Capitolo XI

Tornato nella suite imperiale, Mortimer trovò la bottiglia di vodka di Bill. Vuota. La annusò, e i fumi dell'alcol gli bruciarono le narici. «Accidenti».

Bill arrivò dall'altra stanza; aveva un'aria più sveglia. Aveva indossato la camicia e dopo la doccia non puzzava più come un fuoco da bivacco. «Mi spiace, l'ho scolata tutta».

«Ho bisogno di bere qualcosa».

«Buona idea. Dammi il tempo di infilarmi gli stivali».

Mortimer guardò di traverso la bottiglia vuota. «Lo reggi bene?»

«Non vomito mai», rispose Bill. «Né ho i postumi della sbornia».

«Andiamo, allora».

Scesero al piano inferiore. Erano cambiate un po' di cose col sopraggiungere della sera. Metà degli uomini trasandati stava pedalando sulle cyclette allineate lungo la parete, mentre l'altra metà era in pausa, accasciata sui manubri, sudata e ansimante. Le luci natalizie intermittenti zigzagavano da una parte all'altra del soffitto del locale. Sembrava un ballo studentesco ispirato .il tema della distopia. Note metalliche di musica uscivano da altoparlanti invisibili.

«Mi sembra di conoscerlo», disse Mortimer. «Che brano è?»

«Tony Orlando», rispose Bill. «Knock Three Times».

Mortimer scosse la testa. «Gesù».

«No, Tony Orlando».

Si udì un suono modulato, simile al campanello di un portone. Gli uomini in pausa ripresero a pedalare, sostituendo l'altra metà dei compagni. Durante l'avvicendamento dei turni le luci natalizie sfarfallarono debolmente e la voce di Tony Orlando riecheggiò per qualche istante rallentata e distorta, per poi tornare alla normalità.

Che lavoro di merda, pensò Mortimer.

Un uomo con il peggiore smoking della storia - colore arancio neon - e una camicia plissettata sbarrò loro la strada. Ostentava un paio di baffi a manubrio e capelli azzimati meticolosamente divisi da una riga centrale. Aveva l'aria di uno appena scappato da un quartetto di voci maschili, ospiti di un padiglione per malattie mentali.

«Signori?»

«Vorrei un drink», disse Mortimer.

«Stiamo avviando il turno per la cena. Dovrà aspettare», replico l'uomo con sussiego.

Bill gli puntò un dito sulla faccia. «Chi diavolo sei?»

«Sono Emile, il caposala. Mi rincresce, ma...».

«Fagli vedere la carta», tagliò corto Bill dando un colpo di gomito a Mortimer.

«Questa?», domandò l'amico, esibendo la carta Platinum.

Emile sgranò gli occhi; le punte dei baffi fremettero. «Signore!».

Il maître si girò di scatto, schioccando le dita. Uomini robusti comparvero dal nulla e presero ad apparecchiare frenetica mente un tavolo vicino al palco, con tanto di tovaglia bianca e candela. Emile accompagnò gli illustri ospiti e li fece accomodare. Seguirono altri inchini e salamelecchi.

«Le chiedo umilmente e indegnamente scusa per il mio deplorevole comportamento», disse Emile. «Non l'avevo riconosciuta, Mr. Tate».

«Non ci pensare».

«Certo, certo. Lei è senza dubbio l'uomo più generoso e indulgente...».

«Ti ha detto di non pensarci, amico», lo interruppe di nuovo Bill. «Adesso sbrigati a portarci una bottiglia, prima che ti stampi la suola dello stivale su quel culo da damerino».

Il sorriso di Emile fu messo a dura prova. «Sì. Certamente».

«Portaci della vodka e due bicchieri puliti».

Emile indietreggiò producendosi in altri inchini e borbottando qualcosa sottovoce.

«Non devi essere così sgarbato con i camerieri», lo rimproverò Mortimer.

«Ehi, adesso sei uno che conta. Non puoi permettere a questi inservienti di trattarti a pesci in faccia».

Mortimer fece un sospiro sofferto. «Ho bisogno di un drink».

Bill si sporse sul tavolo e gli domandò, abbassando la voce: «Stai bene?»

«Sono andato a casa mia».

Bill annuì. «Lasciami indovinare. Tua moglie non c'era».

«Infatti».

«Capita».

«Una vecchia sdentata voleva scopare con me».

«Hai bisogno di un drink».

«Sì».

Emile, il maître al neon, tornò con una bottiglia di vodka e due bicchieri spaiati. Servì il liquore con un altro inchino. Era dannatamente ossequioso. «Le cameriere devono ancora prendere servizio, ma è per me una gioia servirvi personalmente senza dover prolungare la vostra attesa».

Mortimer bevve tutto d'un fiato la vodka, che scese nella gola come lava incandescente. Accennò un ringraziamento al maître, ma fu interrotto da un attacco di tosse.

«Mort ti ringrazia, e ora levati dalle palle».

«Sa di cherosene», bofonchiò Mortimer.

«Non essere ridicolo. Hai mai bevuto cherosene prima d'ora?».

Mortimer dovette riconoscere che non gli era mai capitato.

«Allora non dire idiozie». Bill prese la bottiglia e riempì di nuovo il bicchiere dell'amico.

Ingollarono insieme il liquore, fecero una smorfia e riempirono di nuovo i bicchieri.

«Non so dove sia mia moglie», disse Mortimer. «Sempre che sia viva».

Bill annuì, sorseggiando rumorosamente la vodka. «È dura mantenere i contatti con il parentado nel nuovo mondo».

Parentado. Più beveva e più si calava nei panni del cowboy. A Mortimer non dava fastidio. Bill gli piaceva. Gli piaceva bere di nuovo con qualcuno. Se lasciava che lo sguardo si appannasse e si limitava ad ascoltare la musica e a dimenticare quanto fosse tossica quella vodka, Mortimer poteva quasi illudersi di essere alla fine di una normale giornata di lavoro, a godersi un bicchiere insieme ai colleghi della compagnia di assicurazioni, per poi tornare a casa con la testa più leggera e fare l'amore con sua moglie. Anne. Dov'era?

Afferrò la bottiglia e la agitò. Vuota. «Dannazione».

Bill schioccò le dita. «Un'altra bottiglia, untuoso bastardo!»

Tornò Emile. Un'espressione accigliata aveva preso il posto del sorriso tirato. Non provava nemmeno più a fingere. «Prego?».

Bill gli restituì lo sguardo torvo. «Usa un linguaggio educati tu... tu...».

«Parassita», suggerì Mortimer.

«Già! Tu, stronzo parassita figlio di puttana».

«Cosa desidera?», volle sapere Emile. Le punte dei baffi si erano ammosciate: l'atteggiamento sprezzante del maître era stai totalmente sconfitto dalla carta Platinum. Non gli restava che sopportare.

«Da bere!».

Emile si defilò in silenzio. Mortimer lo osservò allontanarsi senza provare alcuna compassione per quell'uomo. Era troppo assorto nei suoi pensieri, troppo deliziato dallo scintillio delle luci natalizie, troppo stordito dalla vodka. Cosa avrebbe fatto adesso? Per quanto tempo poteva restare seduto lì a bere veleno prima di essere costretto a decidere la mossa successiva Mortimer Tate non si era fermato a riflettere su come sarebbe stata la sua vita ai piedi della montagna.

Emile si fermò a parlare con un uomo magro e dagli occhi scuri, appoggiato al vano della porta. Mortimer ebbe la sensazione di conoscerlo. Emile fece un cenno al nuovo arrivato e indicò il tavolo di Mortimer. Il comportamento villano di Buffalo Bill aveva creato casini? Dove diavolo era quella bottiglia? Mortimer pensò ancora che l'uomo magro avesse qualcosa di familiare.

«Tua moglie potrebbe anche non essere viva», se ne uscì Bill. Mortimer trasalì. «Cosa?»

«Ricordo di essermi perso, all'epoca, quando scoppiarono i tumulti per l'accaparramento del cibo. Una violenza incredibile. Ho trovato la strada di casa, ho trovato mio padre nel soggiorno, c'era sangue ovunque. Qualcuno gli aveva fracassato la testa con un tubo o qualcosa del genere. La casa era stata saccheggiata. Ho aspettato ore e ore accanto al suo corpo che mia madre rientrasse, capisci? Non ho mai saputo cosa le fosse successo. Mai». Lo sguardo di Bill era perso in qualche luogo lontano del passato. «Sai, dopo ho pensato: E se fosse tornata a casa e avesse trovato mio padre morto? E se si fosse semplicemente messa in salvo senza aspettarmi? Ho sempre creduto...». La voce di Bill si spezzò. Il giovane scosse la testa, si schiarì la gola. «Che fine ha fatto quella cazzo di bottiglia?».

Emile arrivò appena in tempo a riempirgli il bicchiere. Bill lo vuotò in fretta tenendo gli occhi bassi, il viso rabbuiato da tristi ricordi.

Mortimer capì che Bill non aveva voglia di parlarne ancora, ma non riuscì a trattenersi e cominciò a tempestare di domande il cowboy. Quante persone erano morte? Si stava facendo qualcosa? Com'era questo mondo in cui vivevano adesso? La gente votava ancora? Esisteva ancora l'America? La risposta era sempre la stessa: era cambiato tutto.

Emile si chinò e mormorò qualcosa all'orecchio di Mortimer. «Il professor Coffey vorrebbe sapere se può unirsi a voi per un drink».

«Chi?», replicò Mortimer inarcando un sopracciglio.

« Il proprietario, signore».

«Ah… ok».

Il nome, il viso. Così dannatamente familiari.

L’uomo alto e dinoccolato si avvicinò e sedette fra Bill e Mortimer . «Salve, Mort. Ho pensato che potessi essere tu».

Lo riconobbe di colpo. «Pete Coffey!».

Questa volta fu Bill a inarcare un sopracciglio con aria perplessa.

«Questo è Pete Coffey», lo presentò Mortimer. «Eravamo insieme nella squadra di baseball alla scuola superiore».

«Salve», disse Bill con un cenno del capo.

«L'ultima volta che ho sentito parlare di te eri un professore di inglese a Georgetown».

Coffey si strinse nelle spalle. «Insegnavo letteratura. Georgetown adesso è ridotta a un cumulo di macerie radioattive. Io ero tornato a casa per il funerale di mia madre, altrimenti ci avrei lasciato la pelle insieme al resto del mio dipartimento».

«Mi dispiace», disse Mortimer. «Per tua madre, intendo».

«Non importa».

«Sei il proprietario del locale?».

Un sorriso balenò sul volto del professore. «Per metà. Joey Armageddon possiede la metà di tutti i locali. Qualcuno del posto - io, in questo caso - possiede l'altra metà».

«Dov'è il governo?», si lasciò sfuggire Mortimer.

«Ogni tanto ci arriva qualche comunicazione sulle onde corte», rispose Coffey. «Un generale dell'aviazione a Colorado Springs pretende di rappresentare il governo. Altre volte, poi abbiamo notizie di qualche segretaria governativa di basso livello rintanata a Omaha, che sostiene di essere regolarmente in carica». Un'altra scrollata di spalle. «In realtà non ha alcuna importanza».

«Non ha alcuna importanza?». Mortimer scosse la testa e versò della vodka. «Non ci posso credere».

«Stai bevendo quella roba?», gli chiese Coffey.

«È... hic... buona», osservò Bill.

«No, non lo è», dichiarò Coffey. «È la via più breve per la diarrea. Come sciacquarti le budella con acido da batteria». A un suo cenno, Emile si materializzò al suo fianco. «Porta il Bombay che conservo nella cassaforte in ufficio. E il succo di lime. Silas conosce la combinazione».

Bill era esterrefatto. «Hai il lime? E dove l'hai preso?»

«Non ce l'ha nessuno», rispose Coffey. «Il mese scorso, a seguito di un baratto, ci sono arrivate sei piccole lattine di succo di lime e le ho conservate per me. E anche il Bombay».

«Mi mancano le arance», mormorò nostalgicamente Bill.

«Qualsiasi agrume».

«Non arriva niente dalla Florida», osservò Coffey. «Da un anno, ormai».

Emile sopraggiunse con una bottiglia piena a metà di gin Bombay Sapphire, una lattina di succo di lime e un secchiello con i cubetti di ghiaccio. Coffey mescolò gli ingredienti, versando il gin come se stesse maneggiando la nitroglicerina, attento a non sprecarne nemmeno una goccia. Si assicurò di non versarne a Bill o a Mortimer più di quanto ne avrebbe versato per sé. Alla fine, bevvero.

Sospiri soddisfatti. I tre uomini chiusero gli occhi, lasciando scendere quel nettare lungo la gola.

«Diamine, è un casino migliore della vodka, non c'è che dire» , commentò Bill. «Non ho più voglia di morire».

Sedettero in silenzio. Il gin esigeva rispetto, perciò lo sorseggiarono molto lentamente, senza parlare. Mortimer si guardò intorno; altri avventori avevano affollato il Joey Armageddon's, dove adesso suonava un brano di Warren Zevon, Things to Do in Denver When You're Dead. Sul palco, alcuni inservienti erano impegnati a calare quelle che sembravano gabbie antisqualo fissate a cavi d'acciaio. Le luci natalizie cominciarono a tremolare. Mortimer vide qualcos'altro. Qualcosa di notevole.

Donne.

Vestite succintamente, giravano in mezzo ai tavoli prendendo ordinazioni dai clienti. Alcune indossavano canotte con il bordo annodato sopra l'ombelico.

Altre portavano il pezzo superiore di un bikini o un reggiseno di pizzo. I pantaloncini corti e attillati sembravano d'obbligo per tutte.

Erano nove anni che Mortimer Tate non andava con una donna! Sentì qualcosa risvegliarsi nei pantaloni, fin dentro le viscere. Non poté fare a meno di fissarle a bocca aperta.

Coffey raccontò la sua storia. Era sopravvissuto ai momenti peggiori, aveva contribuito a tenere unita la cittadinanza. Era solo una piccola comunità, si conoscevano tutti. Si erano uniti per scacciare i predatori esterni, e la disperazione interiore. Adesso Coffey era sindaco, ma aveva un ruolo più importarne come proprietario di metà del Joey Armageddon's di Sprint City. Godeva di prerogative regali.

«Anne», azzardò Mortimer. «È... sai cosa le è accaduto?».

Coffey annuì lentamente. «Certo, me ne ero scordato. È naturale che tu voglia avere notizie, Mort. Scusami, davvero».

Oh, no. Sentì una morsa di gelo sul cuore. È morta. Come? Cos'è successo?

«Mi dispiace davvero», ribadì Coffey. «Ma ho dovuto venderla».

«No, no, no. Non è possibile. Non è...». Mortimer sbatté le palpebre, incredulo.

«Hai detto... venderla?»

«Ehi, non è stata un'idea mia», disse Coffey. «Credimi, io volevo tenerla. I clienti la adoravano. Era brava a dimenare il culo in quella gabbia».

Mortimer reagì d'impulso: saltò su dalla sedia, che si rovesciò a terra alle sue spalle, e sollevò i pugni. Quel figlio di puttana stava parlando di sua moglie.

Si immobilizzò appena sentì il freddo del metallo sotto l'orecchio destro. Si voltò adagio e vide un uomo grande e grosso che gli puntava contro il fucile. Da dove è saltato fuori? Sentì qual cos'altro premergli fra le costole sul fianco sinistro. Disserrò i pugni e alzò le mani in segno di resa. «Nessun problema».

«Si accomodi, signore. Buono e tranquillo». Era Emile, che gli premeva un piccolo revolver argenteo nelle costole. «Si comporti da gentiluomo».

Mortimer piegò lentamente le gambe e qualcuno gli fece scivolare la sedia sotto il sedere.

Emile lanciò un'occhiata interrogativa al suo capo.

«Credo che sia tutto a posto», lo rassicurò Coffey. «Mort, ti comporterai bene, vero?».

Mortimer fece cenno di sì, a denti stretti, e i pistoleri si ritirarono. Bill allentò la stretta su una delle sue sei colpi. Mortimer notò il pugno di Coffey posato sul tavolo, accanto al drink: stringeva una piccola Derringer di nichel. Il proprietario del locale rinfilò adagio la pistola nella cintura.

«Sono stato indelicato», ammise Coffey. «Dimenticavo che tu non sai come funzionano le cose, adesso».

Mortimer lo guardò con occhi furiosi. «Vendere donne come schiave da sesso? È così che funziona?»

«Non vederla così. È come se i Red Sox cedessero un giocatore esterno agli Yankees. La nuova sede aveva bisogno di una ragazza esperta. Anne ne era entusiasta, Mort. È stata una promozione».

«Dov'è andata?»

«Non lo so».

«Sei un bugiardo».

Coffey aggrottò le sopracciglia, sospirò. «Sto cercando di capire quel che provi. Chiuderò un occhio sulla tua insolenza».

«Vaffanculo».

Un altro sospiro, poi Coffey si alzò. «Le cose sono cambiate, Mort. Adeguati».

Le luci natalizie impazzirono di colpo e la musica aumentò di volume. «Sembra che lo spettacolo stia per iniziare», osservò Coffey. «Voi, ragazzi, divertitevi. Ho i miei giri da fare. Ci vediamo più tardi».

Le gabbie calarono dal soffitto e la musica esplose. Raspberry Beret. C'erano donne dentro le gabbie. Ballavano.

Donne nude.

Agitavano, scuotevano, sventolavano i capelli; una bionda con un fisico a clessidra e grossi capezzoli era chiusa in una delle gabbie. Nell'altra gabbia all'estremità opposta del palco, una rossa dal corpo atletico e flessuoso ondeggiava sensualmente al suono della musica.

Il Joey Armageddon's si era riempito di ubriachi e di risate sguaiate. Cominciava a fare caldo; un odore stantio di liquore si diffuse nella sala, mescolato a quello di muschio e al fumo di tabacco. Mortimer sentì la testa girare: sovraccarico sensoriale. Era furioso, ma le donne nude reclamavano la sua attenzione. Allungò la mano verso il bicchiere, ma lo trovò vuoto. Il Bombay era scomparso, rimpiazzato da una bottiglia di quella vodka micidiale.

Bevve, e il mondo divenne un'immagine confusa.

Sentì Bill gridargli qualcosa; la voce sembrava così lontana. Mortimer cercò di mettere a fuoco il cowboy. Una delle cameriere si era accomodata sulle ginocchia di Bill. «Come?»

«Ti ho detto se mi presti qualche dollaro Armageddon», gridò Bill.

Mortimer si frugò nelle tasche, ne tirò fuori una manciata di monete e le spinse sul tavolo verso l'amico. Allungò la mano verso la bottiglia, la afferrò maldestramente. La sua percezione della distanza era uno schifo.

Si sentì fluttuare nell'aria, come se stesse uscendo dal proprio corpo, alla deriva in mezzo al turbinio di colori delle luci natalizie. Non riusciva a mettere a fuoco, non distingueva i singoli suoni: il baccano, la musica, le parole bollivano tutte in un unico calderone di zuppa. Ma il suo cervello stava lavorando in qualche misura, raggiungendo un nuovo livello di consapevolezza, comprensione e determinazione. Sapeva cosa avrebbe fatto. Stava vivendo un'epifania, un risveglio spirituale.

Lanciò un'altra occhiata a Bill, sforzandosi di metterlo a fuoco. Il cowboy aveva abbassato il reggiseno della cameriera e aveva preso un capezzolo fra le labbra. La mano della ragazza scivolò sotto il tavolo, nei pantaloni di Bill, e cominciò a pompare.

Al diavolo il risveglio spirituale, si disse Mortimer. Voglio una bella sega.