Angelo Cereser

La linea del Piave

(Eraclea, 6 aprile 1944)

 

 

 

 

 

 

Nella vita di un ragazzo che ha nel cuore il desiderio, la voglia, la fissa di fare il calciatore anche qualche punto di sutura in testa non è necessariamente un dramma, ma, ribaltando il fatto nel “non tutto il male viene per nuocere”, può trasformarsi in fatto provvidenziale. Spieghiamoci meglio.

Quando Cereser incomincia a innamorarsi del pallone, la sua attenzione, il suo primitivo istinto, è quello di mettersi a custodia della porta. È un coraggioso e gli piace la sfida, quella, per esempio, di impedire che l’avversario possa nuocere. Quale ruolo migliore per questo, si chiede nella sua immaginazione, di quello del portiere?

E così le prime esperienze lo vedono incorniciato nel rettangolo di pali e traversa. Certo, ad accoglierlo sono i campetti di periferia, le squadrette senza pretese, giocare per il gusto di farlo, tuttavia per lui e i suoi compagni – come accade d’altra parte per tutti i ragazzini alle prese con il football – è come essere a San Siro, al Maracanà, al centro del mondo.

Un giorno però succede l’imprevisto: una bella ferita in testa, un po’ di sangue, tanto spavento e qualche punto di sutura. A casa scatta immediato l’alt: se per tirare calci a un pallone ti fracassi la capoccia, scordati di tornare a fare il portiere, e non ci sono né se né ma. Questo l’imperativo di mamma. Giorni bui, rabbia, ma poi la passione è così forte che Angelo strappa un consenso diverso: ok, in porta non ci vado più, promesso, ma nel resto del campo sì, è troppo bello.

La primitiva idea di difendere però non tramonta. Siccome il fisico c’è, il temperamento pure e, alla fine, sebbene ancora acerbi, anche i piedi non sono malaccio, la scelta è automatica per un posto nella retroguardia. Non importa dove, al centro o a lato, anche se il piede preferito, d’istinto, è il destro. Nel San Donà, la squadra in cui milita nel campionato dell’allora serie D, scalpita fra i rincalzi, vuole prendersi la prima squadra e ce la fa. Un’emergenza lo chiama al debutto. Se la cava bene e da quel momento non lascia più la maglia.

Essere bravi è importante, ma lo è altrettanto trovarsi nel momento e nel luogo giusti. Ecco perché lo sguardo competente di Cesare Nay non poteva arrivare con miglior tempismo di quando – siamo nel 1962 – va a posarsi sulle sue gambe già toniche e su quel suo modo di stare all’erta, davanti ai quali chi un poco s’intende di cose calcistiche non può restare indifferente.

Nay, che negli intensi anni di agonismo battagliando in A con squadre importanti come Triestina, Torino e Juventus, è stato valente difensore centrale, uno di quelli che amavano la lotta senza mai tirar via il piede, nel ruspante Cereser avverte una sorta di riconoscimento dei suoi anni giovanili: grinta e foga, slancio e determinazione. Segnalarlo al Torino, a cui è rimasto sentimentalmente legato e, in particolare al gruppo di dirigenti e tecnici che fa capo al dottor Alberto Lievore, è l’atto conclusivo della sua opera di scout.

Tutto fila liscio, il ragazzo è idoneo, consulto familiare, decisione importante, si parte dunque per Torino: o la va o la spacca. Non facile lasciarsi alle spalle tutto: famiglia, amici, la vita semplice e schietta della provincia, la libertà, per approdare in una metropoli, così lontana da tutto il suo vissuto fino a quel momento.

L’impatto è cocente. Lui stesso confessa e ricorda:

 

Il Torino, il grande calcio, fantasticavo. Poi la realtà, nella sua crudezza. Incominciano annate dure, ben lontane dall’idea, quasi mitica, del calciatore, solo circondato da benessere e soddisfazioni. Sono le stagioni delle quindicimila lire al mese, del pensionato da condividere con tanti altri ragazzi, che hanno il tuo stesso sogno: farcela, e che ti sono amici, ma allo stesso tempo potrebbero magari soffiarti il posto. Anni che al solo pensarci mi dolgono i piedi per le lunghe camminate per risparmiare i soldini del tram, dei cinema di seconda visione, delle poche sigarette per di più fumate in due.

 

Tuttavia, la prima volta che aveva messo piede al Filadelfia si era sentito il petto gonfio di orgoglio. Gli era sembrato non di entrare in un impianto sportivo, ma in una specie di santuario laico. L’aria, l’erba, gli spalti, i mattoni invecchiati, la vetusta tribuna in legno con la grande lapide della memoria, gli anziani tifosi: una coreografia incredibile tutta tesa, pur inconsapevolmente, al ricordo dei Campionissimi del Grande Torino. Un’emozione unica, un bagno, una sacra immersione nella storia e nella gloria.

In situazioni simili, scatta immediato un senso profondo di appartenenza.

Una sensazione che Cereser non scorderà mai e che resterà, arricchendolo, nel suo bagaglio di giocatore per tutto il tempo della sua militanza nel Torino e anche dopo, nella spiccata, disinvolta capacità di ricordare, raccontare la sua carriera, non mancando a volte di farlo anche con un vivo tono di commozione. Un corollario aggiuntivo di estrema importanza che va ad aggiungersi a un temperamento concreto.

È questa, la concretezza, la pasta di cui è fatto l’atleta. Nessuna concessione all’estetica, nessun via libera a improvvisazioni che non siano utili all’economia della squadra, nessun gingillo in campo. In questo ha esempi guida che vibrano sulla sua stessa lunghezza d’onda. Tradizione e presente: gente come Mario Rigamonti per il passato, mentre per il presente bastano e avanzano i nomi di Roberto Rosato e Giorgio Ferrini.

Sacrifici, che altro non sono che prezioso raccolto messo in cascina. La forgia che dà ulteriore tempra a un carattere già teso e volitivo, l’accumularsi di potenziale da tenere sotto controllo al fine di lasciarlo poi sfogare quando arriverà il tempo giusto. Questo orologio speciale ed esaltante batte il suo tocco nel settembre del 1965. Sono passati tre anni dall’arrivo al Filadelfia, da tempo Cereser è aggregato alla rosa della prima squadra. Ci sono occasioni in cui immagina sia arrivata l’ora del debutto, altre in cui la speranza si sgonfia.

La chiamata non se l’aspetta, ma arriva e per questo, con la mossa a sorpresa di Paron Rocco, la felicità è doppia ed elettrizzante. Il Torino è chiamato sul non facile terreno di Ferrara, contro una Spal che non sarà un fulmine di guerra, ma che sul suo campo ha sempre saputo farsi rispettare e, in proiezione, schiera nomi che si faranno ancora largo nello scenario del nostro calcio come allenatori: Osvaldo Bagnoli, Edoardo Reja e Fabio Capello. Si gioca, il match finisce 0-0, Cereser che ha in guardia il centravanti Innocenti lo francobolla come suolsi. Operazione conclusa in modo positivo.

Da lontano, un altro mentore ha seguito il suo lancio in prima squadra e non può che provare una ennesima grande soddisfazione. Oberdan Ussello lo ha avuto ai suoi ordini nelle giovanili e ora vederlo fra i grandi gli riempie il cuore. Da sempre dice che seguire il vivaio è più che una missione, perché oltre all’atleta si deve plasmare anche il carattere del ragazzo che sta per diventare uomo. Una responsabilità grande e quando qualcuno ce la fa, mettendo insieme con armonia i due aspetti, vuol dire che non si è seminato invano:

 

Cereser mi venne affidato quando aveva 17 anni, è cresciuto con noi, nelle giovanili scalandole passo passo con ottimo rendimento. Il signor Rocco lo ha preso in prestito assai presto per fargli assimilare l’aria della prima squadra. Ora accolgo la notizia del suo debutto in serie A con autentica soddisfazione. Per mio conto, lo vedo idealmente collocato nel ruolo di stopper sulla punta centrale, anche se il fisico prestante gli consente di giocare in ogni posizione difensiva. Direi anche da libero nel momento riesca a padroneggiare meglio il controllo della palla, cosa che potrà fare ma solo giocando. È un buon colpitore di testa, su tutto però quello che lo caratterizza è l’atteggiamento quasi guerriero dell’approccio alla gara, possiede una buona dose di grinta.

 

La stagione successiva (1966-67) Rocco è in fibrillazione. Le sirene, mai spente, del suo Milan, col Padova la squadra del suo cuore, lo attraggono irresistibilmente come una calamita. Ad aspettarlo in rossonero c’è già Rosato che, proprio lui auspice, era stato ceduto dal presidente Pianelli per fare cassa. Il disappunto dei tifosi è innegabile, dal momento che Rosato non solo era cresciuto al Filadelfia ma stava toccando livelli di rendimento da fuoriclasse. La delusione dei sostenitori però dura poco – resterà, nel tempo, come un senso di nostalgia per il campione perso – perché il suo posto tocca a un altro granatino come lui, Cereser appunto, fatto della stessa sua pasta, altrettanto coriaceo e roccioso, implacabile nella marcatura.

Cereser gioca a calcio come ha sempre fatto, interpretando l’impegno come gli viene da dire all’unisono con il grande campione vercellese del passato Guido Ara: “sport non del tutto idoneo alle signorine, gioco puro e se volete duro”. In questo si veste della corazza resa nota dalla tradizione della cosiddetta “razza Piave”, per l’appunto la sua, uomini tutti d’un pezzo, capaci di lottare e di sacrificarsi sempre. A proposito di linea, non gli spiace neppure fantasticarne una immaginaria quando scende il campo. È un ricordo da ragazzo quando giocava su campi sterrati e prati spelacchiati, quando chi giocava in difesa, solo in apparenza ridendo, tracciava per davvero una linea per terra oltre alla quale, nelle intenzioni, l’attaccante avversario non avrebbe dovuto procedere; una sorta di sfida, di provocazione e anche un po’ un gesto intimidatorio. Esternato il pensiero, ci vuol poco per i tifosi battezzarlo “Trincea”, dando pienamente il segno che per Angelo Cereser ogni partita è come una piccola battaglia, uno scontro da cavalieri erranti nell’universo calcistico.

Osservatori e critici sovente storcono il naso, ritengono che la sua decisione vada spesso oltre il limite, vale a dire si trasformi in atto da penalizzare. Da parte sua lui non ci sta e reagisce, con un sorrisino da finto ingenuo sulle labbra, replicando che essere maschi in campo non è peccato e neppure sgarbo inflitto al gioco, lo è se si approfitta della propria prestanza fisica in modo improprio e con l’intenzione di prevaricare anche le regole arbitrali. Tuttavia, è pur comunque vero che malgrado le buone intenzioni, lo slancio garibaldino, che è il gas che alimenta la sua azione, qualche volta scarica un po’ troppo. Qualche ammonizione si fa inevitabile.

Ma son critiche a cui poco bada, gioca così e se a qualcuno garba poco, non sono affari suoi.

La maturazione arriva, dopo Rocco, con Edmondo Fabbri, che il presidente Pianelli accoglie a braccia aperte dopo il misfatto della Corea ai Mondiali di Londra ’66. Cereser è ormai un atleta completo, la mediana granata diventa rocciosa e sicura con un trio di cui lui è il perno centrale: Puia, l’airone che vola alto a far suoi i palloni aerei; Cereser, Agroppi, il fenicottero dinoccolato che, come lui, si è svezzato al calcio al Filadelfia e sente la maglia come qualcosa dal quale non riesce proprio a distaccarsi.

Quasi sempre presente nelle due annate di guida granata a firma Giancarlo Cadè, superata una certa incomprensione col successivo trainer Gustavo Giagnoni, lasciata alle spalle l’annata nera che fa capo al 1972 dove gliene succedono di tutte fra infortuni e incidenti, con il ritorno del figliol prodigo Fabbri sulla panchina granata, per lui torna il sereno, ma è solo uno squarcio momentaneo in un cielo che sin dalla fine del campionato si fa grigio per diventare plumbeo in estate, quando la campagna cessioni-acquisti del 1974-75 lo vede fare le valigie destinazione Bologna. Intendiamoci, un club dalla grande tradizione, una città affascinante, una piazza calcistica di prestigio… ma Angelo è a Torino che, con tutto il cuore, intendeva chiudere la sua parabola sportiva. E poi, andarsene proprio sul più bello quando il suo Toro stava per ergere il suo vessillo sul pennone più alto! Ma il nuovo trainer, Gigi Radice, era stato perentorio nel chiedere alla dirigenza una mezza rivoluzione nell’organico, dando via libera a molti: Agroppi, Callioni, Mascetti, Quadri, Roccotelli, Ferdinando Rossi e lui appunto. Si era sentito come quel maratoneta che al momento di concludere la massacrante fatica si lascia cadere sfinito, non riuscendo a portare a termine la gara, dire deluso era poco.

Nella valigia che lo accompagna a Bologna si porta comunque dentro un buon bottino: due coppe Italia (1967-68 e 1970-71) e soprattutto un affetto incondizionato dei tifosi granata che lo tengono nell’album dei più fedeli giocatori granata di sempre, riconoscendogli, in aggiunta, quel senso di appartenenza alle “cose” del Toro in lui vivo come in pochi altri.

 

 

Letture consigliate:

aa.vv., Il Torino, una fede, s.e.s., Firenze, 1985.

Paolo Ferrero, Angelo Cereser, una vita in trincea, Bradipolibri, Torino, 2019.

Franco Ossola, I campioni che hanno fatto grande il Torino, Newton & Compton, Roma, 2015.