli automi affinché quando incontrano il magnete ruotato riproducano la correlazione per piccoli angoli –1 + α2/2.12 Fin qui tutto bene. Riportiamo il magnete alla posizione originaria e ruotiamo l’altro di un angolo –α. Con le istruzioni date in precedenza, ottengo la stessa correlazione di prima. Ma ora gioco sporco: ruoto un magnete di α e l’altro di –α. I poveri automi, a cui non è permesso comunicare tra loro, non sanno far altro che riprodurre la somma delle correlazioni per α e –α, cioè –1 + α2. Ma la correlazione quantistica è legata a 2α, che è il vero angolo tra i due magneti, ed è pari a –1 + (2α)2/2. Prendendo, per esempio, α = 1/2, il risultato classico sarebbe –3/4, quello quantistico –1/2.
Questo è un caso molto particolare delle cosiddette disuguaglianze di Bell. Ciò che Bell ha dimostrato è che nessuna teoria locale avariabili nascoste può riprodurre tutti i risultati della meccanica quantistica. La meccanica bohmiana li riproduce perché è non locale. Risolve il problema di una spiegazione nel modo che a Einstein sarebbe probabilmente piaciuto meno di ogni altro: sostituisce i «sinistri effetti a distanza» della meccanica quantistica con una teoria che ha effetti superluminali.
Secondo alcuni teorici Bell ha dimostrato che Bohr aveva ragione e Einstein torto. Lo disse anche lo stesso Bell, ma con un certo rammarico; secondo lui, infatti, Einstein poneva una domanda scientificamente naturale, mentre Bohr gli rispondeva che non era una domanda da fare. Bell trovava alquanto oscuri molti degli scritti di Bohr sulla teoria dei quanti, il che lo irritava enormemente. Non è invece ovvio, secondo me, che questo risultato sarebbe spiaciuto a Einstein. Ciò che sappiamo è che non aveva una grande opinione della meccanica bohmiana. Nel maggio 1952 scrisse, in una lettera a Born: «Hai visto che Bohm (come del resto de Broglie, venticinque anni fa) pensa di essere in grado di reinterpretare la teoria dei quanti in senso deterministico? Mi sembra una soluzione troppo a buon mercato, ma tu, naturalmente, puoi giudicare molto meglio di me».13 Non ho mai capito che cosa intendesse Einstein con «troppo a buon mercato» o che cosa stesse cercando di fare esattamente lui stesso. Ma non sono sicuro che i risultati di Bell lo avrebbero turbato più di tanto.
Dopo aver risposto alla domanda che si era prefisso di affrontare, Bell doveva decidere dove pubblicare il risultato. Il luogo naturale sarebbe stato una delle riviste specializzate, come «Physical Review». Ma all’epoca tutte queste riviste imponevano notevoli costi di pubblicazione, che venivano pagati dall’ente o dalla persona che inviava l’articolo, finanziati di solito da fondi statali. Bell non aveva intenzione di pagarli di tasca propria, né pensava che fosse giusto farli pagare all’Università di Stanford, di cui era ospite. Scoprì tuttavia che esisteva una nuova rivista, chiamata «Physics», la quale addirittura pagava per avere articoli. E qui che Bell pubblicò il suo, dal titolo Sul paradosso di Einstein, Podolsky e Rosen, che uscì nel 1964.14 La rivista, che ben presto chiuse i battenti, non distribuiva reprint gratuiti; Bell spese quindi la maggior parte del compenso per comprare copie dell’articolo. Avrebbe potuto risparmiare i suoi soldi, dato che per i cinque anni seguenti non ci fu quasi alcuna richiesta. Non c’era, in parole povere, praticamente nessun interesse per ciò che aveva fatto. Bell tornò a occuparsi di teoria delle particelle elementari e a progettare acceleratori. Ma poi ricevette una lettera da un giovane fisico di Berkeley di nome John Clauser, e tutto cambiò.
Clauser aveva preso un master alla Columbia University in fisica sperimentale. La Columbia richiedeva che gli studenti di dottorato prendessero almeno un «B» in un corso avanzato di meccanica quantistica. Clauser non andava oltre il «C», perché non riusciva a capire il significato delle manipolazioni quantistiche. Questo lo aveva indotto a leggere gli articoli di Bohm, per poi approdare a quelli di Bell. Alla Columbia non c’era nessuno che fosse interessato a queste cose, e con cui poterne discutere. Alla fine superò l’esame, conseguì il dottorato, e accettò un posto a Berkeley per lavorare nel laboratorio del premio Nobel Charles Townes. Nel frattempo aveva trovato un modo per verificare sperimentalmente le diseguaglianze di Bell, e Townes era abbastanza interessato all’argomento da permettergli di usare le risorse del laboratorio, nonché da assegnargli come assistente a tempo parziale un altro fisico sperimentale, Stuart Freedman. L’innovazione importante introdotta da Clauser fu di non usare elettroni per l’esperimento: gli effetti dovuti alla loro carica elettrica avrebbero infatti sovrastato i sottili effetti cercati. Usò invece la luce.
I fotoni, che sono i quanti di luce, hanno spin; più precisamente, spin 1. Dunque, se si produce una coppia di fotoni quantisticamente non separabili, in teoria si può misurare la correlazione dei loro spin. Clauser ricavò una nuova versione della disuguaglianza di Bell, opportunamente adattata a questo caso, tenendo anche conto di alcune delle limitazioni di un esperimento reale. All’insaputa di Clauser, la stessa cosa era stata fatta anche da un gruppetto di fisici della costa orientale degli Stati Uniti guidato dal fisico e filosofo Abner Shimony, della Boston University, coadiuvato dal suo studente Michael Horne e da Richard Holt, un fisico della Harvard. I due gruppi di fisici decisero di collaborare e nel 1969 pubblicarono un articolo congiunto,15 destinato a diventare un riferimento standard per gli studi nel settore.
Nel frattempo, a partire da queste idee, Clauser e Freedman stavano preparando il loro esperimento. Il primo problema fu: in che modo si producono coppie di fotoni correlati? Un’idea fu di sfruttare l’annichilazione dell’elettrone con la sua antiparticella, il positrone. È un processo che in effetti dà luogo a una coppia di fotoni correlati - ma i positroni sono difficili da reperire in gran quantità. Decisero quindi di utilizzare una certa transizione atomica del calcio. Nel 1972 i due annunciarono pubblicamente il risultato, che concordava con la meccanica quantistica. Gli esperimenti furono continuati da un francese, Alain Aspect, i cui risultati di altissima precisione concordano senza alcun dubbio con la teoria dei quanti. Per la maggior parte dei fisici questo esclude una volta per tutte la possibilità che una teoria locale a variabili nascoste riesca a riprodurre le previsioni della meccanica quantistica.
Bell, naturalmente, seguiva questi sviluppi con grande interesse - ma con lui diverse altre persone, molte delle quali non addette ai lavori. Bell avrebbe potuto facilmente diventare un guru alla Bohm. Ma non era nel suo carattere, e dunque si limitò a osservare tutto quanto con un atteggiamento che definirei stoicamente divertito. Tenne molte conferenze divulgative, e trovò l’analogia adatta per introdurre l’argomento a un pubblico più vasto: i gemelli identici separati alla nascita. Una ricerca aveva rivelato infatti che diverse coppie, ritrovatesi in età adulta, avevano scoperto di avere un numero considerevole di cose in comune, compresa la marca di sigarette preferita. Il fenomeno ha una spiegazione: i due gemelli hanno gli stessi geni. Ma come spiegare le correlazioni tra fotoni o elettroni «non separabili» posti a grande distanza l’uno dall’altro? Se si accetta l’interpretazione usuale della meccanica quantistica, la spiegazione non c’è.
Oggi il teorema di Bell sembra aver travalicato i confini della fisica. Ogni tanto vado a curiosare tra le migliaia di siti di ogni genere che parlano del teorema. È un calderone molto eterogeneo. Ecco due esempi. C’è un sito delizioso, chiamato Kids.Net.Au,16 in cui si trova la seguente frase: «Nel 1964 [Bell] dimostrò che la meccanica quantistica richiede la trasmissione di segnali superalluminali [?]». Il punto interrogativo è nell’originale. Un altro sito proclama: «Terapia sciamanica: perché funziona».17 Ecco un paio di citazioni: «Logorato dai conflitti tra Einstein e Bohr sul significato ultimo della meccanica quantistica, sottoposto a ulteriore tensione da parte del teorema di Bell, e infine completamente lacerato dalle recenti prove sperimentali, l’intero tessuto della rappresentazione materialistica della realtà è ormai da buttare», e «Questo significa che lo sciamanismo ha finalmente una spiegazione fondata sulla fisica moderna. Gli sciamani possono modificare la realtà locale grazie ad aiutanti spirituali che agiscono a livello quantistico. Questo si ottiene mediante un rituale, in cui la coscienza dello sciamano, in uno stato alterato dell’essere, si concentra intensamente su un obiettivo singolare. Per esempio “Togli questo cancro da questo malato”».
Una volta chiesi a Bell quale fosse secondo lui il problema della teoria dei quanti. Rise e rispose che, se l’avesse saputo, qualche passo verso la soluzione l’avrebbe fatto.