9. Uno strano incontro

Jeff si riscosse dall'incanto di quello strano posto e si rivolse a Norby ad alta voce:

— È un sollievo non dover dipendere dal tuo scudo protettivo, Norby. Voglio dire: è fantastico averlo, ma è piacevole sapere di avere a disposizione una quantità di ossigeno meno limitata. Ed è magnifico anche poter parlare liberamente, senza aver paura degli scivoloni.

— Quando usciremo di qui avremo bisogno del mio scudo, lo sai.

— Sì, certo. Pensi che questa astronave sia stata abbandonata dagli Altri?

— Non credo proprio. Non è stata costruita secondo il loro stile, a giudicare da ciò che hanno lasciato su Jamya. Loro usavano corridoi come i nostri, con gravità artificiale.

— In assenza di forza di gravità non importa quale sia il soffitto e quale il pavimento — osservò Jeff. — Deve essere per questo che i corridoi sono tubolari e le stanze sferiche. Eppure, agli alieni di questa astronave non mancava di certo la tecnologia per realizzare la gravità artificiale. Forse viaggiavano nello spazio da così tanto tempo da trasformarsi, attraverso una serie di mutazioni genetiche, in creature incapaci di vivere in condizioni di gravità.

— Non ho avvertito la presenza di alcun alieno, Jeff, e neppure di robot. Qui dentro non c'è alcuna intelligenza, né alcun congegno che ci stia osservando e registrando quel che facciamo. La nave sembra incustodita e io credo che sia deserta.

— Ma che cosa mai può essere accaduto agli occupanti?

— Non lo so, Jeff. Perché non continuiamo l'esplorazione della nave? Siamo ancora a distanza di chilometri dall'altra estremità e non sappiamo dove sia la sala comando: probabilmente è da là che ha origine il campo magnetico, e forse vi scopriremo qualcosa sul conto degli alieni.

Norby riprese a trainare Jeff lungo i corridoi che si snodavano come serpenti che avessero inghiottito il ragazzo e il robot senza digerirli. Improvvisamente attraversarono una porta circolare e si ritrovarono in una grande stanza sferica, senza alcun disegno alle pareti.

— Che peccato! — esclamò Jeff, che ora non vedeva più niente del tutto. — Forse questa parte della nave è così vecchia che la fosforescenza è ormai svanita.

— Io, invece, credo che qui non ci siano mai stati disegni. Se vuoi, Jeff, posso accendere il mio fanale. Preferirei non farlo, però, perché la mia riserva di energia si sta esaurendo, e dal momento che il campo è già stato generato non posso andarmene direttamente nell'iperspazio. D'altra parte, qui non ci sono scivoloni che possano impedirmi di uscire dal campo quando ne avremo bisogno, quindi, tutto sommato, posso arrischiarmi ad accenderlo.

Alla fine Norby accese il suo piccolo fanale e, alla luce tenue che rompeva appena l'oscurità, Jeff e il piccolo robot avanzarono in silenzio attraverso spazi cavernosi, finché Norby fu rigettato indietro come se fosse andato a sbattere contro una parete di gomma.

— Una barriera energetica! — gridò il robot. — È invisibile e protegge... quello!

Quello che Norby stava indicando era una enorme sfera di metallo, situata esattamente al centro del locale. Non poterono avvicinarsi di più, bloccati da una forza poderosa che potevano sentire ma non vedere.

— Il campo magnetico che circonda il pianeta proviene da questa palla — disse Norby — e così questa barriera energetica. Evidentemente sono generati da congegni contenuti nella sfera.

I sensori del robot si allungarono verso la sfera e vibrarono nell'aria.

— La sfera — riferì Norby — è schermata da tonnellate di metallo, trattate in uno strano modo che non capisco e...

Si interruppe bruscamente, ritrasse la testa nel bidone e abbassò il coperchio, poi lasciò andare la mano di Jeff e ritrasse anche il braccio.

— Cosa c'è? — Jeff, allarmato, picchiò le nocche sull'involucro di metallo. — Che cosa è successo?

— Ho individuato qualcos'altro in questa sala — rispose Norby, con una vocina sottile. — Qualcosa di pensante!

Jeff si guardò intorno, ma non vide nulla.

— È nella sfera?

— Non lo so.

Jeff, che stava fluttuando a mezz'aria, cercò di nuotare intorno alla palla rasentando la barriera energetica, in modo da poter esaminare l'intero locale, seguito timorosamente da Norby. Dopo molta fatica si ritrovarono dall'altra parte della sfera, ma anche là non videro nulla.

— Credo che ci stia seguendo, Jeff— disse Norby. — Mantiene la sfera fra noi e lui, in modo che non possiamo vederlo né individuarlo con i miei scanner.

— Deve essere spaventato quanto noi, Norby, quindi cerchiamo di farci animo. Sarà meglio che ci dividiamo: il primo di noi che vedrà qualcosa chiamerà l'altro.

Il ragazzo e il robot si allontanarono in direzioni opposte, sempre bordeggiando la sfera. A mano a mano che la luce del fanale di Norby si allontanava, Jeff vedeva sempre meno. Aveva quasi concluso che l'impossibilità di vedere rendeva inattuabile il suo piano, quando udì Norby gridare:

— Jeff! Aiuto!

Jeff cambiò immediatamente direzione, nuotando verso Norby più velocemente che poteva.

Il robot era sospeso a mezz'aria e saltava su e giù, anche se in quella stanza non si poteva stabilire quale fosse il su e quale il giù.

— Eccomi, Norby! Cosa succede?

— Là! — il robot, agitatissimo, estraeva e ritraeva continuamente la sua mezza testa. — Ci sta spiando da dietro la sfera!

Jeff fece appena in tempo a scorgere qualcosa (un occhio?, due occhi?) prima che la creatura scomparisse dietro la palla. Improvvisamente si rese conto che, in assenza di forza di gravità, due cacciatori non erano abbastanza per intrappolare una preda, in quanto questa poteva sempre muoversi perpendicolarmente alla direzione in cui si spostavano loro: avrebbero dovuto essere almeno in tre per poterla bloccare.

— Ehi, vieni fuori, ovunque tu sia! — gridò con molta autorità Jeff.

Non apparve nulla.

— Dubito che possa comprenderci — disse a Norby.

— Forse è pericoloso — la voce del robot tremava per la paura. — Non mi piace questo posto, Jeff. Torniamocene a casa!

— Non possiamo. Dobbiamo tornare su Melodia, non ricordi? E poi, devi allontanarti dal campo magnetico per andare a rifornirti nell'iperspazio. Come stai a energia?

— Ne ho ancora abbastanza per andarcene via da qui, ma non durerà a lungo. Non possiamo rischiare di restare bloccati in questo posto.

— Lasciami fare un altro tentativo. — Jeff si girò verso la sfera e questa volta parlò in izziano: — Straniero, vieni fuori! Siamo amici.

— Amici? — rispose una vocetta acuta in una specie di izziano. — Non vi conosco. Non ho mai visto creature come voi, prima d'ora. Come mai parlate la lingua degli Altri?

— Non avere paura di noi: veniamo in pace. Parliamo la tua lingua perché abbiamo visitato due pianeti dove gli Altri, o robot lasciati da loro, hanno insegnato la loro lingua ai nativi.

Finalmente accanto alla gigantesca sfera apparve uno strano oggetto. Era una palla di metallo poco più piccola di Norby. Da una parte aveva una protuberanza su cui spiccavano tre occhi notevolmente somiglianti a quelli dei robot di Jamya. La piccola palla, avvicinandosi, si girò e Jeff vide altri tre occhi dall'altra parte della protuberanza. Poi due aperture laterali si schiusero per lasciar uscire due braccini simili a quelli di Norby.

— È la verità? — chiese la palla. — Avete dei contatti con gli Altri?

— Il mio amico Jeff non li ha mai visti — rispose Norby, che finalmente aveva ritrovato il coraggio non appena si era accorto di essere lui il più grosso dei due. — Neppure io, per la verità, però alcuni dei miei meccanismi interni sono stati costruiti da robot lasciati dagli Altri su un pianeta chiamato Jamya.

— Un pianeta? Non ne ho mai visto uno, ma un giorno ne farò parte.

— Che cosa sei? — domandò Jeff, incuriosito.

— Chi sei tu, piuttosto! — replicò il robot. — Sembri una creatura protoplasmica: ho sentito dire che esistono esseri come te. Anzi, a quanto ne so, anche gli Altri dovevano essere protoplasmici.

— Allora non li hai mai visti neanche tu?

— No: mi hanno attivato a distanza, dopo aver visitato questa nave.

— Sei ancora in contatto con loro? — Jeff era sempre più interessato.

— No. Quando sono stata attivata mi sono trovata una memoria piena di istruzioni per il mio lavoro e alcuni dati che spiegavano come ero arrivata qui, ma non c'era alcuna informazione sugli Altri. Dimmi, essere protoplasmico, chi sei? Continui a chiedermi informazioni, ma non me ne dai alcuna su di te. Questo non è molto gentile da parte tua.

— Mi spiace — si scusò Jeff. — È perché mi sono emozionato, quando ho pensato di aver finalmente trovato qualcuno che abbia visto gli Altri. Come hai detto, sono un essere protoplasmico. Mi chiamo Jeff Wells e provengo da un pianeta che gravita intorno a una stella molto, molto lontana. Questo è Norby, il mio robot. Stiamo tentando di soccorrere alcuni nostri amici che si trovano nei guai. — Jeff, prudentemente, si astenne dal dire che i suoi amici erano lontani nel tempo, e non nello spazio. — E tu come ti chiami?

— La mia personalità è di tipo femminile e sono stata chiamata Perceiver, ossia "la Sensitiva". Io vigilo, registro e aspetto.

— Aspetti che cosa? Il ritorno degli Altri?

— No, loro non torneranno più. Non torneranno neppure i proprietari di questa astronave: pare che appartenessero a un popolo molto antico di viaggiatori spaziali. Andavano di galassia in galassia lasciandosi dietro navi come questa... però credo soltanto alcune per galassia, dal momento che si tratta di un'operazione molto difficile e costosa.

— Ma che cosa stai sorvegliando, e perché? — chiese ancora Jeff. — Qual è lo scopo di questa nave?

— Questa nave diventerà il nucleo di un pianeta — spiegò il robot, agitando le piccole braccia. — Presto dalla nube primordiale di polvere esistente in questa zona dello spazio si formerà una stella; le onde di energia che accompagneranno il fenomeno spazzeranno via la maggior parte del gas e della polvere. I detriti più grossi si ammasseranno intorno a questa nave; poi, nel corso di milioni di anni, formeranno un nuovo pianeta.

— Ma la nave sarà distrutta!

— Non quella struttura, però — disse il robot, indicando la grossa sfera. — Almeno, non è previsto che venga distrutta. È protetta da un metallo appositamente trattato e da un campo di forza. Il suo scopo è di generare un campo inibitorio tale da rendere l'iperpropulsione quasi impossibile.

— Vuoi dire che chi ha costruito questa nave voleva che qualsiasi forma di intelligenza che si evolverà sul futuro pianeta non possa viaggiare che molto lentamente, nello spazio normale?

— Penso che sia così, ma non ne conosco la ragione. Del resto, la cosa non mi riguarda. Quel che devo fare io è registrare ogni dato. Da quando sono qui, ho immagazzinato una quantità enorme di dati e continuerò a farlo fino a quando la stella non si sarà accesa e il pianeta non avrà cominciato a prendere forma.

— Ma per questo potrebbero occorrere ancora milioni di anni! — esclamò Jeff. — E, alla fine, la tua sorte è d'essere distrutta insieme con l'astronave. Di quale utilità potrai essere agli Altri? Come riceveranno le informazioni che hai registrato?

Il robot aprì una sezione del suo corpo sferico.

— Qui dentro c'è una scatola che contiene tutti i dati che ho registrato. È munita di un congegno capace di vincere il campo inibitorio, quindi, quando sarà il momento, la spedirò nell'iperspazio. Dove andrà, dopo, non lo so, e io non potrò comunque seguirla. Non sono predisposta per l'iperspazio.

— Allora sarai distrutta?

— Quando la scatola sarà andata nell'iperspazio e la nave sarà distrutta, io morirò e diventerò una parte infinitesima del pianeta che si formerà. Sarà senz'altro una fine molto nobile.

— E il pianeta — mormorò Jeff, quasi tra sé — sarà Melodia, compreso il suo campo inibitorio.

— Non capisco — disse Perceiver.

— Oh, non importa. Perché non vieni via con noi? Non è giusto che tu debba restare qui ad aspettare per secoli, soltanto per essere poi distrutta.

— È il mio lavoro — ribatté Perceiver. — Non vorrete impedirmi di svolgere il mio dovere! Sarebbe inconcepibile. Andatevene, per piacere.

— Sì, è meglio — Norby tirò Jeff per la manica, — Devo andare nell'iperspazio...

— Sì, Norby, adesso andiamo. Per favore, Perceiver, non includerci nelle tue registrazioni.

— Io registro soltanto dati sulla formazione di stelle e pianeti, quindi non devo segnalare la vostra visita. Però per me è stato un vero piacere incontrare altri esseri e poter comunicare con loro. Ora potrò esercitare il mio cervello pensando a voi e dedicandovi canzoni.

— Canzoni? — chiesero simultaneamente i due.

— Sì, mi piace molto cantare.

Perceiver diede una piccola dimostrazione delle sue virtù canore. La sua musica era dolce e triste e a Jeff piacque molto. Non somigliava a nulla che avesse già udito su Melodia.

— Mi dispiace doverti lasciare qui sola, Perceiver, ma capisco che tu ti senti in dovere di portare a termine il compito che ti è stato assegnato. Non ti dimenticherò mai.

— Andiamo, Jeff— disse Norby, tirando il ragazzo per un braccio. — Ciao, Perceiver. Stai facendo un lavoro che nessun altro potrebbe mai svolgere. Mi congratulo con te.

— Grazie, le tue parole per me hanno un grande significato. Addio!

Mentre filava con Norby verso l'uscita, lungo i corridoi tubolari dell'astronave che sarebbe divenuta un pianeta, Jeff si ritrovò a rimuginare sulla sorte che aspettava al piccolo robot.

— Non è giusto che gli Altri abbiano lasciato un robot a morire qui da solo, tanto più che si tratta di un robot dotato di circuiti emotivi, che non soltanto pensa ma prova anche i veri sentimenti.

— Eppure, devono aver avuto una ragione per farlo — osservò Norby. — Forse il futuro dipende in qualche modo dalle registrazioni di Perceiver. Non potremmo portarla via con noi senza cambiare il futuro, magari in peggio. Però dispiace anche a me: Perceiver è un robot molto simile a me e non voglio che muoia.

Parlando, Jeff e Norby si lasciarono alle spalle l'atmosfera respirabile dei corridoi e il robot azionò il suo scudo protettivo, includendovi il ragazzo. Poco dopo furono fuori dell'astronave e si allontanarono più velocemente possibile dal campo inibitorio che impediva a Norby di andare nell'iperspazio, la dimensione che permette di superare la velocità della luce, limite massimo dei normali viaggi spaziali.

— Siamo fuori del campo, Jeff. Tieniti forte: passiamo nell'iperspazio!