Capitolo  XXXV

La luce filtrava attraverso le sbarre della finestra della piccola cella. Pareti e pavimento di cemento. Mortimer era disteso in una cuccetta dura e stretta, con la testa che pulsava a ritmo di rumba. In bocca aveva un saporaccio, come se un bufalo avesse usato la sua lingua per pulirsi il culo. Si passò un dito sugli occhi secchi e incrostati. Qualcuno lo stava osservando.

Sbatté le palpebre, cercando di mettere a fuoco il volto. Era Lars.

«Buongiorno, signore». Lars svuotò una fialetta di polvere bianca in un bicchiere d'acqua. Bollicine e schiuma, qualcosa di effervescente. Lars porse il bicchiere a Mortimer. «Ho immaginato come si sarebbe sentito. Non è proprio l'Alka Seltzer con cui siamo cresciuti, ma i nostri farmacisti sono piuttosto esperiti».

Mortimer la mandò giù. Per un momento minacciò di riemergere, ma lui la trattenne e ruttò. La miscela attenuò il suo tormento. Adesso si sentiva solo infelice. «Dove sono?»

«In prigione».

«Con quale accusa?»

«Non sono autorizzato a parlarne», rispose Lars. «Ma se riesce a stare in piedi posso accompagnarla».

«Dove?»

«Le sarà subito chiaro».

Lars lo condusse fuori dal piccolo edificio, un bunker di cemento dove probabilmente tenevano i piantagrane per separarli dai clienti beneducati. La costruzione sorgeva in mezzo al bosco, isolata, ma sul vialetto di ghiaia c'era una golf car ad attenderli. Sul sedile posteriore era seduto James, l'uomo che li aveva accolti al cancello il giorno prima. Con un M16 posato in grembo, salutò Mortimer con un cortese cenno del capo. Lars si accomodò dietro il volante e invitò Mortimer a sedersi accanto a lui. Poco dopo, sfrecciavano lungo il vialetto, con la ghiaia che scricchiolava sotto le piccole ruote del veicolo.

Attraversarono un'area che Mortimer riconobbe e un cocchio celeste sorvolò le loro teste. Poi Lars entrò in un territorio sconosciuto, lungo un sentiero tortuoso che correva lungo il fianco della montagna. Fermò la vettura e guardò giù nella valle, dove una colonna di fumo nero saliva da alcuni edifici in lontananza.

Mortimer si riparò gli occhi con la mano e allungò il collo per guardare a sua volta. «Che cos'è?»

«Difficile dirlo», ammise Lars. «Cerchiamo di tenere sotto controllo la regione, ma le bande di razziatori infestano ancora la città, anche se non come alcuni anni fa». Il sentiero s'immerse nella foresta e sbucò in una piccola radura. Una grande casa a forma di L si ergeva su una sporgenza un rocciosa, con una vista spettacolare della vallata. A tre piani, costruita con legno e roccia nativa, un portico panoramico e un terrazzo. Sembrava una costruzione antica, ma in ottimo stato.

«Cravens House», annunciò Lars.

«Chi è Craven?»

«Ha fatto fortuna commerciando in ferro e cotone prima della guerra civile. O forse dopo. Non sono uno storico».

Parcheggiò la golf car. James saltò giù dal sedile posteriore, si girò e accese un sigaro. «Dove l'ha trovato?»

«Il tabacco ci arriva dalla Virginia», spiegò Lars. «Ora devo chiederle di entrare, signore».

«Entrare?». Mortimer agitò il pollice in direzione di Cravens House.

«Secondo le istruzioni che ho ricevuto, signore. Io e James dobbiamo aspettare qui».

«Grazie per il passaggio».

Entrò nella casa e si fermò nell'atrio, in attesa, ma nessuno si presentò per dirgli cosa fare. A entrambi i lati dell'ingresso c'erano uniformi della guerra civile esposte in bacheche di vetro. In mostra per i turisti, immaginò Mortimer. C'era una uniforme da ufficiale confederato e una da unionista, senza far torto a nessuno.

L'ambiente profumava di rose. Una panca con appendiabiti, pavimenti di legno lucido. In fondo al corridoio intravide una sorta di soggiorno, con ampie finestre che lasciavano entrare la luce del sole.

Si schiarì la gola. «Permesso?».

Sentì qualcosa muoversi in una delle stanze lungo il corridoio, un fruscio di carte, una sedia spostarsi sul pavimento, rumore di passi.

Una testa fece capolino da una delle porte. «Oh, è già qui. Ha fatto presto. Tate, giusto?»

«Esatto. Spero di non... ehm... averla disturbata in un momento poco opportuno».

«Niente affatto. Avevo solo pensato che ci avrebbe messo un po' più di tempo a rimettersi in sesto. Nessun problema. Venga, venga». L'uomo invitò Mortimer dentro il piccolo ufficio.

Era basso, ma non eccessivamente, e Mortimer pensò che prima della Decadenza fosse anche grasso, visto che ora aveva un aspetto flaccido e cascante, sebbene il colorito fosse quello di un uomo in piena salute. Calvo. Grandi occhi azzurri e labbia carnose. Orecchie piccole. Fece cenno a Mortimer di accomodarsi.

Mortimer sedette di fronte a una semplice scrivania di legno chiaro. L'ufficio era arredato in stile country francese; era pulito, arioso e ben illuminato, con un vaso di fiori gialli freschi in un angolo.

«Come va la sua testa?», gli chiese l'uomo.

La mano di Mortimer si spostò automaticamente sulla nuca. «Oh, ah, meglio, presumo».

«Brutto affare, ma poteva andare peggio, immagino».

«Certamente».

«Posso offrirle qualcosa?», gli chiese lo sconosciuto. «È un po' presto per i superalcolici, ma abbiamo tè e caffè. Gradisce dell'acqua?».

Mortimer si sporse in avanti. «Senta, senza offesa, ma lei chi cavolo è?»

«Oh, cielo, ha ragione, non ci siamo presentati». Gli tese la mano. «Sono Joey Armageddon».

Mortimer restò senza fiato, ma gli strinse la mano. «Ah. Allora, ok, credo che prenderò un po' di caffè».