2
BUDDHISTI QUANTISTICI
La Crociera Quantistica vi farà sperimentare il vostro legame con il Campo Unificato attraverso la musica, il movimento, l’arte, il suono, le percussioni, le Immagini Quantistiche, e altri processi dinamici, divertenti e trasformativi. Integrate le vostre conoscenze intellettuali nelle molecole del vostro corpo fisico.
Sito internet della crociera «Quantum
Cruise»,
consultato il 10 gennaio 2006
La mia fiducia, nell’avventurarmi nella scienza, risiede nella mia fondamentale convinzione che tanto nella scienza quanto nel buddhismo la comprensione della natura della realtà è perseguita a mezzo dell’indagine critica: se l’analisi scientifica dovesse dimostrare senza ombra di dubbio che certe affermazioni del buddhismo sono false, dovremmo accettare questo fatto e abbandonarle.
DALAI LAMA1
Quando si sentono le descrizioni delle particelle subatomiche, come i quark e i leptoni in fisica moderna, appare evidente che le antiche teorie atomistiche buddhiste e la loro concezione delle più piccole particelle indivisibili di materia sono tutt’al più modelli grezzi. Tuttavia l’idea fondamentale dei teorici buddhisti che perfino i più minuti costituenti della materia si debbano pensare come compositi era apparentemente sulla strada giusta.
DALAI LAMA2
Il 30 agosto 1983 il Dalai Lama visitò il CERN accompagnato da una delegazione di monaci tibetani. L’acronimo cern sta per Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire, anche se oggi nella denominazione ufficiale «Conseil» è stato sostituito da «Organisation». Il cern, che si trova al confine tra Francia e Svizzera nei pressi di Ginevra, è il più grande laboratorio del mondo dedicato alla fisica delle particelle elementari. È un’organizzazione internazionale in tutti i sensi, anche se a quanto ne so non ci ha mai lavorato nessun tibetano, almeno in qualità di scienziato. Perché il Dalai Lama abbia scelto di compiere questa visita mi risulta piuttosto misterioso, ma ci sono racconti della sua fanciullezza che descrivono il suo interesse nello smontare e rimontare macchinari per scoprirne il funzionamento. In ogni caso, in quell’occasione c’erano qualcosa come tredici monaci. Il cern, che è abituato a ricevere delegazioni, organizzò un pranzo formale per i tibetani e per un congruo numero di esponenti del laboratorio. Lino di questi era il mio amico John Bell, morto improvvisamente di emorragia cerebrale nell’autunno del 1990, all’età di 62 anni. Qualche mese prima che morisse, tuttavia, ebbi l’opportunità di parlare abbastanza in dettaglio con lui della visita del Dalai Lama.
Il motivo per cui Bell faceva parte della delegazione del cern è chiaro: Bell, praticamente da solo, aveva rinnovato tra i fisici l’interesse per i fondamenti della meccanica quantistica. Prima delle ricerche di Bell, risalenti a qualche decennio prima della visita dei monaci, l’argomento era stato quasi esclusivamente appannaggio di fisici anziani come Einstein e Bohr, e pochissimi altri vi avevano prestato attenzione. I dibattiti tra Einstein e Bohr non sembravano portare a nulla. Il lavoro di Bell, di cui parlerò più in dettaglio in seguito, rese l’argomento una scienza sperimentale. Esso ebbe vasta risonanza, e fu seguito da una buona dose di fraintendimenti, di cui pure parlerò più avanti. Ci fu, e c’è ancora, un tentativo di legarlo a religioni orientali quali il buddhismo, ed è forse questo uno dei motivi che spinsero il Dalai Lama a visitare il cern. In ogni caso si trattò di una «visita di Stato» durante la quale il Dalai Lama, che parla inglese correntemente e in modo affascinante, comunicava solo attraverso un interprete. Bell ricordava alcuni brani della discussione.
A un certo punto il Dalai Lama chiese: «Se le particelle elementari sono puntiformi, com’è possibile che combinandosi diano luogo a oggetti estesi?». «A quanto pare non gli venne in mente che tra i punti potessero esserci degli spazi. Piuttosto strano» osservò Bell. Interessato ad approfondire col Dalai Lama l’idea del big bang, Bell lo avvertì che quella del big bang era solo una moda, nella fisica moderna, e che le mode cambiano. Ma la si poteva conciliare con il canone buddhista secondo il quale l’universo percorre un perpetuo ciclo? Il Dalai Lama rispose che questo non era uno dei loro precetti assoluti, e che avrebbe dovuto studiare attentamente le scritture: «C’è un certo spazio di manovra» aggiunse. Fui talmente colpito dallo «spazio di manovra» che chiesi a Bell se quella fosse un’espressione sua o quella usata originariamente dal Dalai Lama. Mi rispose che «spazio di manovra» era esattamente l’espressione usata dall’interprete, e lui l’aveva trovata meravigliosa. In effetti, anche se Bell non me lo disse - forse l’aveva dimenticato, o non l’aveva mai saputo - la discussione fu filmata, e nella registrazione si può vedere Bell che fa la domanda e il Dalai Lama che risponde.3
Bell pose una domanda che viene sollevata di frequente: perché la scienza non ha messo radici in paesi, come la Cina, a tradizione buddhista?4 La Cina ha una lunga storia di invenzioni - molte delle quali di grande importanza. Ma non vi si trova un Galileo, o un Newton, un Darwin, per non parlare di un Einstein. Di certo ci saranno stati potenziali geni della scienza, ma mancava il contesto. Un piccolo paese come la Danimarca ha potuto produrre un Bohr perché, una volta apparsa sulla scena una persona di questo genere, c’era una tradizione in cui si poteva inserire. La matematica è un po’ diversa: un genio può crearsi un contesto quasi da solo. Ramanujan, ad esempio, aveva avuto una certa istruzione matematica, ma quando andò a Cambridge a lavorare con G.H. Hardy non sapeva che cosa fosse una dimostrazione. Produceva semplicemente fantastici risultati con l’immaginazione, che sapeva essere veri. «Il buddhismo è una religione interiore che si preoccupa della salvezza dell’individuo» osservò Bell. «Studiare come accelerano le pietre dev’essere sembrato poco importante. I tibetani avevano le idee molto confuse sulla fisica moderna, e io ebbi l’impressione che non considerassero significativo questo genere di analogie. La fisica è effimera e rapidamente mutevole, e si applica solo a un numero limitato di fenomeni. Sarebbe assurdo ancorare le proprie convinzioni religiose alle teorie della fisica. Non ebbi l’impressione che si stessero guardando intorno in cerca di appigli. Sembravano invece pienamente a proprio agio nelle loro tradizioni».
Approfittai delle mie interviste a Bell per chiedergli di un altro incontro che aveva avuto con il misticismo religioso orientale, nel 1979, a una conferenza con il Maharishi Mahesh Yogi, scomparso nel 2008. Il Maharishi aveva studiato fisica all’Università di Allahabad nello stato dell’Uttar Pradesh, nel nord dell’India. Nel 1939, dopo la laurea, divenne discepolo di Swami Brahmananda Saraswati, che gli diede il nome Bai Brahmacharya Mahesh. Non essendo un bramino, non poté succedere al maestro quando questo morì, nel 1953. Decise dunque di mettersi in proprio, insegnando meditazione trascendentale a vari discepoli, tra cui spiccano per fama i Beatles. Nel 1970 fondò la Maharishi European Research University nell’edificio che prima ospitava un hotel di lusso nei pressi di Weggis, sul lago di Lucerna, in Svizzera. L’albergo aveva una grande cupola circolare con iscrizioni come «Centro del Governo Mondiale». C’era un ministero della Salute e dell’Immortalità. Come cancelliere fu nominato un fisico di nome Larry Domash.
Una breve ricerca su Google ha rimandato a un articolo del 1973 intitolato Interactions among Multiple Lines in the 8446-Å Atomic-Oxigen Laser, pubblicato su «Physical Review» (la nostra rivista specializzata con peer review degli articoli) e firmato tra gli altri da Domash. L’intestazione dice che quando fu scritto Domash faceva parte del nasa Electronic Research Center, a Cambridge, nel Massachussets. Ma c’è una nota a piè di pagina che recita «Indirizzo attuale, Maharishi International University, Rishikesh, India». Fu sicuramente Domash a compilare la lista degli invitati alla conferenza del 1979, di cui facevano parte, oltre a Bell, altri noti teorici quantistici. «Il Maharishi» raccontava Bell «era una figura molto più regale del Dalai Lama. Sedeva su una specie di trono, avvolto in una tunica bianca. Ai suoi piedi stavano seguaci - giovani donne - anch’esse vestite di bianco. Nel mezzo di questo gruppo stavano gli invitati. Era una situazione di grande disagio per uno scienziato. Il mio intervento fu improntato a scetticismo. Domash cercava di vedere qualche analogia tra lo stato raggiunto durante la meditazione e lo stato fondamentale di un superconduttore». Quello di superconduttore è uno stato quantistico raggiunto da certi materiali quando vengono portati a temperature molto basse. Come dice il nome, in questo stato il materiale conduce elettricità senza resistenza. Domash, ho letto, ha sostenuto che i neuroni siano superconduttori. Bell pensava che tutto questo fosse una sciocchezza e lo disse:
Chiesero al Maharishi la sua opinione. Fui sconvolto quando seppi che sosteneva di poter far piovere. Prima vedi il cielo azzurro e una nuvoletta, e ti rilassi. Poi la nube cresce, e piove. Per fortuna non era qualcosa che si poteva ordinare, specialmente con un pubblico scettico. All’epoca aveva una classe a cui cercava di insegnare la levitazione. Gli interessavano tutti gli aspetti bizzarri della meccanica quantistica, che secondo lui avevano qualche legame con il misticismo orientale. Non ebbi la possibilità di conversare con lui. Per me, era solo un personaggio che sentenziava da un trono. Ma l’ambiente Maharishi mi piaceva. I pasti erano ottimi, erano vegetariani!
Bell era vegetariano dall’età di sedici anni.
Mentre esprimeva un forte scetticismo nei confronti del Maharishi, verso il Dalai Lama Bell aveva un atteggiamento molto diverso. Conoscendo John Bell, sono sicuro che quanto disse a proposito dell’incontro con il Dalai Lama descriva esattamente come andarono le cose. È un peccato che perfino all’epoca della visita del Dalai Lama a Ginevra Bell e gli altri del cern non avessero idea di quale fosse la sua preparazione scientifica. Altrimenti, o se Bell avesse avuto la possibilità di parlargli in privato e informalmente, penso che i risultati sarebbero stati molto diversi e le impressioni sarebbero state tutt’altre. Bell invece in quell’occasione espose una breve ma brillante introduzione alla teoria quantistica. Ci fu un tentativo di dialogo, che naufragò a causa del numero di persone presenti. Nel 2005 il Dalai Lama pubblicò un libretto intitolato The Universe in a Single Atom: The Convergerne of Science and Spirituality, in cui afferma chiaramente che il suo interesse per la scienza risale alla prima adolescenza. Il tredicesimo Dalai Lama - il «corpo precedente» - era morto nel 1933. La ricerca della sua reincarnazione cominciò solo quattro anni dopo. Nel 1937 un gruppo di monaci di Lhasa incaricati delle indagini trovò nell’Amdo - una provincia del Tibet nordorientale - un bambino di due anni che fu riconosciuto come reincarnazione del defunto - il «corpo attuale», come dice il Dalai Lama di sé stesso. I monaci pagarono una cospicua tangente ai cinesi, che reclamavano la sovranità del territorio, perché lasciassero partire il bambino. A Lhasa, questi fu intronizzato nel palazzo del Potala ed ebbe inizio la sua istruzione buddhista. La scienza era del tutto assente; non sono nemmeno sicuro che gli sia stata insegnata la geometria elementare.
Il Potala è un gigantesco formicaio che ha, si dice, mille stanze. Oggi - e lo posso testimoniare di persona, avendolo visitato per la prima volta nel 1987 - è un museo dove i cinesi cercano di spillare più soldi possibile ai turisti. I tibetani non possono permettersi di visitarlo. Tra i pezzi esposti vi sono gli stupa dorati che accolgono le spoglie dei Dalai Lama dal quinto al tredicesimo. Thubten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, fu una figura interessante, che cercò invano di modernizzare il Tibet. Durante i primi anni del suo governo ci fu un conflitto tra Cina e Gran Bretagna, che reclamavano entrambe il dominio sul Tibet. La Cina invase la regione nel 191 o, e il Dalai Lama fuggì nel Sikkim, un protettorato inglese nell’Himalaya, facendo lo stesso percorso che avrebbe seguito il suo successore nel 1959. L’ufficiale politico incaricato di governare il Sikkim si chiamava Charles Bell - nessuna parentela con John.
Charles Bell e Thubten Gyatso instaurarono rapporti amichevoli. In ricordo della sua visita, Bell gli fece diversi regali, tra cui un telescopio e un orologio da taschino a carica manuale che segnava l’ora di varie parti del mondo. Ci furono anche tre automobili acquisite più tardi, due Baby Austin del 1927 e una American Dodge del 1931. Non c’era all’epoca - e ancor oggi non c’è - alcuna strada carrabile tra il Sikkam e Lhasa, perciò le auto dovettero essere smontate e trasportate pezzo per pezzo oltre l’Himalaya da portatori umani e animali. Furono poi rimontate e mantenute in funzione, ma non è chiaro quanto siano state usate per spostarsi in città - l’unico luogo che possiede qualcosa di simile a strade. Esplorando il Potala, il giovane Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama, scoprì questi tesori. Riuscì a percorrere un breve tratto con una delle automobili, ed ebbe un leggero incidente nel quale risultò danneggiato uno dei fari anteriori. Imparò a smontare e rimontare l’orologio. Nessuno gli spiegò l’uso del telescopio, ma riuscì a dedurre da solo anche quello. Cominciò a osservare la Luna, e notò che si vedevano le ombre gettate da varie protuberanze. Lo mostrò ai suoi tutori, che non capivano ciò che stavano vedendo. Il Dalai Lama spiegò che questo doveva significare che la Luna è illuminata dal Sole - una scoperta scientifica in piena regola. Sempre grazie al telescopio fece un’altra scoperta: a Lhasa c’era un europeo, che si rivelò essere lo scalatore austriaco Heinrich Harrer.
Nel 1939 Harrer faceva parte di una spedizione tedesca per la conquista del Nanga Parbat. È la nona montagna più alta del mondo e la più difficile da scalare, e si trova in Pakistan, che all’epoca faceva parte dell’India britannica. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, gli scalatori furono fatti prigionieri dagli inglesi in qualità di stranieri nemici. È molto improbabile che gli inglesi sapessero che Harrer era nelle SS ed era stato fotografato con Hitler. In Germania era considerato un eroe per aver scalato la parete nord del monte Eiger, in Svizzera. Il Dalai Lama di certo non era a conoscenza dei trascorsi di Harrer nelle SS, circostanza che fu resa pubblica solo nel 1997. Per Harrer era acqua passata. Morì nel 2006, a 93 anni.
Harrer - che era fuggito dal campo di prigionia inglese nel 1944 e arrivato a Lhasa due anni più tardi, dopo una sfiancante peregrinazione attraverso il Tibet - fu il primo contatto del Dalai Lama con il mondo esterno. Gli riparò il proiettore cinematografico, e i due guardarono insieme film come Enrico V di Lawrence Olivier, fatto arrivare dall’India. Harrer diede al Dalai Lama le prime lezioni di geografia. Harrer era stato accompagnato nella fuga da un altro scalatore austriaco, di nome Peter Aufschnaiter, che era in realtà il capo della spedizione originale. Durante la sua permanenza in Tibet, Aufschnaiter aveva compiuto rilevamenti cartografici in zone remote del paese per conto del governo e contribuito al progetto della centrale idroelettrica di Lhasa. Dopo l’invasione cinese del 1950 tutti e due lasciarono il paese: Harrer tornò in Austria, mentre Aufschnaiter si recò in Nepal, dove sposò una tibetana. Incontrai la coppia durante la mia visita in Nepal nel 1967: Aufschnaiter si occupava di ingegneristica per varie organizzazioni internazionali. Morì nel 1973. Nel 1952 Harrer pubblicò il suo celebre e ammirato romanzo autobiografico Sette anni nel Tibet, seguito trent’anni dopo dal libro di Aufschnaiter, Peter Aufschnaiter. Sein Leben In Tibet (nell’edizione inglese, Peter Aufschnaiter's Eight Years in Tibet), pubblicato postumo a cura di Martin Brauen.
Nell’ottobre del 1950 l’esercito cinese invase il Tibet. Non molto tempo dopo il Dalai Lama, all’età di sedici anni, fu investito dei pieni poteri del suo incarico, una cosa che normalmente non avviene prima del compimento dei diciotto anni. Durante questo periodo visitò la Cina e incontrò Mao. Come racconta nel suo libro, questa era la prima volta che vedeva una città vera, con tutta la sua varietà tecnologica. Visitò anche l’India, dove si sarebbe rifugiato nel 1959.
Fu nel 1973 che fece la sua prima visita in Occidente. In Inghilterra - non ci racconta come - incontrò il filosofo della scienza di origine austriaca Karl Popper, con cui aveva in comune l’esperienza dell’esilio forzato dal paese natale. Il Dalai Lama sostiene che il suo inglese non era ancora abbastanza buono da permettergli di trarre il massimo vantaggio dalle sue conversazioni con Popper. Il tema principale di quest’ultimo nella filosofia della scienza era il concetto di «falsificabilità». Nessun numero di conferme è sufficiente a dimostrare la verità di una teoria, ma basta una sola previsione errata per confutarla. Scrive il Dalai Lama:
Un’altra delle differenze tra la scienza e il buddhismo risiede, a mio modo di vedere, in ciò che costituisce un’ipotesi valida. Anche qui, la caratterizzazione operata da Popper dell’ambito di un problema strettamente scientifico rappresenta una grande intuizione. Si tratta del criterio popperiano di falsificabilità, secondo cui qualsiasi teoria scientifica deve contenere al suo interno le condizioni sotto le quali si può dimostrare che è falsa. Per esempio, la teoria secondo la quale Dio avrebbe creato il mondo non sarà mai una teoria scientifica in quanto non può contenere una spiegazione delle condizioni sotto le quali potrebbe rivelarsi falsa. Se prendessimo sul serio questo criterio, molti argomenti riguardanti resistenza umana, come l’etica, l’estetica e la spiritualità, rimarrebbero fuori dalla sfera della scienza. Al contrario, il campo di indagine del buddhismo non è limitato a ciò che è oggettivo. Comprende sia il mondo dell’esperienza soggettiva sia il problema dei valori. In altre parole, mentre la scienza si occupa di fenomeni empirici ma non della metafisica e dell’etica, per il buddhismo è essenziale un’analisi critica di tutti e tre i campi.5
La seconda visita del Dalai Lama in Europa fu nel 1979. Teniamo presente, in quel che segue, che questo era quattro anni prima della visita al cern. Fu durante la visita del 1979 che iniziò i suoi studi di meccanica quantistica. Nel suo libro non spiega in che modo, ma si procurò due «insegnanti privati», Cari Friedrich von Weizsäcker e David Bohm. Due figure più diverse è impossibile immaginarle. Weizsäcker, nato a Kiel nel 1912, veniva da una famiglia aristocratica, da cui aveva ereditato il titolo di Freiherr (barone). Suo padre Ernst, prima segretario di Stato, poi alto ufficiale delle SS, fu condannato per crimini di guerra a Norimberga. Suo fratello Richard divenne presidente della Repubblica Federale Tedesca.
C.F. von Weizsäcker studiò fisica con diverse persone, tra cui Niels Bohr e Werner Heisenberg. Heisenberg gli affidò il problema di calcolare in dettaglio l’ottica del cosiddetto «microscopio di Heisenberg». Questo era un microscopio esattamente come gli altri, a parte il fatto che Heisenberg lo usò in un «esperimento mentale» per determinare la posizione e la quantità di moto di una particella subatomica. L’idea è che un quanto di radiazione (molti quanti, in una situazione realistica) viene deviato dalla particella e arriva alla lente del microscopio. Il potere risolutivo del microscopio - la capacità di determinare la posizione della particella - è proporzionale alla lunghezza d’onda del quanto. Ma ciascun quanto trasporta una quantità di moto che è inversamente proporzionale alla sua lunghezza d’onda. Dunque più grande è la precisione con cui si misura la posizione con il microscopio, maggiore è la quantità di moto che si imprime alla particella. E un classico esempio da libro di testo del principio di indeterminazione. Ma Heisenberg chiese a Weizsäcker di fare i conti dettagliati in un caso realistico. Dopo aver conseguito il dottorato, Weizsäcker si recò a Berlino, dove diventò assistente di Lise Meitner, una fisica di origine austriaca.
Durante la collaborazione con Meitner elaborò la cosiddetta «formula semi-empirica di massa di Weizsäcker», che permette di esprimere le masse dei nuclei - con eccezione di quelli più leggeri - mediante pochi parametri determinati empiricamente. Lise Meitner fece uso della formula nel dicembre del 1938, in Svezia, durante la famosa passeggiata nei boschi in compagnia del fisico Otto Frisch, suo nipote. In quella circostanza riuscì a dimostrare che negli esperimenti dei suoi ex colleghi di Berlino Otto Hahn e Fritz Strassmann si era verificata la fissione del nucleo di uranio. Weizsäcker suggerì anche un meccanismo per spiegare come si genera l’energia del Sole, ma non ne elaborò i dettagli come invece fece Hans Bethe, che propose indipendentemente lo stesso processo. Quando, nell’autunno del 1939, l’esercito tedesco reclutò un certo numero di scienziati per lavorare sull’energia nucleare, inclusa la possibile realizzazione di armi atomiche, Weizsäcker e Heisenberg erano tra questi. Uno dei contributi di Weizsäcker, nell’estate del 1940, fu la proposta di usare nelle armi nucleari quello che in seguito si sarebbe chiamato plutonio. Nel 1945 era tra gli scienziati tedeschi fatti prigionieri e internati a Farm Hall, nei pressi di Cambridge.
Weizsäcker, come del resto Heisenberg, era un «non-nazista» - termine usato a Farm Hall. Nessuno dei due era iscritto al partito nazionalsocialista. D’altro canto, Heisenberg all’inizio certamente auspicava che la Germania vincesse la guerra ed entrambi, nonostante quel che dichiararono poi, erano perfettamente disposti a lavorare a una bomba atomica per Hitler. Quando Strasburgo cadde in mano tedesca, l’università fu occupata e arianizzata. Weizsäcker non ebbe problemi ad accettare lì una cattedra nel 1942, che però non mantenne a lungo, dato che la città fu ripresa dagli Alleati nel 1944. Dopo il rilascio dei tedeschi da Farm Hall, Weizsäcker tornò in Germania, dove ebbe un ruolo importante nella rinascita della scienza tedesca. Fu anche un oppositore dichiarato della possibilità di un armamento nucleare tedesco. Ormai non più attivo nella ricerca creativa, produsse tuttavia molti scritti di argomento filosofico, in particolare sulla meccanica quantistica. In meccanica quantistica era un positivista alla Bohr. Spiegherò più in dettaglio nel seguito, ma in sintesi Weizsäcker era d’accordo con Bohr nel negare l’esistenza di qualunque substrato classico soggiacente alla meccanica quantistica. La teoria, con tutte le sue probabilità e indeterminazioni, andava accettata così com’era. Weizsäcker è scomparso il 28 aprile 2007.
David Bohm era l’esatto opposto di Weizsäcker, ed è questo che rende la scelta di questi due uomini come insegnanti da parte del Dalai Lama così notevole. Bohm nacque nel 1917 a Wilkes-Barre, in Pennsylvania, da genitori ebrei immigrati dall’Europa orientale. Il padre possedeva un negozio di mobili ed era assistente del rabbino locale. Dopo essersi laureato alla Penn State University, Bohm fu mandato in California, dove ebbe come relatore di tesi Robert Oppenheimer. Si legò a organizzazioni politiche di sinistra, tra cui la Young Communist League. Quando scoppiò la guerra, a Bohm non fu accordato il nulla osta per seguire Oppenheimer a Los Alamos. Considerando le persone che invece lo avevano ottenuto - il fratello di Oppenheimer, per esempio, che era stato membro del partito comunista - la cosa è piuttosto strana. Bohm rimase a Berkeley, dove lavorò in connessione al progetto della bomba atomica. Dopo la guerra ottenne una cattedra all’Università di Princeton.
All’inizio degli anni Cinquanta accaddero due fatti che cambiarono la vita di Bohm. Il primo è che fu chiamato a testimoniare davanti al Comitato per le attività antiamericane, dove si avvalse del quinto emendamento. Princeton lo sospese, e Oppenheimer gli suggerì di emigrare - un consiglio piuttosto strano, data la posizione dello stesso Oppenheimer, al quale era stato revocato il nulla osta sicurezza e che ciò nonostante aveva rifiutato di lasciare il paese. Tuttavia Bohm seguì il consiglio e si trasferì prima in Brasile, poi in Israele e infine in Inghilterra, dove morì nel 1992.
Il secondo fatto fu la pubblicazione nel 1951 del suo testo Quantum Theory.6 All’epoca si trattava dell’unico testo di mia conoscenza che discutesse in dettaglio le basi concettuali della teoria. Chi conosceva Bohm in quegli anni mi ha riferito che arrivare alla posizione da lui presa nel libro gli costò una certa lotta interiore. Per alcuni filosofi marxisti-leninisti l’interpretazione di Copenaghen era un’eresia. Secondo questa interpretazione, per esempio, l’elettrone non è né una particella né un’onda: a seconda dell’esperimento si può manifestare in un modo, nell’altro, o in entrambi. Per Niels Bohr queste erano descrizioni «complementari» che riflettevano i limiti del linguaggio. Il nostro linguaggio è classico, e noi facciamo del nostro meglio per applicarlo alla meccanica quantistica, ma in mano ad alcuni può trasformarsi nell’idea che noi creiamo la realtà: il mondo è volontà e rappresentazione. È a questo idealismo che si opponevano i seguaci del materialismo dialettico di scuola sovietica, ed è questo che apparentemente turbò Bohm quando apprese la teoria. Ma nel testo non c’è traccia di tutto ciò. È pura ortodossia à la Bohr.
Bohm fu molto sorpreso quando, inaspettatamente, lo chiamò Einstein per dirgli che il suo libro era il miglior tentativo che avesse mai visto di confutare le sue idee. Einstein era convinto che la descrizione quantomeccanica non fosse completa, mentre Bohm nel libro sosteneva il contrario. Einstein accettava le conseguenze del principio di indeterminazione, ma pensava che questo e altri aspetti della teoria sarebbero emersi come limiti di una qualche teoria classica - che non riuscì mai a creare. Invitò Bohm ad andarlo a trovare per discutere di questi argomenti, ma che cosa sia successo in questa discussione non sono mai riuscito a scoprirlo. Una volta scrissi a Bohm per chiederglielo; lui rispose alla mia lettera, ma non alla mia domanda. Sembra che Bohm fosse persuaso che l’interpretazione ortodossa della teoria - quella che aveva presentato così brillantemente nel suo libro - non fosse del tutto soddisfacente. Sembra anche che Einstein abbia proposto qualcosa di abbastanza specifico, perché in seguito espresse il suo rammarico per il fatto che Bohm non l’avesse sviluppato.7 Ciò che invece realizzò Bohm fu una teoria delle «variabili nascoste» completamente deterministica e classica ma capace di riprodurre tutti i risultati della meccanica quantistica, a patto di trascurare gli effetti della relatività.
A giudicare dal suo libro, il Dalai Lama teneva Bohm in grande considerazione. Come Popper e come lui stesso, anche Bohm era stato esiliato dalla propria terra natale. Scrive il Dalai Lama:
Ammiravo in particolar modo la straordinaria apertura di Bohm verso tutte le aree dell’esperienza umana: si interessava non solo al mondo materiale della disciplina in cui era impegnato professionalmente, ma a tutti gli aspetti della soggettività, inclusa la questione della coscienza. Nelle nostre conversazioni sentivo la presenza di una mente scientifica elevata, pronta a riconoscere il valore di osservazioni e intuizioni derivanti da altre forme di conoscenza, diverse da quella obiettiva della scienza.8
Più avanti nel libro accenna all’idea di un «ordine implicito», che secondo Bohm avrebbe dovuto sostituire il riduzionismo. Si tratta di una sorta di «flusso» olistico, forse paragonabile al concetto buddhista di «totalità». Osserva il Dalai Lama:
Noto che c’è un gruppo di scienziati e filosofi i quali sembrano credere che il pensiero scientifico derivato dalla fisica quantistica possa fornire una spiegazione della coscienza. Ricordo alcune conversazioni avute con David Bohm sulla sua idea di un «ordine implicito», in cui sia la materia sia la coscienza appaiano governate dagli stessi princìpi. Lui sosteneva che a causa della loro comune natura non deve sorprendere se troviamo una tale somiglianza di ordine tra il pensiero e la materia. Anche se non mi era completamente chiara la teoria di Bohm della coscienza, la grande importanza che attribuiva a una comprensione olistica della realtà — che includa mente e materia - mi suggerì un percorso a cui guardare per una comprensione globale del mondo.9
Nel suo libro il Dalai Lama presenta la sua personale spiegazione dei problemi che si pongono nell’interpretazione della meccanica quantistica. Lo fa con un’affermazione lunga e a mio avviso notevolissima, che cito per intero e poi commenterò:
In fisica, la natura interdipendente della realtà è stata messa in evidenza dal cosiddetto paradosso epr, definito dalle iniziali dei cognomi dei suoi creatori, Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen. Questo paradosso fu originariamente formulato per sfidare la meccanica quantistica. Supponiamo che venga creata10 una coppia di particelle e che queste poi si separino, muovendo in direzioni opposte, anche per grandi distanze - per esempio una fino a Dharamsala, dove vivo io, e l’altra fino a New York. Una delle proprietà di questa coppia di particelle è che i loro spin devono avere direzioni opposte, cosicché mentre uno è «su» l’altro risulterà essere «giù». Secondo la meccanica quantistica la correlazione tra le misure (per esempio quando una è «su» l’altra dev’essere «giù») deve esistere anche se gli attributi individuali non sono determinati finché gli sperimentatori non misurano una delle particelle, diciamo quella di New York. A questo punto quella di New York acquisterà un valore - diciamo «su» - nel qual caso l’altra particella deve simultaneamente divenire «giù». Queste determinazioni di su e giù sono istantanee anche per la particella a Dharamsala, che non è stata ancora misurata. Nonostante la loro separazione, le due particelle appaiono come un’entità strettamente intrecciata. Secondo la meccanica quantistica sembra dunque esserci, al cuore della fisica, una profonda interrelazione.
Il Dalai Lama prosegue:
Una volta, a una conferenza in Germania, sottolineai la tendenza sempre più diffusa tra gli scienziati seri a tener conto delle intuizioni delle tradizioni contemplative di varie parti del mondo. Parlai del terreno d’incontro tra la mia tradizione buddhista e la scienza moderna, in particolare nell’ambito delle argomentazioni buddhiste a favore della relatività temporale e contro ogni idea di essenzialismo. Notai che tra il pubblico c’era von Weizsäcker e, quando spiegai quanto gli fossi debitore per la modesta comprensione della meccanica quantistica, commentò cortesemente che, se fosse stato presente il suo maestro Werner Heisenberg, sarebbe stato entusiasta nell’apprendere delle chiare, profonde analogie tra la filosofia buddhista e il suo pensiero scientifico.
E conclude:
Un altro importante argomento della meccanica quantistica riguarda la questione della misura. Ho scoperto che esiste un’intera area di ricerca dedicata a questa materia. Molti scienziati affermano che l’atto della misurazione provoca il «collasso» della funzione d’onda o di particella, a seconda del sistema di misurazione usato nell’esperimento. Solo grazie alla misurazione ciò che era potenziale diventa reale. Però noi viviamo in un mondo di oggetti quotidiani. Quindi dobbiamo porci la domanda: come, dal punto di vista della fisica, possiamo conciliare il nostro sentire comune di un mondo di ogni giorno fatto di cose e delle loro proprietà e il mondo bizzarro della meccanica quantistica? Possiamo conciliare queste due prospettive? O siamo destinati a vivere in questa sorta di schizofrenia?11
Mentre leggevo tutto questo, non potei fare a meno di pensare a John Bell. Fu la sua analisi della versione di Bohm dell’esperimento epr, argomento della discussione del Dalai Lama, a dimostrare che le versioni a variabili nascoste della meccanica quantistica implicherebbero inevitabilmente la trasmissione di segnali a velocità maggiori di quella della luce, rendendole almeno a prima vista difficilmente conciliabili con la relatività. Gli interrogativi su come il mondo classico e quello quantistico possano coesistere erano quelli che turbavano maggiormente Bohm. Nessuna delle soluzioni proposte lo soddisfaceva appieno. Nel modello di Bohm il mondo è classico ma non locale. In altri modelli il mondo è totalmente quantistico, e questo richiede di spiegare come vi si colloca la fisica classica di tutti i giorni. Alcuni studiosi ritengono che il mondo sia diviso in zolle, alcune quantomeccaniche e altre classiche - il che lascia aperta la questione di caratterizzare le zolle. Se solo Bell e il Dalai Lama si fossero appartati per discutere di queste cose da soli. Chissà che cosa avrebbero potuto imparare l’uno dall’altro.