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DOPPIA FENDITURA

 

 

 

Esamineremo un fenomeno che è impossibile, assolutamente impossibile spiegare in qualsiasi modo classico, e che sta al cuore della meccanica quantistica. In realtà è l’unico mistero.

RICHARD FEYNMAN1

 

Il mondo delle particelle è il mondo ideale dell’agente segreto. Un elettrone può essere contemporaneamente qui о là, si può scegliere. Può andare da qui a là senza passare da luoghi intermedi; può passare da due porte contemporaneamente, oppure andare da una porta all’altra usando un cammino potenzialmente visibile a tutti, a meno che qualcuno guardi, nel qual caso l’atto di osservare gli ha fatto prendere un cammino diverso. I suoi movimenti non possono essere predetti, perché non ha motivazioni. Elude ogni sorveglianza perché quando si sa che cosa fa non si può esser certi di dove sia, e quando si sa dov’è non si può esser certi di che cosa stia facendo: è il principio di indeterminazione di Heisenberg; e questo non perché non si è abbastanza accurati nell’osservare, ma perché non esiste un elettrone che abbia una posizione definita e una quantità di moto definita: se se ne fissa una si perde l’altra, ed è tutto fatto senza trucchi, è il mondo reale, è la veglia.

ТОМ stoppard, Hapgood2

 

 

 

Nell’autunno del 1947, a diciassette anni, entrai alla Harvard University come matricola. Non avevo idee precise sul mio futuro, a parte la certezza che non avrebbe avuto a che fare con la scienza. Era un settore per cui non nutrivo alcun interesse. Ma all’epoca il preside dell’università era James Bryant Conant, un chimico che aveva avuto un ruolo molto importante nella creazione delle armi nucleari. L’esperienza gli aveva lasciato una notevole preoccupazione per la presenza di questa nuova forza nel mondo. Una manifestazione di questa preoccupazione era l’idea che ogni laureato alla Harvard dovesse avere un certo grado di formazione scientifica. Sapeva, naturalmente, che la maggior parte di noi non avrebbe intrapreso una carriera scientifica; tuttavia le nostre carriere avrebbero benissimo potuto implicare decisioni legate in qualche modo alla scienza. Perciò alla voce «cultura generale» fu istituita una serie di corsi di scienze che fornivano un’illustrazione generale, non matematica, di diversi settori scientifici. Ogni laureando (non c’erano laureande) doveva superarne uno solo, a meno che non intendesse specializzarsi in una materia scientifica. Doveva anche essere in grado di fare due vasche consecutive da 25 metri a nuoto. In vista del primo ostacolo, consultai la Harvard Confidential Guide to Courses, un libercolo stampato e venduto dal giornale degli studenti - lo «Harvard Crimson» - per scoprire quale dei corsi fosse considerato il più facile. Il voto degli studenti che avevano frequentato i vari corsi e confrontato i loro appunti era unanime: era Scienze Naturali III, tenuto dallo storico della scienza I. Bernard Cohen.

A onor del vero devo ammettere che al liceo avevo seguito un corso di fisica. Ho rovistato nella memoria per cercare di ricordare qualcosa che avessi appreso in quel corso, ma ho trovato il vuoto totale. Quello era stato il mio unico contatto con la fisica al liceo; avevo seguito anche i corsi obbligatori di matematica, nei quali me la cavavo bene. Se qualcuno mi avesse detto che esistevano fisici e matematici professionisti che facevano quel tipo di cose come lavoro, non ci avrei creduto. Non avevo mai conosciuto una persona del genere. Naturalmente avevo sentito parlare di Einstein, ma non avevo idea di che cosa facesse in pratica. Né avevo alcuna curiosità scientifica. Racconto tutto questo per spiegare che tipo di studente io fossi quando iniziai a seguire Scienze Naturali III.

Cohen era un ottimo insegnante per studenti di quel livello (ce n’erano circa un centinaio). Aveva una voce profonda e corposa, e una grafia tonda e rassicurante quando scriveva alla lavagna. Cominciammo dai Greci, per arrivare a Copernico, Galileo e infine Newton. Cohen era un esperto di Newton, perciò ne studiammo la vita. Per la prima volta mi resi conto di quanto fosse strano. La sua opera maggiore, i Principia, scritta alla fine del diciassettesimo secolo, fu presentata di proposito in modo da essere accessibile solo agli studiosi. È scritta in latino e usa argomentazioni geometriche che avrebbero potuto essere sostituite da dimostrazioni molto più semplici usando l’analisi infinitesimale - inventata dallo stesso Newton. Prima della pubblicazione, Newton ebbe una sgradevole disputa con Robert Hooke per la priorità nella scoperta della legge di gravitazione universale. In precedenza i due avevano avuto un analogo litigio riguardo ai loro studi sulla luce. Invece Ottica, pubblicato da Newton nel 1704, è un genere di libro molto diverso.

Innanzitutto è scritto in inglese, e lo stile è piacevole quanto poteva esserlo quello di Newton. Buona parte è dedicata agli esperimenti di ottica condotti da lui stesso, compreso quello con il prisma in cui dimostrava che la luce bianca è in realtà una miscela di molti colori. Se nei Principia Newton aveva evitato di speculare sulla natura ultima delle cose, in Ottica lo fa. Nel libro [nell’edizione del 1718] compare la famosa Questione 31, nella quale Newton parla dell’ipotesi atomistica:

 

Considerate tutte queste cose, mi sembra probabile che Dio al principio del mondo abbia formato la materia di particelle solide, compatte, dure, impermeabili e mobili, dotate di date dimensioni e figure, di date proprietà e di date proporzioni rispetto allo spazio, affinché meglio tendessero al fine per il quale egli le aveva formate. Queste particelle originarie, essendo solide, sono incomparabilmente più dure di qualsiasi corpo poroso da esse composto; anzi, tanto perfettamente dure, da non poter mai consumarsi o infrangersi: nessuna forza comune essendo in grado di dividere ciò che Dio, al momento della creazione, ha fatto uno. Finché le particelle rimangono intere, possono comporre in ogni tempo corpi della medesima natura e con la medesima struttura: ma se esse dovessero venire diminuite o infrante, la natura delle cose che ne dipendono verrebbe mutata. L’acqua e la terra composta da vecchie e deteriorate particelle e da frammenti di particelle non avrebbero oggi la stessa struttura dell’acqua e della terra se queste in principio fossero state composte di particelle intere. Di conseguenza, affinché la natura possa durare, i mutamenti degli oggetti corporei devono consistere soltanto nelle diverse separazioni, ricongiunzioni e movimenti di queste particelle permanenti: i corpi composti tendendo a spezzarsi non nel mezzo delle particelle solide, ma nel luogo in cui queste particelle sono unite insieme, e si toccano soltanto in pochi punti.3

 

È chiaro che, quando si trattava di oggetti materiali, Newton era un atomista duro e puro. Riguardo alla luce, invece, mi pare che fosse un poco più sfumato. Scrive: «Nei primi due libri di questa Ottica ho usato il metodo analitico per ricercare e provare le originarie differenze dei raggi di luce riguardo la rifrangibilità, la riflessibilità e il colore, i loro alterni impulsi alla facile riflessione e alla facile trasmissione, le proprietà dei corpi opachi e trasparenti, dalle quali dipendono la riflessione e i colori».4 Non sono sicuro del significato da attribuire agli «impulsi alla facile riflessione e alla facile trasmissione», ma non mi suona come una semplice rappresentazione corpuscolare, anche se è così che Newton fu poi interpretato. A questo punto di vista si contrapponeva in primo luogo quello di Hooke, il quale sosteneva che la luce era un’onda. Maggiormente significativo fu però il lavoro di Christian Huygens (o Hugens), il grande contemporaneo olandese di Newton che gli fece visita nel 1689, prima della pubblicazione dell’Ottica. Non so se in quell’occasione i due discussero della natura della luce. Huygens pubblicò, nel 1690, in francese, il suo trattato sulla luce (Traité de la lumière), in cui proponeva che la luce fosse costituita dall’oscillazione di onde in un medio etereo. Ciò che non prendeva in considerazione era il fenomeno dell’interferenza. Quando due onde s’incontrano, possono rafforzarsi a vicenda o interferire distruttivamente. Le «onde» di Huygens erano in realtà treni di impulsi e non onde come le intenderemmo oggi.5 Entrambi i concetti di luce riuscivano tuttavia a spiegare le osservazioni disponibili all’epoca. Tutto cambiò con gli studi dell’eclettico inglese Thomas Young all’inizio dell’Ottocento. È a lui che dobbiamo l’idea che le onde luminose possano interferire tra loro.

Nel corso degli anni ho incontrato un certo numero di persone che definirei geni. Ho preso un tè con Schrödinger nel suo appartamento di Vienna, e ho avuto l’opportunità di mostrare quella città a Dirac. Quando ero al liceo mi trovai in compagnia di Duke Ellington. Ho già raccontato del pranzo memorabile con W.H. Auden. Infine, quando ero studente a Harvard ebbi l’opportunità di fare una domanda a John von Neumann: le macchine calcolatrici avrebbero mai sostituito il matematico umano? La sua risposta fu: «Non preoccuparti, figliolo». Ciò che queste persone avevano in comune era la capacità di fare con apparente facilità quello che alla maggior parte di noi riesce del tutto impossibile. Secondo questo o qualunque altro criterio, Thomas Young era un genio.

Nato nel 1773 da una famiglia quacchera inglese a Milverton, nel Somerset, all’età di quattordici anni non solo sapeva il greco e il latino, ma conosceva le basi di francese, italiano, ebraico, caldeo, siriano, samaritano, persiano, turco e amarico. In seguito diede importanti contributi alla decifrazione dei geroglifici egiziani, poi completata dal linguista francese Jean-François Champollion nel 1822. Young, che era diventato benestante e indipendente, studiò medicina a Londra e diede contributi significativi alla pratica medica. Ma non è questo che lo rese immortale per i fisici. Prima della fine del secolo iniziò a fare esperimenti di fisica, e descrisse quelli sulla luce nella sua Bakerian Lecture del novembre 1801, conferenza che tenne davanti alla Royal Society, di cui era membro dal 1794. Furono questi esperimenti a persuadere la maggior parte dei fisici che Huygens aveva ragione: la luce è un’onda.

L’esperimento descritto nella Bakerian Lecture non è quello che viene spiegato generalmente agli studenti. Quello venne dopo. In questo, realizzato in realtà per la prima volta da Newton, Young praticò un foro quadrato in un cartoncino. La larghezza del foro, scrive, era «66/1000» di pollice [circa 1,77 mm]. Al cartoncino fissò un capello (del diametro di 1/600 di pollice) teso attraverso il foro e diretto verticalmente. Quindi proiettò sull’apparato la luce di una candela (oggi useremmo un laser, che produce un fascio concentrato). Il capello divideva il fascio di luce in due parti. A me vengono in mente quelle corse ciclistiche in cui il gruppo di corridori viene diviso in due da uno spartitraffico in mezzo alla strada; dopo lo spartitraffico i due flussi si riuniscono e a tutti gli effetti il gruppo appare identico a prima. Questo è ciò che predirebbe la teoria corpuscolare della luce, ma non è ciò che osservò Young. Di là dal capello si vedevano frange chiare e scure, e Young ne capì subito le implicazioni: c’era di mezzo l’interferenza delle onde luminose. In seguito ripeté l’esperimento con due forellini al posto del capello, e ottenne risultati analoghi. È questo l’esperimento della «doppia fenditura» di Young. Tutto questo, spiegato da Cohen a lezione, era interessante, ma non cambiava la vita. Al contrario di ciò che avvenne dopo.

Verso la fine del primo semestre Cohen tenne un paio di lezioni sulla teoria della relatività. Rimasi sconvolto. L’idea che la velocità della luce fosse un limite universale e che ogni osservatore in moto uniforme avrebbe misurato la stessa velocità era per me incredibile. C’era anche la storia che gli orologi in moto sembrano andare più piano a un osservatore in quiete. Anche questo mi sembrò assurdo. Ma che stava dicendo? Disse anche - credo per scherzare, ma allora io non la interpretai così - che in tutto il mondo c’erano solo dieci, o forse dodici, persone in grado di capire la teoria. Molto più tardi seppi che il grande astronomo britannico Arthur Eddington, autore negli anni Venti di un’importante monografia sulla relatività, quando gli fu chiesto se fosse vero che solo tre persone al mondo la capivano rispose: «Chi è il terzo?». Eddington si riferiva certamente alla teoria generale della relatività e della gravitazione di Einstein, che all’epoca era oscura alla maggior parte delle persone. In ogni caso, con tutta la folle audacia di cui è capace una matricola di Harvard, decisi di diventare l’undicesima, o tredicesima, persona. Non avevo idea che vi fossero una teoria ristretta e una generale. Il mio piano era: trovare un libro che la spiegasse.

Non solo non avevo la minima base, matematica e non: non sapevo nemmeno che cosa significasse «capire» una cosa come la relatività. Al liceo avevo studiato spagnolo, perciò sapevo che cosa voleva dire capire un brano in spagnolo: lo si traduceva in inglese, lingua che presumibilmente si «capiva». Se si incontrava una parola difficile, la si cercava in un dizionario, dove veniva «definita» in termini di parole che si «capivano». Se si trattava di poesia, «capire» voleva dire essere in grado di descrivere in prosa il significato dei versi. In geometria si intendeva invece la capacità di dimostrare qualcosa a partire dagli assiomi, magari con l’aiuto di diagrammi. Ma che cosa significa capire la teoria della relatività, o anche la meccanica quantistica? Non certo essere in grado di «spiegare» la teoria in termini della teoria che la precedeva. Casomai il contrario. Sia come sia, andai alla Widener Library per cercare un libro.

Pensai, già che c’ero, di prendere un libro di Einstein, dato che lui sicuramente la teoria la capiva. Ce n’erano un paio, e ne scelsi uno intitolato Il significato della relatività: il titolo mi piaceva. Una scelta peggiore non l’avrei potuta fare. Il libro è basato su una serie di lezioni tenute per un pubblico di specialisti nel 1921 a Princeton, anche se in seguito ci sono state edizioni rivedute. E molto complesso e contiene molta matematica. A parte la frase iniziale «la teoria della relatività è intimamente connessa alla teoria dello spazio e del tempo», non ci capii praticamente nulla.6 Avrei potuto arrendermi; andai invece da Cohen. Questi avrebbe potuto liquidarmi come la solita matricola sciocca, ma non lo fece. Mi disse che nel secondo semestre ci sarebbe stato un corso circa allo stesso livello del suo e dedicato alla fisica moderna; a tenerlo sarebbe stato tale Philipp Frank, che era amico personale di Einstein e ne aveva appena scritto una biografia. Cohen mi disse che non avrebbe obiettato se avessi seguito il corso contemporaneamente al suo, e dunque mi iscrissi.

Le lezioni si svolgevano per due ore alla settimana, mi pare il mercoledì pomeriggio, nella grande aula da conferenze del Jefferson Physical Laboratory. Quando mi presentai alla prima lezione, l’aula era colma; appresi in seguito che molti venivano ad assistere anche da altre università della zona. Che aspetto avrebbe avuto il professor Frank? Quando lo vidi, mi sembrò perfetto per la parte: era piccoletto, leggermente claudicante, e i pochi capelli rimasti gli formavano una specie di aureola attorno alla testa. Il suo accento non era facile da identificare: era nato a Vienna (nel 1884) ma aveva vissuto a Praga a partire dal 1912, anno in cui era succeduto a Einstein all’università tedesca (la Karl-Ferdinands-Universität), e lì era rimasto fino al 1938. Si era poi trasferito negli Stati Uniti, dove la Harvard University gli aveva confezionato un incarico pressappoco su misura. Conosceva un sacco di lingue, compreso il persiano, che aveva studiato al liceo a Vienna. Io me le immaginavo stratificate l’una sull’altra, come le rovine sepolte di Troia: quando parlava inglese, i frammenti delle altre lingue facevano capolino. Il professor Frank faceva lezione per un’ora, dopodiché faceva quella che chiamava «una piccola pausa», al termine della quale rispondeva a eventuali domande o approfondiva qualche argomento, «per chi sa un po’ di matematica».

Il corso iniziava dalla Grecia antica. Imparammo che gli astronomi greci erano votati all’idea che i corpi celesti fossero attaccati a sfere in moto di rotazione uniforme. Questo però era in contraddizione con i fatti. I pianeti, per esempio, periodicamente sembrano muoversi all’indietro. Per spiegare questo e «salvare le apparenze», gli astronomi collocarono i pianeti su sfere che ruotavano uniformemente attorno ad altre sfere - i cosiddetti epicicli. Anche Cohen ci aveva parlato di questo, ma Frank aggiunse una nuova considerazione. Keplero aveva sostituito tutto questo con singole orbite ellittiche, ma Frank fece osservare che lo stesso moto si può sempre riprodurre come serie di moti circolari uniformi, e quindi i due modelli non si possono distinguere, se l’unica cosa che interessa è la descrizione del moto osservato. Ci sono però altri criteri, come la semplicità o l’«eleganza». Arrivato a Newton, il professor Frank spiegò la storia della mela che cade. Immaginiamo una mela su un albero tanto alto da arrivare alla Luna, disse: anche la Luna, allora, è come una mela sull’albero, e deve cadere anch’essa sotto l’azione della gravità terrestre. Fu quindi la volta della relatività.

Il professor Frank spiegò il principio di relatività, formulato per la prima volta da Galileo: le leggi della fisica sono le stesse per osservatori in quiete e per osservatori in moto uniforme rispetto ai primi. Anzi, gli osservatori in moto possono tranquillamente sostenere di essere loro a trovarsi in stato di quiete. Ci raccontò che Einstein fin da ragazzo aveva pensato che questo doveva essere vero per tutte le leggi della fisica, ma si era accorto di una contraddizione. Se fosse riuscito a viaggiare alla velocità della luce, infatti, avrebbe potuto cavalcare un’onda luminosa; in tal caso questa non gli sarebbe più apparsa come un’onda, e lui avrebbe quindi saputo di essere in moto alla velocità della luce, in violazione del principio di relatività. Gli ci vollero molti anni per risolvere infine il paradosso. Impossibile, in relatività, viaggiare alla velocità della luce.

Il professor Frank aveva un modo semplice di spiegare le trasformazioni che portano da un sistema di coordinate a un altro in moto uniforme rispetto al primo; l’ho usato spesso anch’io, nelle mie lezioni sull’argomento. Frank ci raccontò anche un aneddoto divertente. Era stato a trovare Einstein, a Berlino, qualche anno dopo che questi aveva pubblicato il suo libro divulgativo sulla relatività.7 All’epoca Einstein si era già sposato per la seconda volta e viveva con le due figliastre, una delle quali era presente in occasione della visita di Frank. Durante la conversazione Einstein disse che il suo libro era talmente semplice che lo capiva anche la ragazza. Quando Einstein si assentò momentaneamente dalla stanza, Frank le chiese se davvero aveva capito il libro, e lei rispose di sì: aveva capito tutto, tranne che cosa fosse un sistema di coordinate.

Dopo la relatività, il professor Frank ci parlò della luce. Ci raccontò l’esperimento della doppia fenditura di Young e osservò che se Young avesse avuto un’attrezzatura più moderna avrebbe visto comportamenti ondulatori anche usando una fenditura singola. Ci sarebbe stato un massimo di intensità davanti alla fenditura, accompagnato però da picchi più deboli ai lati, regolarmente spaziati: un profilo che avrebbe ricordato un monte affiancato da vette secondarie a entrambi i lati. Tutto questo dimostrava che in questi esperimenti la luce si comportava come un’onda. Ma poi il professor Frank ci raccontò di uno degli articoli che Einstein pubblicò nel 1905 - quello per cui vinse il premio Nobel -, nel quale sosteneva che, in assetti sperimentali di altro tipo, la luce avrebbe avuto un comportamento corpuscolare. In particolare, proiettando luce su una superficie metallica, da questa si sarebbero liberati elettroni, per il cosiddetto effetto fotoelettrico. Si tratta di un fenomeno che si poteva prevedere anche con la fisica classica, ma ciò che Einstein proponeva era che l’energia di questi elettroni liberati non dipendesse dall’intensità della luce incidente, bensì solo dal colore. Più la luce era violetta, più energetici sarebbero stati gli elettroni. In questi esperimenti la luce si comporta come un flusso di particelle - i quanti - la cui energia è proporzionale alla frequenza della radiazione. Il professor Frank spiegò che se l’intensità della luce viene diminuita fino a farla consistere di un solo quanto, questo è ancora in grado di fornire l’energia necessaria per liberare un elettrone. Che cos’è la luce? Onda o particella? È entrambe le cose, e nessuna delle due. Fu quindi il turno degli elettroni.

Il professor Frank ci parlò dell’idea, proposta da Louis de Broglie, che in certe condizioni gli elettroni esibiscano un carattere ondulatorio. Ci raccontò degli esperimenti - analoghi a quelli di Young - in cui gli elettroni venivano diretti contro un reticolo di fenditure, e quindi raccolti da un rivelatore, su cui si potevano osservare righe di intensità massima e minima come quelle misurate da Young con la luce. Che cos’erano gli elettroni: onde, particelle, entrambe le cose, nessuna delle due? Gli elettroni, disse il professor Frank, sono elettroni. Ma poi propose un esperimento concettuale - mai realizzato in pratica, disse (oggi invece è stato attuato).8 Supponiamo di praticare una doppia fenditura in una parete, e di usare un fascio di elettroni così debole da far sì che un solo elettrone alla volta attraversi il sistema. Che cosa accadrebbe? Se entrambe le fenditure fossero aperte, spiegò Frank, col passare del tempo - almeno stando alla teoria dei quanti - il flusso di elettroni, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe per particelle, darebbe luogo sul rivelatore a una distribuzione diversa dalla somma delle due distribuzioni a fenditura singola: si avrebbe una figura di interferenza da fenditura doppia. Non c’è modo di prevedere il punto di arrivo di un elettrone ma, usando la teoria, si può prevedere dove è più probabile che impatti.

Già questo per me era sorprendente, ma ciò che seguì fu ben più che sorprendente, e mi convinse a dedicarmi alla fisica. Supponiamo di chiudere una delle due fenditure lasciando passare gli elettroni attraverso l’altra a uno a uno. Che cosa accadrebbe? La figura di interferenza da doppia fenditura sparirebbe, e poco alla volta si formerebbe una figura di fenditura singola. La domanda che subito mi sorse spontanea fu: come fa il singolo elettrone a «sapere» che l’altra fenditura è stata chiusa? Da dove arriva l’informazione? Oggi so che la meccanica quantistica non risponde a questa domanda che, in realtà, non è la domanda corretta da porsi. Ma all’epoca non lo sapevo: rimasi completamente frastornato e decisi che dovevo saperne di più. Iniziò così il mio lungo corso di studi, terminato con un dottorato in fisica.9

Spesso mi sono chiesto se oggi i giovani, al loro primo contatto con la meccanica quantistica, provino lo stesso senso di stupore che provai io. Dopo tutto, quando la imparai io, la teoria aveva solo una ventina d’anni; tutti i suoi fondatori c’erano ancora, facevano lezioni e scrivevano. Ora la teoria ha ben più di mezzo secolo. Che cosa fanno i giovani, ne accettano semplicemente le regole e vanno avanti? Quel che so è che qualche non addetto ai lavori prova questo senso di stupore - anche se, o soprattutto se, non capisce davvero la teoria. Ma ne ha assorbito abbastanza da farla entrare nella propria fantasia creativa. Un esempio molto interessante è il commediografo Tom Stoppard.

Proseguendo sulla linea della totale sincerità, devo confessare di essere uno stoppardiano convinto: commedie come Acrobati o I mostri sacri sono champagne per il mio intelletto; la miscela di idee e giochi di parole è per me irresistibile. Nell’autunno del 1994 ricevetti una telefonata da parte di una tale Anna Cattaneo, che si presentò come redattrice di una rivista chiamata «New Theater Review» (oggi «Lincoln Center Theater Review») e mi informò che il Lincoln Center stava allestendo una commedia di Stoppard intitolata Hapgood, che aveva debuttato a Londra nel 1988. Mi disse anche che la pièce in qualche modo aveva a che fare con la meccanica quantistica. Avevo letto qualcosa al riguardo, e ne ero rimasto incuriosito: Stoppard e la meccanica quantistica - che accoppiata! La donna continuò dicendomi che la rivista stava preparando un numero dedicato a quel lavoro e alle sue implicazioni scientifiche, e mi chiese se volevo collaborare. Aggiunse che avrebbe collaborato anche l’autore. La prospettiva di dividere la scena con Stoppard era irresistibile, e quindi accettai. La prima cosa che feci fu acquistare una copia della commedia.

Hapgood è sia il titolo della commedia sia il cognome della protagonista; il nome, che non è quasi mai menzionato, è Elizabeth - Lilja in russo. Lilja è una spia, anzi il capo di una congrega di spie dalle quali è soprannominata «la mamma». Sono tutte inglesi tranne una, il russo Joseph Kerner. È stata Hapgood a convertirlo, ma nel corso della conversione si è lasciata un po’ prendere la mano, è rimasta incinta. Il figlio, Joe, è un adolescente che ignora chi sia suo padre; è molto più interessato a giocare a rugby. Parte della commedia si svolge durante i campionati scolastici. Kerner lavora al cern, il laboratorio per la fisica delle particelle nei pressi di Ginevra. Si sta occupando di un missile terra-aria che comporta l’uso di antimateria (il che è solo di poco più assurdo rispetto ad altri programmi antimissile di cui ho sentito parlare). L’intreccio è complicato fra l’altro dal fatto che Kerner passa queste informazioni, o una parte di esse, ai russi. Periodicamente tiene brevi lezioni sulla meccanica quantistica e sulla sua importanza nel comportamento umano. Schrödinger aveva già avuto non poche difficoltà ad applicare la teoria ai gatti, figuriamoci all’uomo. Tra breve commenterò in dettaglio una di queste lezioni, ma prima fatemi dire qualcosa su come Stoppard sembra essersi avvicinato all’argomento. Ciò che conosco io è quel che scrisse sul «New Theater Review» - un articolo che intitolò The Matter of Metaphor. Il mio articolo, che veniva dopo il suo, era intitolato A Trick of Light e copriva alcuni degli argomenti che ho trattato qui, sebbene con molto minor dettaglio.

Scrive Stoppard: «La scienza per i non addetti ai lavori è un settore in pieno boom editoriale, e lo stesso Hapgood è frutto di una dozzina di libri sulla fisica quantistica scritti per il grande pubblico. Se c’è un esponente tipico del grande pubblico, quello sono io. Non sono nemmeno uno scienziato in pectore, né certamente uno scienziato frustrato. Anzi, probabilmente è dovuto alla mia generale carenza di istruzione scientifica il fatto che l’immagine centrale di Hapgood - la natura duale della luce - mi abbia entusiasmato tanto quando finalmente ho appreso le nozioni con cui chiunque sia rimasto nel campo della fisica dopo il liceo ha tanta dimestichezza da sfiorare la noia».10 «Tanta dimestichezza da sfiorare la noia» non descrive esattamente la mia esperienza personale, come ho cercato di spiegare.

«Naturalmente mi ha entusiasmato per le potenzialità metaforiche» continua Stoppard. «Hapgood non “parla” di fisica, ma di dualità. Anzi, no - è il commediografo, ora, che corregge il critico in me - Hapgood non parla di dualità, naturalmente: parla di una donna di nome Hapgood e di quel che le successe tra mercoledì mattina e sabato pomeriggio nel 1989, appena prima del crollo del muro di Berlino».

«In realtà,» prosegue Stoppard «la storia ha molto più a che fare con lo spionaggio che con la fisica, ma non mi schermirò da eventuali complimenti per una commedia che contiene un fisico plausibile, perché la sorgente iniziale della commedia è proprio la scienza; è stato solo nel guardarmi attorno per cercare una metafora nel mondo reale che mi sono imbattuto nel mondo di agenti e doppiogiochisti di Le Carré. Prima è venuta la fisica, e poi la donna di nome Hapgood».

E aggiunge: «Tra parentesi, mentre molti dei fisici che hanno visto la commedia si sono sperticati nell’elogiarne la generale veridicità, John Le Carré, che nel frattempo avevo conosciuto di persona e, se ben ricordo, aveva avuto da me i biglietti per la rappresentazione, riuscì a evitare di farvi alcun accenno da quel momento in poi, cosa che io apprezzai immediatamente come il massimo della cortesia».11

Stoppard non ci dice chi erano i fisici che lodarono la «generale veridicità» della commedia, né se l’avessero letta, oltre che vista: le cose scorrono piuttosto velocemente in una rappresentazione teatrale. Non ci dice nemmeno quali libri divulgativi aveva letto; sarebbe interessante saperlo. Di sicuro deve aver dato un’occhiata alle Feynman Lectures perché ne riprende dei passi nella prefazione dell’edizione a stampa di Hapgood. Un po’ come me quando mi illudevo di imparare qualcosa sulla relatività dalle lezioni di Princeton di Einstein. Il corso di Feynman era indirizzato a studenti non laureati del California Insti tute of Technology (Caltech). Dato che Feynman era Feynman, le lezioni erano piene di idee originali, ma molto tecniche. Dicono che gli studenti le trovassero ostiche, mentre i docenti, che assistevano a frotte, andavano in visibilio. Sono l’ultima cosa che consiglierei a un profano che volesse farsi un’idea della meccanica quantistica. Ho saputo anche che Stoppard è stato al Caltech ed è rimasto seduto per un po’ nello studio vuoto di Feynman - un fenomeno di osmosi?

Ciò che vorrei fare ora è analizzare pezzo per pezzo una delle mini-lezioni di Kerner sulla fisica quantistica. Lo faccio nello spirito dei seminari presieduti da Bohr, il quale spesso e volentieri interrompeva gli oratori, precisando ogni volta di non essere lì per criticare, bensì per imparare.

Kerner sta parlando con Paul Blair, un altro agente; questi gli ha appena rivelato che la sua copertura come doppiogiochista è saltata. Kerner, che è arrivato alla fine della carriera («ma non quella di scienziato»), sostiene che un agente doppiogiochista non è come una giraffa, cioè qualcosa di ben definito, ma simile piuttosto a un «gioco di luce». Poi spiega: «Guarda. [indica] Guarda il contorno dell’ombra: è rettilineo come lo spigolo del muro che la proietta. Questo significa che la luce è fatta di particelle, piccoli proiettili. I proiettili procedono in linea retta, non possono curvare attorno a un muro come fa l’acqua attorno a un sasso nel fiume».

Mi sorprende che nessuno dei fisici con cui Stoppard era in contatto gli abbia fatto presente che questa affermazione sulla luce è completamente sbagliata. Già nel Seicento si era osservato che le ombre non sono mai perfettamente nitide. Hooke e Huygens ne avevano dedotto che la luce ha una natura ondulatoria, che si manifesta appunto in effetti di questo genere. Le onde luminose possono interferire tra loro; le particelle, per come le concepiamo di solito, no. Quando Einstein scrisse il suo articolo del 1905 in cui sosteneva che la luce in certe circostanze poteva esibire un comportamento corpuscolare, cominciò spiegando come questo fosse possibile nonostante tutte le prove del suo carattere ondulatorio. Fu così che nacque l’idea della complementarità nella natura della luce.

Il dialogo continua:

 

blair: [irritato] Sì, certo.

kerner: Ecco il punto. Quando si proietta della luce attraverso una fenditura nella parete, è fatta di particelle. Purtroppo però, quando la si proietta attraverso due piccole fenditure affiancate non si ottiene un’immagine corpuscolare come con proiettili, se ne ottiene una ondulatoria come con l’acqua. I due fasci di luce si mescolano e…

 

Ho già spiegato che se si fa l’esperimento della singola fenditura con la luce, ma anche con gli elettroni, sullo schermo si ottengono frange chiare e scure. Questo succede perché diversi punti della fenditura producono onde che interferiscono tra loro. Anche nel caso della fenditura singola sorge la domanda che mi aveva turbato da matricola. Supponiamo di far passare gli elettroni uno alla volta: ogni elettrone colpirà lo schermo in un punto, ma l’effetto cumulativo sarà quello di ricreare la figura a frange chiare e scure. Come fa il singolo elettrone a saperlo? Come fa a sapere dove andare per fare la sua parte nel costruire questa figura collettiva?

La meccanica quantistica convenzionale ha una risposta, che certo all’epoca non mi avrebbe soddisfatto. Ma ora ci ho fatto l’abitudine. L’equazione formulata da Schrödinger ha come una soluzione una funzione dello spazio e del tempo. Se si prende questa soluzione e ne si fa il quadrato, si ottiene la probabilità di trovare l’elettrone in un dato punto a un dato istante.12 Dove è più grande il valore assoluto della funzione, lì si ha maggiore probabilità di trovare l’elettrone. Nulla nella teoria ci dice in che punto arriverà l’elettrone: si può sapere solo in quali punti è più probabile che arrivi. Questo è uno degli aspetti che turbavano Einstein. Turbava anche David Bohm, il quale diede la sua interpretazione alternativa della meccanica quantistica basata sulle onde guida: l’elettrone sa dove andare perché glielo dice l’onda guida.

Torniamo alla commedia. Blair chiede a Kerner da che parte sta:

 

blair: Joseph, voglio sapere se sei con noi o con loro, tutto qui.

kerner: Te lo sto dicendo, ma tu non ascolti. Ora viene la parte eccitante. Osserveremo i proiettili per vedere come fanno a comportarsi da onde. Non è difficile, l’apparato è semplice. Quindi guardiamo con attenzione e vediamo i proiettili, uno alla volta. Alcuni passano da una fenditura, altri dall’altra. Nessun problema. Ma ora viene la parte che mi piace di più. Il pacchetto di onde è sparito: è tornato corpuscolare.

 

Nel 1927, in occasione del centenario della morte di Alessandro Volta, si tenne a Como una conferenza a cui parteciparono i fisici più eminenti. La meccanica quantistica aveva pressappoco due anni di età; Heisenberg aveva appena pubblicato il suo principio di indeterminazione. Alla conferenza erano presenti sia Bohr sia Einstein. Bohr introdusse la sua idea di complementarità, ma Einstein aveva in serbo per lui una piccola sorpresa: un esperimento mentale con una doppia fenditura. La doppia fenditura era montata su rulli o ruote, rendendo mobile l’apparato. Supponiamo ora di scegliere, sullo schermo, un punto a sinistra di entrambe le fenditure. Se un elettrone passa, per esempio, per la fenditura di destra, per raggiungere il punto prescelto deve cambiare direzione, cioè variare la propria quantità di moto. Poiché la quantità di moto totale si conserva, l’apparato acquista la medesima differenza di quantità di moto cambiata di segno - rincula - e questo può essere rivelato, dato che la parete mobile si sposterà sulle sue ruote. Anche se l’elettrone passa per la fenditura di sinistra ci sarà una variazione di quantità di moto, ma inferiore, perché sarà minore la deviazione angolare necessaria. Misurando il rinculo dell’apparato si può quindi capire da quale fenditura è passato l’elettrone. Sembrerebbe dunque che in un unico esperimento sia possibile determinare simultaneamente sia l’aspetto corpuscolare sia quello ondulatorio dell’elettrone: l’aspetto ondulatorio si manifesterebbe con la figura di interferenza sul rivelatore. Ma Bohr trovò una risposta. La quantità di moto di rinculo dell’apparato deve essere misurata con una certa precisione, per avere un senso. Ma per il principio di indeterminazione di Heisenberg, l’accuratezza sulla posizione delle fenditure è limitata. Facendo i calcoli si vede che questa incertezza è maggiore della distanza tra due massimi consecutivi di intensità nella figura di interferenza. Le fenditure sono agli effetti pratici larghe quanto la figura di interferenza, dunque non c’è alcuna figura di interferenza e l’esperimento mentale di Einstein non funziona. Talvolta sui libri divulgativi si legge che questo esperimento dimostra che l’elettrone si può trovare in due posti contemporaneamente. L’elettrone è in un «posto» solo quando lo si osserva sullo schermo. Se qualcuno ci dice che si trova anche altrove, la risposta da dargli è: «Dimostramelo». Ricordiamo la frase di Kerner citata all’inizio del capitolo: «Un elettrone può essere contemporaneamente qui o là». «Qui o là» significa o l’uno o l’altro, non entrambi i luoghi. Eravamo arrivati al punto della commedia in cui Kerner afferma che la luce torna a essere corpuscolare.

 

blair: In che modo?

kerner: Nessuno lo sa. In qualche modo la luce è continua e anche discontinua. È lo sperimentatore a scegliere. Si ottiene ciò che si cerca…13

 

La domanda di Blair: «In che modo?» è esattamente il tipo di domanda che mi ero fatto da matricola e alla quale non c’è risposta, almeno nella meccanica quantistica. La fisica quantistica di Stoppard mi ricorda una conversazione che ebbi con Marvin Minsky quando eravamo entrambi studenti (in seguito lui divenne uno dei pionieri dell’intelligenza artificiale). Marvin mi mostrò un disegno fatto da lui che rappresentava un uccello. «Assomiglia a un uccello,» disse «ma nessun uccello è fatto così». La fisica di Stoppard assomiglia alla meccanica quantistica, ma la meccanica quantistica non è come la fisica di Stoppard.

Philipp Frank morì il 21 luglio 1966. All’università ci fu una commemorazione, e io ero uno degli oratori. C’era anche Hania, la vedova, che aveva sposato a Praga quando era una sua studentessa. Era una donna notevole e molto vivace, che aveva fatto parte di un circolo intellettuale tra i cui membri c’era anche Kafka. Ho un ricordo indelebile della telefonata che feci una sera per parlare con il professor Frank. Mi rispose Hania che, col suo accento inimitabile, disse: «Siamo qui riuniti a cantare canti popolari inglesi, e Philipp se n’è andato».