Friedrich Bollinger
Il primo condottiero
(Basilea, 2 agosto 1885 / Lucerna, 6 agosto 1945)
Tredici gennaio 1907.
Campionato italiano, girone piemontese, prima partita di qualificazione.
Campo di football del Velodromo Umberto i di Torino, al margine della città, in un vasto spiazzo, non ancora completamente urbanizzato, nei pressi dell’Ospedale Mauriziano, a ridosso delle vie Torricelli e Caboto, in zona detta Crocetta.
Qui poco meno di una decina di anni prima (1898) si era svolta la prima edizione ufficiale del torneo nazionale vinta dal Genoa, prevalente su tre formazioni torinesi.
Oggi in campo Torino e Juventus.
Clima niente affatto favorevole, fa piuttosto freddo. Spettatori pochi, rare le rappresentanti del gentil sesso, più che altro “strappate” da casa per far contento il proprio accompagnatore che per autentico interesse. D’altra parte immaginare che il football avesse già fatto presa anche su di loro è mera utopia. Non ha avuto il tempo necessario. La conquista dell’altra metà del cielo, ossia del mondo femminile al calcio, sarà operazione lunga e progressiva ed è solo in questi ultimi decenni che il numero delle spettatrici, delle interessate e anche delle addette ai lavori si è fatto decisamente importante.
Il Torino ospita. Si tratta per i granata della prima gara ufficiale della loro storia. Sono appena nati da un mese e mezzo, ma già danno segno di voler fare le cose per bene. E poi con gli striscioni bianconeri della Juventus ci sono alcuni conti da saldare.
Non è ancora neppure partita la sfida sportiva fra quelle che diventeranno le due società footballistiche più importanti della città che già emergono screzi, ripicche, piccole vendette personali da mettere in atto. Una in particolare, quella del vice presidente granata Alfred Dick che dalla Juventus se n’è andato sbattendo la porta. Minacciose, sportivamente parlando, le sue ultime parole prima di chiudere definitivamente il rapporto con i bianconeri: «Non finisce qui, state certi che ve la farò pagare».
E per farlo aveva dato anima a un nuovo team, il Torino, l’undici che da lì a un attimo li avrebbe affrontati. Finita la pacchia per i bianconeri, padroni assoluti del football cittadino, sovrastando per bravura e organizzazione tutte le altre varie squadre e squadrette. Col Toro, furente e sin da subito arrembante almeno nelle intenzioni, la musica sarebbe stata ben diversa.
Ademaro Biano, Friedrich Bollinger, Hugo Mützell, Arthur Rodgers, Federico Ferrari-Orsi, Eugène De Fernex, Enrico Debernardi, Walter Streule, Hans Kämpher, Jacques Michel, Alfred Jacquet.
Prima di sciamare in campo per andare ciascuno a collocarsi nella porzione di prato che gli spetta, i granata si raccolgono attorno a uno di loro, come volessero non solo stringere un patto, ma avessero ancora da ascoltare qualche consiglio. Tutte e due le cose. Chi li ha attorno a sé ribadisce lo spirito di squadra che li deve unire e dispensa le ultime osservazioni. Che sono:
- rispettare sempre, senza contestare, le decisioni arbitrali;
- mostrarsi leali nei confronti degli avversari, evitando azioni fallose e nel caso questo dovesse accadere, aiutare il rivale ad alzarsi da terra e poi stringergli cavallerescamente la mano;
- non attuare finte di gioco, trattandosi di comportamento ingannevole che non si concilia con il fair play;
- mantenere le posizioni in campo ed evitare di correre sempre tutti dove va il pallone;
- cercare di attuare, come più volte detto, un “gioco largo”, sfruttando al massimo la velocità delle estreme, in specie Debernardi;
- non perdere la calma qualora le cose non procedessero per il meglio, solo ragionando vi si può porre rimedio;
- restare uniti e compatti nell’ardore della contesa, pensando al gonfalone granata appena sorto e bisognoso di un avvio positivo;
- giocare al meglio delle proprie possibilità, per onorare lo sport e per un senso di dovere nei confronti dei compagni.
La voce che rammenta velocemente tutti questi concetti, elementari e quasi deamicisiani, è quella di Bollinger, ovvero del primo riconosciuto leader della squadra granata.
Da queste parole, pronunciate con un accento che tradisce in modo chiaro un’origine non italiana, parte la grande galoppata che porterà il Torino a diventare una delle società emerite del nostro calcio.
Bollinger è svizzero, come non pochi altri che compongono la rosa titolare del club. Se la matrice della rivale Juventus ha impronta italo-britannica, quella del Toro ce l’ha italo-elvetica, a cominciare dalla dirigenza.
Già giocatore in patria dell’Old Boys di Basilea oltre che, seppur giovanissimo, nazionale svizzero, e una volta sceso in Italia, per qualche apparizione bianconero, Bollinger è un fedelissimo di Dick. Magro, alto, brillante nei movimenti, serio, corretto, compassato, ordinato è l’immagine della cortesia e della eleganza. Giocare al football gli piace e lo vuole fare nel migliore dei modi, senza nulla trascurare. È convinto che non basti giocare bene, ma che anche all’estetica si debba concedere qualcosa. Per questo, in modo quasi maniacale, si è fatto attillare la divisa di gioco, quella ufficiale, da indossare nelle gare importanti. Un ulteriore tocco quasi civettuolo stava poi nella sciarpa color granata che lo stringeva ai fianchi e che terminava con due piccole nappe.
A margine di questa particolarità, per cui ben presentarsi è una delle componenti che a suo dire fanno di un giocatore un hors classe, vale riportare un breve ricordo di Vittorio Pozzo che lo ebbe per un paio di stagioni ai suoi ordini di trainer:
Bollinger era il prototipo dell’uomo che giocava sulla palla, per lui l’uomo, l’avversario era come se non esistesse. Era rarissimo che cadesse, non solo per l’abilità a restare saldo in piedi, ma anche per quella sua mania del decoro a tutti i costi. Anche nei giorni di terreno fangoso in cui tutti i giocatori erano ridotti a macchie di melma dopo dieci minuti di azione, Bollinger teneva a uscire dal campo con i pantaloncini intatti. Una delle rare eccezioni accadde sul campo della Andrea Doria a Genova. Colpito in pieno da una gomitata allo stomaco, cadde male, mordendosi la lingua e piombando a terra sulla punta del sedere. Rimase come un collegiale preso in fallo, lui con i suoi quindici anni di carriera, e velò l’impressione del suo turbamento con la frase irta di “r”: «Credevo di aver fatto un grosso buco per terra». Erre che lui arrota in modo quanto mai simpatico.
In merito al modo di giocare invece, all’epoca era additato come un esempio da imitare per l’ottima tecnica di gioco e il senso della posizione praticamente innato. La «Stampa Sportiva» lo segnala come il più efficace e bravo back in attività sui campi italiani e annota:
Capitano della squadra, è uno dei primi giocatori svizzeri venuti in Italia a mostrarci le finezze e le tecniche del football. Fu dapprima nella Juventus, dove giocò anche forward (attaccante), ora è passato al Torino e ne è il capitano. Anche in patria fu del resto sempre un giocatore fuoriclasse. Giocò in match internazionali nella squadra rappresentativa svizzera e fu una delle colonne dell’Old Boys di Basilea. Come tecnica di gioco è unico in Italia. Occupa un posto di back (difensore). Ha un gioco elegante, preciso e vigile sempre. Un beniamino del pubblico italiano, perché ovunque egli si porti a giocare gli è prodigo di meritati applausi.
Raro che in quegli anni qualcuno azzardasse un commento tecnico sulla prestazione di un calciatore. Se Bollinger se lo merita sta a significare che doveva essere per davvero in gamba.
In campo sa prendere posizione all’istante, valutando schemi e geometrie, sue e dei compagni. Quando è chiamato a intervenire sulla palla lo fa con energica sveltezza, senza troppi fronzoli e il più delle volte la palla è sua. Vanta un forte rimando con i due piedi, una qualità molto apprezzata in queste fasi di calcio eroico dove spazzare via l’area dal pericolo è cosa buona e giusta quale che sia il modo in cui lo si fa. Il tutto agendo sempre attraverso un modo di giocare calmo, sicuro e, ovviamente, elegante. Se bene gli riesce sottrarre la palla all’avversario, al punto che qualcuno osserva come la chance di poterlo superare in dribbling è pressoché nulla, altrettanto bene la sa difendere, la palla, forte anche dei trascorsi da attaccante.
Gli osservatori più acuti e critici quando proprio vogliono trovargli un difetto lo additano nello slancio agonistico che troppo sovente lo spinge in avanti, in aiuto delle punte, lasciando a volte scoperto il suo lato di difesa e trovandosi poi costretto a dei dietrofront, a recuperi affannosi, quando per un improvviso capovolgimento dell’azione la palla vola verso l’area che gli toccherebbe di custodire.
Ma Bollinger passa alle cronache anche per un modo tutto suo e particolarissimo di impattare il pallone, una mossa atletica detta, per l’appunto, “colpo alla Bollinger”:
Il suo sistema di pigliare la palla da qualsiasi parte arrivi e la sua velocità sono meravigliose e ne fa concreto esempio con un colpo particolare. Il modo che ha di calciare all’indietro la palla al volo, proiettandola non tanto in altezza, come più facile sarebbe, ma in lunghezza, sfiorando la spalla mandava la sfera in direzione contraria a quella dello slancio in corsa con una forza e una precisione spettacolose. In qualunque posizione gli giungesse la palla, dal lato destro o dal sinistro, era maestro nel colpirla. Essa si staccava dal suo piede con quel suono nitido e quasi metallico che rivelava come fosse stata colpita in pieno e nel giusto punto. Un rinvio che appariva di potenza ma che era soprattutto di precisione.
Senza nulla togliere agli altri componenti di questi primo Torino, capitan Bollinger si erge una spanna su tutti.
Giusto più che mai attribuirgli i gradi di leader che custodisce fino all’ultima sua gara in granata che cade il primo di febbraio del 1914. Sul campo di Stradale Stupinigi, il Toro supera l’Alessandria 4-2. A banchettare a gol sono Tirone e i fratelli Francesco e Eugenio Mosso. Bollinger si schiera sulla linea dei terzini avendo a fianco un altro personaggio che tanto ha dato al Torino dei primi passi, Vittorio Morelli di Popolo. Sono passati sette anni dal primo fatidico derby.
Lascia a soli trent’anni un po’ perché si sente “passato” e per lasciare spazio ai giovani e in parte anche per motivi di un lavoro che lo porta a Milano nelle vesti di direttore della Boston Blacking Co. Italiana, poi divenuta Bostik.
Nel suo personale taccuino granata è il primo giocatore del club a raggiungere quota cento presenze, contando oltre alle gare ufficiali anche le amichevoli. Come quelle che era tradizione disputare in città nei giorni delle feste pasquali, ospitando le prime compagini straniere che venivano ad affacciarsi nel nostro paese, incuriosite dal verificare la condizione del calcio italiano.
Nell’edizione del 1909 il torneo contempla quattro compagini. Quella italiana, formata da un mix di giocatori del Piemonte e del Torino, gli svizzeri del Winterthur, i tedeschi dello Stoccarda e gli inglesi del West Aukland, dalla maglia… juventina, a strisce bianconere. Sono questi ultimi a imporsi, superando elvetici e teutonici. Ma prima di andarsene il loro capitano, che come tutta la squadra ha seguito con attenzione anche le partite in cui erano impegnati gli italiani, stuzzicato su un parere non esita ad affermare:
Si è trattato di un torneo appassionante, dove si è giocato con slancio. Se mi chiedete un parere sui vostri giocatori, ebbene debbo riconoscere senza dubbio una cosa. Il back destro della squadra che rappresentava la città, mister Bollinger, il capitano, è senza dubbio di una classe superiore, a sé, e lo dico con convinzione, potrebbe tranquillamente giocare da noi, in Inghilterra, in qualunque dei nostri team professionistici.
Come a dire: promosso a pieni voti con una patente di abilità calcistica assoluta, dal momento che all’inizio del Novecento la scuola britannica era considerata da tutti il top assoluto. Agli inglesi, infatti, inventori del gioco, si guardava con ammirazione, sia sotto il profilo organizzativo, sia nell’ottica della loro bravura.
Grande esempio di moralità e galanteria sportiva, cedette la virtuale fascia di capitano all’amico e connazionale Enrico Bachmann che come lui la seppe onorare al meglio.
Entrato nella storia epica ed eroica del club, Bollinger ha goduto a lungo, fino a che in seno al club la conservazione della memoria è stato considerato un valore aggiunto, di grande stima e considerazione. A questo proposito vale la pena chiudere con un passaggio che Pozzo gli dedica, stralcio di un lungo articolo, comparso sulla rivista sociale quando già il grande difensore si era ritirato da tempo:
E terminò bene. Finì sportivamente granata come sportivamente era vissuto. Giocò il suo ultimo match per il Torino il 1° febbraio 1914 contro l’Alessandria, match vinto per 4-2. Finì applaudito entusiasticamente dal pubblico e lasciando una specie di nostalgico dolore nell’animo dei soci, che pareva non volessero credere che un simile campione potesse invecchiare. Nei match che il Torino disputa a Milano o nelle vicinanze, si nota ogni volta dietro il nostro goal (la porta), un signore alto, magro, dall’aria distinta, che segue nervosamente la gara e che definisce piemontesemente “sciapin” chi erra e “bravo” chi l’azzecca. È il buon Fritz, che la nostalgia del gioco e del club attrae sempre irresistibilmente. Egli non ha dimenticato il Torino. Socio entusiasta, sostenitore di questo nostro giornale, assicura che, se la Società lo desidera, egli si sente di giocare tutt’ora. E vuole combinare un match, lui coniugato, fra ammogliati e scapoli, tanto per fare la sua rentrée. Socio che pose al servizio del club oltre che le sue doti fisiche anche la sua intelligenza, fondatore del nostro sodalizio, benemerito sotto cento aspetti, Fritz Bollinger è una stella del nostro passato, un uomo che diede lustro alla Società col suo nome e col suo operato. E nel grado di potenza a cui è giunto ora il Torino, i 1300 nostri soci attuali devono rendere il doveroso omaggio del ricordo riconoscente a chi fu uno dei primi tre, a chi rese possibile il presente grandioso sviluppo, a chi può tuttora essere additato ai nostri giovani come un fulgido esempio di valore tecnico e morale. Per Bollinger hip, hip, hip hurrà!
Letture consigliate:
Franco Ossola, Il romanzo del Toro, Priuli & Verlucca, Scarmagno, 2014.
Franco Ossola, Giampaolo Muliari, Un secolo di Toro, Editrice Il Punto, Torino, 2005.
Vittorio Pozzo, I ricordi di Pozzo, Calcio illustrato, fascicoli anni Quaranta.